di Carlo Musilli

L'autodistruzione della Regione Lombardia si è compiuta e le elezioni ormai sono dietro l'angolo. L'ultimatum arrivato sabato dalla Lega, che aveva chiesto di votare ad aprile insieme alle politiche, ha indotto Angelino Alfano a mollare la presa: "Basta con l'accanimento teraupetico", ha detto ieri il segretario del Pdl. Il governatore Roberto Formigoni però non ci sta a rimanere sulla graticola per sei mesi: "Si andrà al voto il prima possibile - ha tuonato dai microfoni Canale 5 - e alle elezioni io sarò sicuramente in campo, anche se con una posizione ancora da determinare". Insomma, il Celeste probabilmente non si ricandiderà alla Presidenza. Dopo ben 17 anni, stavolta la sua lunga stagione da governatore sembra davvero al capolinea.

Certo, l'agonia è stata lunga. Per dare la spallata decisiva alla prima Regione d'Italia è entrata in gioco addirittura la 'ndrangheta. Dopo l'arresto dell'assessore Domenico Zambetti - che avrebbe versato ai clan 200mila euro in cambio di 4mila voti - Formigoni aveva annunciato con squilli di tromba l'intenzione di prodursi in un "gesto forte". Qualche ora di suspence, poi il colpo di scena deludente: il governatore voleva cavarsela azzerando la giunta e nominando una nuova squadra a schieramento ridotto. Un po' scarso come segnale di discontinuità, un gesto minimo più che "forte", anche perché così facendo sarebbe rimasto in carica l'intero Consiglio regionale. Non esattamente un cenacolo senza macchia: se sommiamo consiglieri e assessori, dall'inizio della legislatura arriviamo alla vetta di 14 indagati.

Subito dopo l'ennesimo scandalo, Alfano aveva tentato di sostenere Formigoni con tutta la convinzione possibile. D'altra parte, è ormai prassi consolidata nel Pdl cercare di evitare in ogni modo le dimissioni dei vertici, così da non creare scomodi precedenti. Senza contare che la ferita aperta dal Laziogate è ancora fresca e che le correnti con velleità di scissione sono tutt'altro che sedate. A completare il quadro dei mal di pancia ci sono poi incertezze sulla legge elettorale e su chi sarà il prossimo candidato premier, dopo il tira e molla di Silvio Berlusconi.

Per tutte queste ragioni, giovedì scorso Alfano aveva convocato un vertice straordinario in via dell'Umiltà. Alla riunione, oltre al governatore lombardo, era presente anche il numero uno della Lega, Roberto Maroni. L'intesa per arrivare a fine legislatura sembrava raggiunta, ma la base leghista non aveva affatto gradito. E così, sabato, al Consiglio federale del Carroccio era passata la linea dura del segretario lombardo Matteo Salvini: si vota a primavera.

L'ulteriore accelerazione di Formigoni ha poi indotto Maroni a convocare per il prossimo fine settimana delle "vere e proprie primarie": sabato e domenica gli elettori in camicia verde potranno votare il loro candidato preferito (non c'è una rosa di nomi fra cui scegliere) in uno dei 1.500 gazebo del Carroccio.

A ben vedere, la Lega in Lombardia ha svolto lo stesso ruolo dell'Udc nel Lazio, determinando la caduta di un governatore che altrimenti non si sarebbe mosso di un centimetro. In effetti, dal punto di vista padano, era questa la scelta più sensata.

Il compito numero uno del nuovo corso maroniano è ricucire il rapporto con la base, ricostruire un'immagine dura e pura agli occhi degli attivisti. I leghisti "sul territorio" non hanno dimenticato lo scandalo Belsito e la triste caduta del fondatore Umberto Bossi è una delusione ancora difficile da superare. Maroni si è preso questa responsabilità armato di ramazza, promettendo anche l'impossibile (ad esempio le dimissioni di Rosi Mauro - mai arrivate - dalla vicepresidenza del Senato). Come poteva salvare un Presidente che ha lasciato entrare la 'ndrangheta nel Pirellone? Semplice, non poteva.

