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di Carlo Musilli
Con la caduta in Lombardia, la destra chiude quasi simbolicamente un ventennio di malgoverno a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica. E lo fa proprio lì dove tutto è cominciato, nella terra di nascita del fu partito personale Forza Italia. "Si può votare in un periodo compreso tra 45 e 90 giorni, quindi è realistica la previsione di elezioni a gennaio". A meno di improbabili ripensamenti della Lega, è questo il progetto del governatore Roberto Formigoni per il futuro prossimo della sua Regione.
Nell'ultimo scampolo di legislatura, il Celeste punta a organizzare "una giunta breve con due compiti precisi: riformare la legge elettorale abolendo il listino e approvare il bilancio". A quel punto, una volta chiusi i giochi, Formigoni non si ricandiderà alla presidenza della Regione. Ha in mente altri nomi, "ad esempio l'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini". Ma questo, a suo dire, non significa ritirarsi dalla "battaglia politica": il quasi ex-governatore, tanto per cominciare, non lascerà l'incarico di commissario per l'Expo di Milano.
In ogni caso, dopo 17 anni la sua parabola da governatore è terminata e al Celeste non rimane che combattere per non sparire nel nulla a fine legislatura. E guardando indietro, attraverso i quattro mandati di Formigoni in Regione, si scorge una riproduzione in scala locale di quello che il berlusconismo ha significato per il Paese dalla metà degli anni Novanta.
Una concezione della politica come arte dell'imbonimento, dello spettacolo preparatorio che tutto annuncia per poi smentirsi clamorosamente nei fatti. Un modello in cui al leader carismatico e rassicurante si demanda ogni capacità critica, sempre disposti a lasciarsi convincere da qualsiasi auto-assoluzione sommaria. Il Celeste oggi lascia il Pirellone rivendicando anni di buon governo, "anzi, ottimo". E questo basta come sempre a cancellare di netto il degrado della realtà reale, quella che parla di una Regione con 14 politici indagati su un totale di 80 poltrone. Esattamente come fece il Cavaliere poco meno di un anno fa, quando si dimise lasciando un Paese disastrato, ma presentò il suo passo indietro come un "alto gesto di responsabilità", dettato esclusivamente dal tradimento di un alleato e dalla tirannia irrazionale dello spread.
A ben vedere, nel ventennio di Formigoni in Lombardia ci sono quasi tutti gli ingredienti fondamentali della politica al tempo di Beautiful. Si pensi alla reazione del governatore dopo l'arresto dell'assessore Domenico Zambetti, accusato di aver pagato alla 'ndrangheta 200mila euro in cambio di 4mila voti. Lo scandalo ha portato la Lega ad abbandonare la nave e Formigoni ne è rimasto sorpreso. Sinceramente, viene da credere. Nel rispetto di una tradizione ormai consolidata, il governatore prima di abbandonare la poltrona ha dovuto attendere che accadesse l'irreparabile. Ancora ieri aspettava pietosamente che il Carroccio gli concedesse di restare, come se il capo della giunta non fosse responsabile per la condotta dei propri assessori. E quando andrà via, naturalmente, lo farà solo perché costretto dal "ribaltone leghista".
Una lettura com'è ovvio distorta, visto che solo negli ultimi anni Formigoni di motivi per dimettersi ne avrebbe avuti da vendere. Zambetti non è il primo assessore a finire in manette sotto il suo governo: è il quinto.
Restringendo lo sguardo solo all'ultimo triennio, il Celeste si è reso protagonista di più d'una condotta oltre i limiti della decenza. Il primo episodio risale al 2010, ma ha una coda nell'attualità. La settimana scorsa il governatore è stato condannato a pagare 900 euro di multa e altri 100mila di risarcimento per aver diffamato i Radicali. Un anno fa due esponenti della lista Bonino-Pannella avevano scoperto 926 firme false fra quelle presentate dalla lista Formigoni alle elezioni regionali, firme senza le quali il Celeste non avrebbe potuto nemmeno candidarsi. (Una vicenda che richiama in modo inquietante quella di Michele Giovane, il consigliere che in Piemonte è stato condannato in primo grado e in appello per aver certificato firme false in favore dell'attuale governatore leghista, Roberto Cota).
Messo alle strette, Formigoni scelse di gridare al complotto. Non contro la magistratura comunista, ma contro i Radicali, "rimasti 12 ore da soli con in mano penne e borse" a controllare i registri con le firme, avrebbero "potuto manipolare le liste, correggerle, spostare i documenti come volevano". Una ricostruzione che secondo il pm è falsa. Come le firme.
Ma dopo i dubbi sulla legittimità stessa delle elezioni, ci sono quelli sui candidati. Il caso più rappresentativo è senza dubbio quello di Nicole Minetti, ormai conosciuta da tutta Italia come iconografia suprema della donna Pdl. All'epoca era solo una procace e sconosciuta igienista dentale di 25 anni e fu eletta in Consiglio regionale proprio grazie a quel "listino bloccato" contro cui oggi Formigoni imbastisce la sua ultima crociata. In sintesi, il nome della Minetti fu inserito nella stretta cerchia dei candidati che venivano automaticamente eletti in caso di riconferma del governatore. Il che è la riproduzione in piccolo di quello che accade su base nazionale con il Porcellum.
A imporre il nome della ragazza fu naturalmente sua maestà Silvio Berlusconi e le cronache dei mesi seguenti ne svelarono il motivo. Oggi la Minetti è indagata dalla Procura di Milano nell'ambito del processo Ruby per favoreggiamento e induzione alla prostituzione, ma più probabilmente passerà alla storia come la reginetta dei festini sudaticci e debosciati della reggia d'Arcore.
Arriviamo così alla ciliegina sulla torta nella vita politica di Formigoni, la vicenda che maggiormente lo preoccupa e lo irrita. Il governatore è indagato per concorso in corruzione insieme al suo caro amico Pierangelo Daccò, ex consulente di varie aziende sanitarie appaltatrici della Regione Lombardia. L'ipotesi dell'accusa è che per anni Daccò abbia pagato al Celeste viaggi e comfort extra-lusso (8,5 milioni di euro in tutto), ottenendo in cambio delibere e fondi del Pirellone - per un totale di circa 200 milioni - in favore delle strutture sanitarie a lui collegate. Fra tutte spicca la fondazione Maugeri di Pavia, dalla quale Daccò avrebbe ricevuto 70 milioni di euro successivamente dirottati come fondi neri in un sistema di società off-shore.
Formigoni ha passato mesi a smentire questa ricostruzione. Sostiene di aver sempre pagato le vacanze di tasca propria, rimborsando l'amico ogni volta che questi gli anticipava dei soldi. Un'autodifesa a cui bisognerebbe credere sulla parola: "Quando dai dei soldi a un amico - è il mantra ripetuto fino alla noia dal governatore -, poi gli chiedi la ricevuta?".
Certo che no, ma in teoria basterebbe produrre la documentazione sui movimenti bancari di quel periodo per dimostrare a tutti d'aver pagato la propria quota. Purtroppo, se esistono, quelle distinte sono ancora segrete. Nella migliore delle ipotesi il Celeste non ritiene che il suo ruolo pubblico lo obblighi a dar prova d'onestà. A decidere saranno naturalmente i magistrati, ma è certo è che fin qui l'autodifesa dal Celeste non suona più convincente di quella della collega del Lazio, Renata Polverini ("Le ostriche in Consiglio c'erano già prima di me"). Né, volendo, del "burlesque" di Arcore.
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di Giovanni Gnazzi
Veltroni ha garantito in televisione che non si candiderà più. Nessuna pulsione africana, resterà in Italia a fare quello che ha sempre fatto e questa della sua rinuncia è dunque una buona notizia solo a metà. I maliziosi dicono che si preparerebbe a candidarsi a sindaco di Roma. A volte ritornano? D’Alema, dal canto suo, ha affermato che si candiderà “se lo chiede il partito”, che vuol dire tutto e il suo contrario, vista la genericità del soggetto. Parla infatti del gruppo dirigente? Della base? Di quella del sud? Delle numerose persone che hanno firmato l’appello uscito sull’Unità di ieri?