"Gli accordi erano diversi", si lamenta Formigoni. "La durata delle legislatura non rientrava nei patti", la replica glaciale di Maroni. Come spesso accade negli ultimi tempi, l'unico a tacere è Berlusconi, che evidentemente si concentra sulla visione d'insieme. Secondo indiscrezioni della settimana scorsa, ci sarebbe già l'intesa per assicurare la presidenza della Lombardia ad Attilio Fontana, sindaco di Varese e maroniano doc. Forse è questa la strada per evitare di mettere a rischio l'alleanza tra Pdl e Carroccio anche in Piemonte e in Veneto, dove a governare sono i leghisti Roberto Cota e Luca Zaia.

Il sacrificio di Formigoni sarebbe quindi un danno collaterale accettabile in vista di un bene superiore. L'asse del Nord va protetto a ogni costo, anche perché ad aprile si tornerà a votare per le politiche. E dopo lo sdegnato rifiuto dell'Udc di Casini, il Pdl ha un disperato bisogno di alleati.  

di Mariavittoria Orsolato

La data di scadenza del governo tecnico si avvicina. Aprile è praticamente dietro l'angolo e lo stato pietoso in cui versa la politica “tradizionale” - esposta al pubblico ludibrio grazie alle maldestre ruberie di cui si rende protagonista in modo trasversale - annuncia l'ingrossarsi delle fila degli elettori indecisi, stretti tra l'incudine dell'antipolitica e il martello dell'austerità tecnica. Il terreno è dunque fertile per un bis tecnocratico, grazie anche ad un'informazione che non perde occasione per incensare il premier e la sua azione salvifica.

Sarà anche per questo che Mario Monti, dopo aver molto insistito sulla “transitorietà” della sua “mission”, sulla possibilità di un secondo mandato ci sta facendo realmente un pensierino. La scorsa settimana, dagli Stati Uniti, il premier aveva infatti detto di essere disponibile a guidare un governo dopo le elezioni, nel caso in cui le forze politiche dovessero ritenerlo necessario. Tornato in Italia, due giorni fa, è tornato sui suoi passi dicendosi assolutamente intenzionato a lasciare a non meglio precisati “altri” il governo del Paese.

Un balletto da vera primadonna che, alimentato dall'insistente corteggiamento di Udc, Fli e Montezemolo, rischia di fossilizzare il dibattito pre-elettorale sul quesito “Monti si, Monti no” rubando spazio ai temi cardine di una campagna decisiva come quella per la prossima legislatura. Una legislatura che, a rigor di logica, necessariamente dovrebbe traghettarci fuori dalla crisi economica, dalla recessione e dal collasso sociale e istituzionale. Che l'impresa sia di quelle titaniche lo dimostra la titubanza con cui i partiti stanno affrontando il rinnovo della legge elettorale e lo conferma la latitanza di candidati (Pd escluso ma, si sa, che il troppo storpia) pronti ad accollarsi la responsabilità di governo.

Una responsabilità che Monti non disdegna: “Sono disposto a servire il paese in condizioni eccezionali”. E per condizioni eccezionali intende che se l’Italia sarà in una situazione drammatica e se i partiti saranno disposti a prolungare la durata della legislatura - o al limite formare una grosse Koalition che possa essere l’unica possibile vincitrice e azzeri di conseguenza il dibattito elettorale - allora il bocconiano è a disposizione. Altrimenti no. Ma se, a quanto pare, tutti tranne Fini e Casini aberrano questo scenario, di cosa continuano a blaterare i due fondatori del già defunto Terzo Polo?

Messi assieme i due partiti raccolgono a malapena il 9% delle preferenze e, sebbene gli avversari si attestino su cifre assolutamente modeste per quello che avrebbe dovuto essere un sistema bipolare, la loro corsa a palazzo Chigi è poco più di un miraggio.

Dall'altro lato Pd e Pdl sono abbarbicati allo status quo e non accettano di venire scalzati da una tecnocrazia che, almeno nelle intenzioni, vuole riformare il peso dei partiti legandoli ad un'efficienza che storicamente non gli è mai appartenuta.