Certo, anche nell’effettuare (o far finta di farlo) il famoso “passo indietro”, i due denotano una cultura politica decisamente diversa. Uno é stato comunista e non sputa sul suo passato, l'altro non lo é mai stato e il passato l'ha sempre usato per farsi strada. Veltroni continua a pensare ergendosi al di sopra del partito, D’Alema continua a ritenersi, prima di ogni altra cosa, uomo di partito. Una differenza che racconta molto di più di quello che le due prese di posizione apparentemente esibiscono.
La sensazione è che sia il filosofo delle figurine Panini, sia l’ex segretario, premier, ministro e ancora presidente del Copasir ,vogliano entrare a gamba tesa nel dibattito interno del loro partito e che D’Alema, in particolare, proponga quasi una sorta di referendum sul suo nome. Incauto appare, immemore soprattutto di come proprio da lui venne mandato a casa Natta e inconscio, forse, del grado di appeal che la rottamazione suscita di per sé anche nelle fila del suo partito.
Perché sembra che l’articolo dello Statuto del partito che prevede siano al massimo tre le legislature consecutive possibili per i suoi esponenti, potrebbe essere legittimamente praticato senza bisogno di ulteriori pronunciamenti da parte di non meglio precisate istanze di partito. Arrampicarsi sull’interpretazione della norma (legislatura piena di cinque anni o comunque effettuata quale che sia stata la sua durata) perché molti esponenti di primo piano del PD sono in Parlamento da più di vent’anni. Dunque, a meno non si voglia proporre che i mandati debbano essere misurati solo dalla nascita del PD, c’è poco da interpretare se non ci si vuole rendere ridicoli.
Ma il punto non è tanto se D’Alema o chi per lui dovrà o no rientrare in Parlamento, bensì proprio questa ansia di rottamazione che, sempre più, appare come la figlia minore di una compulsione generale che si chiama, semplicemente, rifiuto della politica. Quella fatta da politicanti, composta di riti e personaggi che ormai rappresentano, anche loro malgrado, la politica del compromesso e delle stanze chiuse, della degenerazione progressiva dei valori in funzione del raggiungimento del potere.
E c’è poco da arzigogolare sulle regole delle primarie, giacché la loro assurdità di fondo non servirà ad evitare un fatto: chiunque vinca, tra Bersani e Renzi, farà a meno della vecchia guardia. Anzi, proprio per vincere, dovranno dichiararlo da subito, giacché l’elettorato del PD sente un’ansia di rinnovamento che vede al primo step la piacevole rinuncia a questi dirigenti, condottieri di ogni sconfitta.
Certo, saggezza vorrebbe che prima ancora che degli esponenti dei partiti, sarebbe bene parlare dei partiti stessi, trasformatisi progressivamente in collettori elettorali al netto delle ideologie. Il mito del partito post-ideologico è stata la pietra miliare della costruzione dell’indistinto, della politica come ammucchiata indecente di teoriche diversità. La fine del partito come intellettuale collettivo e come soggetto di formazione, in qualche modo pedagogico nei confronti della società.
I partiti, a maggior ragione quelli progressisti, dovevano formare politicamente le masse per poter spostare gli equilibri dei poteri, ma il loro appannamento progressivo, l’incedere pedante dello svuotamento identitario in funzione della crescita del peso elettorale a prescindere dalla collocazione ideale e politica, ha prodotto i mostri che ora, forse maldestramente, si vuol combattere con ramazza e piccone.
Il PD di Veltroni e D’Alema è stato soprattutto questo. La lunga marcia dell’ex partito comunista verso i rilassanti e confortevoli approdi centristi, nel limbo assoluto delle ideologie che ha fagocitato ogni operazione. Una mutazione genetica totale, che ha invertito completamente le funzioni stesse del suo agire oltre che la sua missione politica.
Si scelse il dialogo con il mondo cattolico, si riteneva che in Italia la maggioranza dell’elettorato fosse conservatrice e, da qui, la necessità di dividere i moderati dai reazionari, i conservatori dalla destra, giacché impensabile era poter contare solo sulla forza della sinistra per vincere. Dalla “svolta di Salerno” al compromesso storico, persino alla mai troppo criticata stagione dell’unità nazionale, si trattò di strategia politica; discutibile nei suoi contenuti, ma non liquidabile con anatemi estremistici, e in ogni caso non imputabile di rottamazione ideale.
La scelta era comunque questa: costruire un quadro di alleanze per cambiare i rapporti di forza nel paese e un voto su tre al PCI rappresentò in qualche modo una indiretta conferma della strategia politica, almeno in una fase storica.
Ma dalla chiusura del PCI, per finire al PD, la mutazione genetica ha assunto i contorni della disfatta ideale e politica. Perché se spostare l’elettorato moderato verso la sinistra era l’intenzione dichiarata, trasferire i progressisti verso i moderati è stata la risultante finale. In questo senso, cambia poco per gli elettori la sorte dei due: Veltroni ha già fatto il massimo del danno possibile, D’Alema ha accettato il progressivo ripiegamento per salvare se stesso. Due fallimenti per due duellanti.
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di Carlo Musilli
L'autodistruzione della Regione Lombardia si è compiuta e le elezioni ormai sono dietro l'angolo. L'ultimatum arrivato sabato dalla Lega, che aveva chiesto di votare ad aprile insieme alle politiche, ha indotto Angelino Alfano a mollare la presa: "Basta con l'accanimento teraupetico", ha detto ieri il segretario del Pdl. Il governatore Roberto Formigoni però non ci sta a rimanere sulla graticola per sei mesi: "Si andrà al voto il prima possibile - ha tuonato dai microfoni Canale 5 - e alle elezioni io sarò sicuramente in campo, anche se con una posizione ancora da determinare". Insomma, il Celeste probabilmente non si ricandiderà alla Presidenza. Dopo ben 17 anni, stavolta la sua lunga stagione da governatore sembra davvero al capolinea.
Certo, l'agonia è stata lunga. Per dare la spallata decisiva alla prima Regione d'Italia è entrata in gioco addirittura la 'ndrangheta. Dopo l'arresto dell'assessore Domenico Zambetti - che avrebbe versato ai clan 200mila euro in cambio di 4mila voti - Formigoni aveva annunciato con squilli di tromba l'intenzione di prodursi in un "gesto forte". Qualche ora di suspence, poi il colpo di scena deludente: il governatore voleva cavarsela azzerando la giunta e nominando una nuova squadra a schieramento ridotto. Un po' scarso come segnale di discontinuità, un gesto minimo più che "forte", anche perché così facendo sarebbe rimasto in carica l'intero Consiglio regionale. Non esattamente un cenacolo senza macchia: se sommiamo consiglieri e assessori, dall'inizio della legislatura arriviamo alla vetta di 14 indagati.
Subito dopo l'ennesimo scandalo, Alfano aveva tentato di sostenere Formigoni con tutta la convinzione possibile. D'altra parte, è ormai prassi consolidata nel Pdl cercare di evitare in ogni modo le dimissioni dei vertici, così da non creare scomodi precedenti. Senza contare che la ferita aperta dal Laziogate è ancora fresca e che le correnti con velleità di scissione sono tutt'altro che sedate. A completare il quadro dei mal di pancia ci sono poi incertezze sulla legge elettorale e su chi sarà il prossimo candidato premier, dopo il tira e molla di Silvio Berlusconi.