Dopo la dimissioni coatte e la consegna nominale del partito al delfino improvvisato Angelino Alfano, quel che conta per Berlusconi è legittimare la sua presenza al tavolo del negoziato sul che fare dopo le elezioni. Un che fare che - vale la pena ripeterlo - riguarda non solo la formazione del nuovo governo ma interessa soprattutto la scelta del nuovo inquilino del Quirinale, posizione a cui il cavaliere non ha mai smesso di ambire.

Chi rischia di più è però il Pd di Bersani. La scelta di Casini di sposare anzitempo il rinnovo del mandato a Monti ha scombinato i piani del segretario democratico che punta a entrare a Palazzo Chigi da vincitore. Bersani contava sull'alleanza con Casini, ma il leader dell'Udc si è sfilato. L'idea di dividere l'esecutivo con Vendola non lo ha mai entusiasmato e i commenti al vetriolo che hanno seguito l'indiscrezione sull'improbabile matrimonio hanno confermato che era meglio lasciar perdere. Senza i centristi la vittoria dei democratici è inevitabilmente in forse e, grazie anche a una legge elettorale che non verrà riformata, la nuova legislatura rischia di diventare una pericolosa impasse.

Comunque vadano le cose, Monti non abbandonerà la politica. Già prima che gli venisse offerta la possibilità di un secondo mandato, il premier aveva affermato di non intendere rinunciare al seggio (e al remunerativo quanto comodo vitalizio) di senatore a vita. Che poi da quello voglia arrivare alla Presidenza della Repubblica è un altro paio di maniche, ed è uno scenario che sinceramente non ci auguriamo.

di Carlo Musilli

Votare sì, ma quando? Nel Lazio lo scontro politico si sta spostando dalle fatture allegre del gruppo Pdl alle pagine del calendario. Dopo lo scandalo e le dimissioni, da giorni gli elettori aspettano di sapere il giorno in cui potranno scegliere i loro prossimi rappresentanti alla Regione. Fin qui, però, l'unica cosa ben definita sono gli schieramenti: da una parte la governatrice uscente Renata Polverini punta a rinviare le elezioni fino ad aprile, spalleggiata come mai prima d'ora dal sindaco di Roma Gianni Alemanno; dall'altra Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma e neo candidato alla Regione per il Pd, pretende che i cittadini siano chiamati alle urne quanto prima.

La seconda opzione è sostenuta anche dal ministro degli Interni, Annamaria Cancellieri, che ha chiesto di "rispettare il limite dei 90 giorni" prescritto dalle leggi nazionali. Lo statuto del Lazio, tuttavia, assegna al Presidente dimissionario la responsabilità di scegliere la data del voto. E il governo non può fare nulla, visto che per le regioni non è previsto il commissariamento.

Ma quali ragioni spingono la destra a temporeggiare? Per voce del suo fidatissimo assessore al Bilancio, Stefano Cetica, Polverini ha sottolineato che "il voto a dicembre è tecnicamente impossibile ed economicamente insensato". Il primo punto contraddice nettamente l'analisi del Viminale, considerando che l'indicazione della Cancellieri è arrivata "dopo approfondimenti tecnici con gli esperti del ministero e dell'avvocatura di Stato".

La giustificazione economica è invece quella più sostenibile: l'election day ad aprile (che accorperebbe in un'unica tornata le elezioni regionali, le politiche e forse anche le comunali di Roma) consentirebbe all'amministrazione pubblica di risparmiare circa 28 milioni di euro. Nel frattempo, però, i contribuenti continuerebbero a pagare per mesi i lauti stipendi di assessori e consiglieri: i primi occupati nella poco impegnativa "ordinaria amministrazione", i secondi sostanzialmente già in vacanza.

Il sospetto è che Polverini punti a rimanere in carica fino alla primavera per ridare ossigeno alla sua fondazione Città nuove, che ha bisogno di risorse per esordire alle prossime elezioni nazionali. Oltre ai rapporti politici da ricucire, sembra che l'ex sindacalista Ugl debba fronteggiare anche altre preoccupazioni. Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it, la fondazione avrebbe seri problemi di bilancio dopo il taglio ai rimborsi elettorali previsto dalla spending review del governo Monti. I conti di Città nuove rimangono un mistero, ma la notizia non è stata smentita.