Per tutte queste ragioni, giovedì scorso Alfano aveva convocato un vertice straordinario in via dell'Umiltà. Alla riunione, oltre al governatore lombardo, era presente anche il numero uno della Lega, Roberto Maroni. L'intesa per arrivare a fine legislatura sembrava raggiunta, ma la base leghista non aveva affatto gradito. E così, sabato, al Consiglio federale del Carroccio era passata la linea dura del segretario lombardo Matteo Salvini: si vota a primavera.
L'ulteriore accelerazione di Formigoni ha poi indotto Maroni a convocare per il prossimo fine settimana delle "vere e proprie primarie": sabato e domenica gli elettori in camicia verde potranno votare il loro candidato preferito (non c'è una rosa di nomi fra cui scegliere) in uno dei 1.500 gazebo del Carroccio.
A ben vedere, la Lega in Lombardia ha svolto lo stesso ruolo dell'Udc nel Lazio, determinando la caduta di un governatore che altrimenti non si sarebbe mosso di un centimetro. In effetti, dal punto di vista padano, era questa la scelta più sensata.
Il compito numero uno del nuovo corso maroniano è ricucire il rapporto con la base, ricostruire un'immagine dura e pura agli occhi degli attivisti. I leghisti "sul territorio" non hanno dimenticato lo scandalo Belsito e la triste caduta del fondatore Umberto Bossi è una delusione ancora difficile da superare. Maroni si è preso questa responsabilità armato di ramazza, promettendo anche l'impossibile (ad esempio le dimissioni di Rosi Mauro - mai arrivate - dalla vicepresidenza del Senato). Come poteva salvare un Presidente che ha lasciato entrare la 'ndrangheta nel Pirellone? Semplice, non poteva.
"Gli accordi erano diversi", si lamenta Formigoni. "La durata delle legislatura non rientrava nei patti", la replica glaciale di Maroni. Come spesso accade negli ultimi tempi, l'unico a tacere è Berlusconi, che evidentemente si concentra sulla visione d'insieme. Secondo indiscrezioni della settimana scorsa, ci sarebbe già l'intesa per assicurare la presidenza della Lombardia ad Attilio Fontana, sindaco di Varese e maroniano doc. Forse è questa la strada per evitare di mettere a rischio l'alleanza tra Pdl e Carroccio anche in Piemonte e in Veneto, dove a governare sono i leghisti Roberto Cota e Luca Zaia.
Il sacrificio di Formigoni sarebbe quindi un danno collaterale accettabile in vista di un bene superiore. L'asse del Nord va protetto a ogni costo, anche perché ad aprile si tornerà a votare per le politiche. E dopo lo sdegnato rifiuto dell'Udc di Casini, il Pdl ha un disperato bisogno di alleati.
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di Mariavittoria Orsolato
La data di scadenza del governo tecnico si avvicina. Aprile è praticamente dietro l'angolo e lo stato pietoso in cui versa la politica “tradizionale” - esposta al pubblico ludibrio grazie alle maldestre ruberie di cui si rende protagonista in modo trasversale - annuncia l'ingrossarsi delle fila degli elettori indecisi, stretti tra l'incudine dell'antipolitica e il martello dell'austerità tecnica. Il terreno è dunque fertile per un bis tecnocratico, grazie anche ad un'informazione che non perde occasione per incensare il premier e la sua azione salvifica.
Sarà anche per questo che Mario Monti, dopo aver molto insistito sulla “transitorietà” della sua “mission”, sulla possibilità di un secondo mandato ci sta facendo realmente un pensierino. La scorsa settimana, dagli Stati Uniti, il premier aveva infatti detto di essere disponibile a guidare un governo dopo le elezioni, nel caso in cui le forze politiche dovessero ritenerlo necessario. Tornato in Italia, due giorni fa, è tornato sui suoi passi dicendosi assolutamente intenzionato a lasciare a non meglio precisati “altri” il governo del Paese.