Quanto ad Alemanno, è ragionevole pensare che supporti la causa del voto ad aprile per opportunità di carattere politico. Le elezioni immediate porterebbero verosimilmente il Pdl alla disfatta più tragica degli ultimi anni, assestando un duro colpo anche ai fragilissimi equilibri su cui si regge il governo del Campidoglio. E il sindaco di Roma, che vedrà scadere il suo mandato l'anno prossimo, ha più che mai bisogno di tempo per organizzare la sua ricollocazione politica. Silvio Berlusconi - sempre attento ai sondaggi - pare non abbia alcuna intenzione di ricandidarlo per un secondo quinquennio nella Capitale.

Ecco quindi che Alemanno prende le distanze dal partito del Cavaliere e, dopo aver definito "inopportuna la presentazione di una lista Pdl nel Lazio", sottolinea che anche per Roma "è necessario creare una nuova realtà, un nuovo punto di riferimento". Quale? Facile: "Le liste civiche... Liste come quella di Renata Polverini devono essere presenti, però bisogna avere un'immagine totalmente rinnovata. Da questo punto di vista sono convinto che alla fine con Renata Polverini ci ritroveremo sullo stesso discorso".

Dall'altra parte della barricata c'è poi Zingaretti, che, anche secondo i più realisti nelle file del Pdl, sarà inevitabilmente eletto alla presidenza del Lazio. "Sono gravi i tentativi di rimandare nel 2013 le elezioni regionali - ha tuonato l'attuale numero uno della Provincia di Roma -, la frattura tra cittadini e Istituzioni si aggraverebbe ancora di più". Prima che cause di forza maggiore lo costringessero a spostare la candidatura sulla Pisana, Zingaretti aveva annunciato che nel 2013 avrebbe corso per il Campidoglio.

Con il suo dirottamento alla Regione, Alemanno ha perso l'unico avversario praticamente invincibile che il Pd avesse da opporre. L'attuale sindaco non partirà certo con i favori del pronostico, ma all'improvviso i suoi margini aumentano. Chissà che le liste civiche non portino qualche sorpresa.

 

 

di Fabrizio Casari

Quando ci sono programmi e proposte, di solito il confronto o lo scontro politico emergono. Quando c’è il nulla, è la polemica a farla da padrona. Infatti, solo due giorni orsono, Pierfurby Casini, preso atto che Niki Vendola si presenterà candidato alle primarie del PD, sancendo così anche formalmente l’alleanza di Sel con il PD alle prossime elezioni, si è detto “inorridito” all’idea che Vendola possa governare il paese, attività per la quale “non è adatto”.

Bersani, dal canto suo, gli ha ricordato come di inorridimenti lui dev’essere un esperto, avendo co-governato per anni con Berlusconi. La si potrebbe definire una reazione scomposta quella del leader centrista, che pure normalmente usa un linguaggio sobrio. Tanto nervosismo è dunque da capire.

Il punto è che Casini si rende perfettamente conto che una campagna elettorale, per quanto la si provi a depotenziare, non può divenire solo un appuntamento formale, un esercizio di democrazia dovuta e nient’altro perché, comunque, Monti governava e Monti dovrà governare, vinca chi vinca e perda chi perda. E’ vero che il giochetto è riuscito nello scorso autunno, cioè un governo tecnico per cacciare Berlusconi, ma ora non può essere riproposto in assenza di quello scenario.

Berlusconi è finito e il suo partito è alla disfatta, non c’è nessuna emergenza nazionale da dover affrontare con strumenti che sospendono la democrazia, fosse anche quella formale. Peraltro, i disastrosi risultati ottenuti dai professori fanno intravvedere il baratro e non l’uscita dalla crisi. Il PD, che ha già pagato il prezzo più alto per il suo sostegno all’ammucchiata dei cosiddetti professori, non può proseguire senza porsi l’obiettivo di governare. La politica per procura la si può fare nella posizione di Casini - il nulla al centro del niente - ma non può essere proponibile come orizzonte al maggiore partito del paese.