Un balletto da vera primadonna che, alimentato dall'insistente corteggiamento di Udc, Fli e Montezemolo, rischia di fossilizzare il dibattito pre-elettorale sul quesito “Monti si, Monti no” rubando spazio ai temi cardine di una campagna decisiva come quella per la prossima legislatura. Una legislatura che, a rigor di logica, necessariamente dovrebbe traghettarci fuori dalla crisi economica, dalla recessione e dal collasso sociale e istituzionale. Che l'impresa sia di quelle titaniche lo dimostra la titubanza con cui i partiti stanno affrontando il rinnovo della legge elettorale e lo conferma la latitanza di candidati (Pd escluso ma, si sa, che il troppo storpia) pronti ad accollarsi la responsabilità di governo.
Una responsabilità che Monti non disdegna: “Sono disposto a servire il paese in condizioni eccezionali”. E per condizioni eccezionali intende che se l’Italia sarà in una situazione drammatica e se i partiti saranno disposti a prolungare la durata della legislatura - o al limite formare una grosse Koalition che possa essere l’unica possibile vincitrice e azzeri di conseguenza il dibattito elettorale - allora il bocconiano è a disposizione. Altrimenti no. Ma se, a quanto pare, tutti tranne Fini e Casini aberrano questo scenario, di cosa continuano a blaterare i due fondatori del già defunto Terzo Polo?
Messi assieme i due partiti raccolgono a malapena il 9% delle preferenze e, sebbene gli avversari si attestino su cifre assolutamente modeste per quello che avrebbe dovuto essere un sistema bipolare, la loro corsa a palazzo Chigi è poco più di un miraggio.
Dall'altro lato Pd e Pdl sono abbarbicati allo status quo e non accettano di venire scalzati da una tecnocrazia che, almeno nelle intenzioni, vuole riformare il peso dei partiti legandoli ad un'efficienza che storicamente non gli è mai appartenuta.
Dopo la dimissioni coatte e la consegna nominale del partito al delfino improvvisato Angelino Alfano, quel che conta per Berlusconi è legittimare la sua presenza al tavolo del negoziato sul che fare dopo le elezioni. Un che fare che - vale la pena ripeterlo - riguarda non solo la formazione del nuovo governo ma interessa soprattutto la scelta del nuovo inquilino del Quirinale, posizione a cui il cavaliere non ha mai smesso di ambire.
Chi rischia di più è però il Pd di Bersani. La scelta di Casini di sposare anzitempo il rinnovo del mandato a Monti ha scombinato i piani del segretario democratico che punta a entrare a Palazzo Chigi da vincitore. Bersani contava sull'alleanza con Casini, ma il leader dell'Udc si è sfilato. L'idea di dividere l'esecutivo con Vendola non lo ha mai entusiasmato e i commenti al vetriolo che hanno seguito l'indiscrezione sull'improbabile matrimonio hanno confermato che era meglio lasciar perdere. Senza i centristi la vittoria dei democratici è inevitabilmente in forse e, grazie anche a una legge elettorale che non verrà riformata, la nuova legislatura rischia di diventare una pericolosa impasse.
Comunque vadano le cose, Monti non abbandonerà la politica. Già prima che gli venisse offerta la possibilità di un secondo mandato, il premier aveva affermato di non intendere rinunciare al seggio (e al remunerativo quanto comodo vitalizio) di senatore a vita. Che poi da quello voglia arrivare alla Presidenza della Repubblica è un altro paio di maniche, ed è uno scenario che sinceramente non ci auguriamo.
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di Carlo Musilli
Votare sì, ma quando? Nel Lazio lo scontro politico si sta spostando dalle fatture allegre del gruppo Pdl alle pagine del calendario. Dopo lo scandalo e le dimissioni, da giorni gli elettori aspettano di sapere il giorno in cui potranno scegliere i loro prossimi rappresentanti alla Regione. Fin qui, però, l'unica cosa ben definita sono gli schieramenti: da una parte la governatrice uscente Renata Polverini punta a rinviare le elezioni fino ad aprile, spalleggiata come mai prima d'ora dal sindaco di Roma Gianni Alemanno; dall'altra Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma e neo candidato alla Regione per il Pd, pretende che i cittadini siano chiamati alle urne quanto prima.