Casini, con la Grande Coalizione e con il Monti perenne pensa di poter garantirsi un ruolo di cerniera politica e, nel contempo, evitare il centrosinistra al governo, con un esponente PD a Palazzo Chigi. Lo schema dell'emergenza nazionale dell'incarico a Monti, usato appunto l'anno scorso per far fuori Berlusconi, stavolta dovrebbe servire a far fuori Bersani. Ma il fatto é che quando i disegni sono troppo sottili, finiscono per rompersi e ritenere che il PD sia nato per far vivere di rendita il centro privo di suffragi sembra effettivamente troppo anche per un partito come quello di via del Nazareno.

Dunque si deve andare a votare e ci si dovrà presentare agli elettori chiedendo il loro voto. Monti andrebbe - nelle intenzioni di Casini e di quelli che pesano molto più di lui - presentato come "risorsa nazionale" da un arco di forze che lo metterebbe al riparo di quello che sceglieranno di dirgli gli elettori. Casini sa benissimo che Monti è amato nei circoli finanziari e di altro tipo, ma è detestato a livello popolare; purtroppo per lui, Costituzione impone che, quando il mandato scade, si vota con il suffragio universale. E proprio nei numeri sta il problema.

La difficoltà dei centristi di presentarsi dotati di sondaggi a una cifra e proporre Monti come premier é il limite strutturale dell'operazione: infatti, se invece della "Grande Coalizione" fosse solo il "Grande Centro" a proporre il nuovo mandato per il professore, vi sarebbe il rifiuto dello stesso premier, che è sufficientemente vanitoso dal voler vincere facile e sufficientemente spocchioso da non ritenersi oggetto di voto popolare ove incerto. Pierfurby, insomma, spinge sull’accelleratore della sua utilitaria parcheggiabile ovunque per il reincarico “a divinis” a Monti ma, nello stesso tempo, capisce benissimo che con il suo “Grande Centro”, già morto nella culla, non avrebbe nessuna possibilità di avvicinarsi alle percentuali che sarebbero in grado di condizionare i due schieramenti politici.

Per queste ragioni il leader dell'UDC vede l'alleanza tra Bersani, Vendola e forse altri settori della sinistra come il fumo agli occhi. Non solo per una generica avversione verso la sinistra, ma proprio perché il disegno della "Grande Coalizione" subirebbe uno stop inevitabile da un PD deciso a misurare la sua forza nelle urne sulla base di un programma diverso da quello dei professori. Casini sa bene che il suo ruolo resta centrale solo in presenza di un PD che veleggia al centro, privo di rotta e vedovo di valori di sinistra. E sa quindi che un’alleanza tra il PD e SEL di per se stessa sposterebbe contenuti e progetto in chiave progressista e potrebbe determinare un aggregatore elettorale di forte attrazione anche per quel popolo di sinistra da anni disertore delle urne.

Perché sono molti coloro i quali proprio non riescono a bersi la favola di Grillo e si troverebbero a disagio nel votare Di Pietro se andasse da solo, anche solo perché si vorrebbe votare il governo del paese e non del CSM. L’alleanza tra PD e SEL può aprire anche ad un riposizionamento della stessa IDV e ad una diversa e migliore interlocuzione con il cosiddetto “popolo dei referendum”, cioè con quelle migliaia di associazioni che, sulla difesa dei beni pubblici, costruiscono aggregazione politica e sociale non disponibile ad associarsi con i furbi del web.

Se dunque Bersani proseguirà nelle intenzioni finora dichiarate e altrettanto farà Vendola, potrebbero determinarsi due novità che aprirebbero scenari chiari: la prima è quella del fallimento dell’ipoteca di Casini sul PD, operazione che si avvale del cavallo di Troia dei democristiani interni al partito; la seconda è che un PD con Bersani vincitore delle primarie e sostenuto da Vendola, proprio perché proporrebbe una sterzata in chiave progressista della linea politica del partito, determinerebbe una frattura significativa interna con l’area degli ex PP, cui non potrebbe che seguire una conta, cioè un Congresso.