La seconda opzione è sostenuta anche dal ministro degli Interni, Annamaria Cancellieri, che ha chiesto di "rispettare il limite dei 90 giorni" prescritto dalle leggi nazionali. Lo statuto del Lazio, tuttavia, assegna al Presidente dimissionario la responsabilità di scegliere la data del voto. E il governo non può fare nulla, visto che per le regioni non è previsto il commissariamento.
Ma quali ragioni spingono la destra a temporeggiare? Per voce del suo fidatissimo assessore al Bilancio, Stefano Cetica, Polverini ha sottolineato che "il voto a dicembre è tecnicamente impossibile ed economicamente insensato". Il primo punto contraddice nettamente l'analisi del Viminale, considerando che l'indicazione della Cancellieri è arrivata "dopo approfondimenti tecnici con gli esperti del ministero e dell'avvocatura di Stato".
La giustificazione economica è invece quella più sostenibile: l'election day ad aprile (che accorperebbe in un'unica tornata le elezioni regionali, le politiche e forse anche le comunali di Roma) consentirebbe all'amministrazione pubblica di risparmiare circa 28 milioni di euro. Nel frattempo, però, i contribuenti continuerebbero a pagare per mesi i lauti stipendi di assessori e consiglieri: i primi occupati nella poco impegnativa "ordinaria amministrazione", i secondi sostanzialmente già in vacanza.
Il sospetto è che Polverini punti a rimanere in carica fino alla primavera per ridare ossigeno alla sua fondazione Città nuove, che ha bisogno di risorse per esordire alle prossime elezioni nazionali. Oltre ai rapporti politici da ricucire, sembra che l'ex sindacalista Ugl debba fronteggiare anche altre preoccupazioni. Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it, la fondazione avrebbe seri problemi di bilancio dopo il taglio ai rimborsi elettorali previsto dalla spending review del governo Monti. I conti di Città nuove rimangono un mistero, ma la notizia non è stata smentita.
Quanto ad Alemanno, è ragionevole pensare che supporti la causa del voto ad aprile per opportunità di carattere politico. Le elezioni immediate porterebbero verosimilmente il Pdl alla disfatta più tragica degli ultimi anni, assestando un duro colpo anche ai fragilissimi equilibri su cui si regge il governo del Campidoglio. E il sindaco di Roma, che vedrà scadere il suo mandato l'anno prossimo, ha più che mai bisogno di tempo per organizzare la sua ricollocazione politica. Silvio Berlusconi - sempre attento ai sondaggi - pare non abbia alcuna intenzione di ricandidarlo per un secondo quinquennio nella Capitale.
Ecco quindi che Alemanno prende le distanze dal partito del Cavaliere e, dopo aver definito "inopportuna la presentazione di una lista Pdl nel Lazio", sottolinea che anche per Roma "è necessario creare una nuova realtà, un nuovo punto di riferimento". Quale? Facile: "Le liste civiche... Liste come quella di Renata Polverini devono essere presenti, però bisogna avere un'immagine totalmente rinnovata. Da questo punto di vista sono convinto che alla fine con Renata Polverini ci ritroveremo sullo stesso discorso".
Dall'altra parte della barricata c'è poi Zingaretti, che, anche secondo i più realisti nelle file del Pdl, sarà inevitabilmente eletto alla presidenza del Lazio. "Sono gravi i tentativi di rimandare nel 2013 le elezioni regionali - ha tuonato l'attuale numero uno della Provincia di Roma -, la frattura tra cittadini e Istituzioni si aggraverebbe ancora di più". Prima che cause di forza maggiore lo costringessero a spostare la candidatura sulla Pisana, Zingaretti aveva annunciato che nel 2013 avrebbe corso per il Campidoglio.
Con il suo dirottamento alla Regione, Alemanno ha perso l'unico avversario praticamente invincibile che il Pd avesse da opporre. L'attuale sindaco non partirà certo con i favori del pronostico, ma all'improvviso i suoi margini aumentano. Chissà che le liste civiche non portino qualche sorpresa.