Per questo Veltroni, architetto insieme ad altri del partito, si dice oggi “preoccupato” della tenuta del PD. Non sono tanto le smodate e destrorse ambizioni di Renzi e la contesa con Bersani a minacciare l’unità interna; se Renzi non riesce a trovare un sostenitore di sinistra e un minimo di credibilità e serietà dei meccanismi di voto le primarie lo spediranno a casa. Per giunta, il sindaco di Firenze riesce persino a dividere i democristiani, giacché il sogno di rottamare tutti tranne Matteo Renzi si scontra con la voglia di autoriprodursi del ceto democristiano ed ex-pci del PD.

E’ invece il mutare dello scenario delle alleanze (prima con Casini, poi con Casini e Vendola, ora solo con Vendola) che mette seriamente in discussione l’unità interna del partito. Poiché ne ipotizzano uno scatto, la ricerca di una identità politica, la proposta di un programma che si distingua in forma decisa dalle ricette economiche ultraliberiste dei tecnici. Tutto quello che i teorici dell’intoccabilità dell’agenda Monti vedono come il fumo negli occhi.

Per i democristiani che lavorano per Casini nel Pd sarebbe una sciagura, dal momento che una fase congressuale pre-elettorale costituita da due diverse e divergenti opzioni in campo, evidenzierebbe la loro dimensione fortemente minoritaria nel partito. E in alternativa, visto il peso elettorale di cui dispongono, la minaccia profferita tra le righe da Letta e più volgarmente da Fioroni di una possibile uscita della loro area dal PD, non spaventa nessuno; anzi quasi galvanizza molti, cioè i tanti ad essersi resi conto che la costruzione in laboratorio del PD si è rivelata un disastro politico. Sarebbe un boomerang, di quelli che hanno già colpito la triade Rutelli, Binetti e Lanzillotta, residuati di tutti e cercati da nessuno. Nessuno li eleggerebbe più, dovrebbero cercarsi i voti e non li troverebbero.

Ma sarebbe un guaio grosso per lo stesso Casini, che di ora in ora vede Fini, Montezemolo e la restante compagnia di giro perdere ruolo e peso. C’è il rischio che Pierfurby, che pensava di detenere un’ipoteca sul PD e d’intestarsi il “Grande centro”, che credeva di poter limare il PDL e inglobare i professori, si ritrovi da solo al centro di una piazza vuota. A fare il “Grande Centro”.

 

di Carlo Musilli

Come ogni telenovela che si rispetti, anche questa si è chiusa con dei colpi di scena che promettono un sequel. Dopo lungo peregrinare per studi televisivi, ieri Renata Polverini ha firmato la lettera di dimissioni dalla presidenza della Regione Lazio. L'annuncio in conferenza stampa era arrivato però lunedì sera. Perché mai tanto ritardo? La governatrice, costretta al passo indietro dall'abbandono dell'Udc, ha avuto bisogno di tempo per mettere a punto le sue mosse.

Il gesto politico più importante pre-dimissioni è stato la riduzione degli assessori da 15 a 10, con tanto di redistribuzione delle deleghe.

Ufficialmente il taglio è servito a snellire il team (e i costi) in vista dell' "ordinaria amministrazione" da qui alle elezioni. Ufficiosamente è stato qualcosa di molto simile a una dichiarazione di guerra. I cinque nomi cancellati dalla giunta sono tutti del Pdl: Gabriella Sentinelli (assessore alla Scuola indagata per corruzione e turbativa d'asta dalla Procura di Viterbo), Marco Mattei (Ambiente), Stefano Zappalà (Turismo), Angela Birindelli (Politiche agricole) e Francesco Lollobrigida (Trasporti). "Tengo solo quelli di cui mi fido", avrebbe detto Polverini nell'ultima riunione con la sua squadra.

Almeno tre degli epurati (Mattei, Birindelli e Zappalà) sono molto vicini all' "innominato" rivale Antonio Tajani, il "personaggio ameno che si aggira per l'Europa", come lo ha definito la governatrice nella conferenza stampa di commiato. Attualmente a Bruxelles in qualità nientemeno che di vicepresidente della Commissione europea, Tajani ha sempre voluto tenere più di un piede nel natio Lazio.

Vero e proprio capocorrente, è considerato tra i massimi responsabili della bagarre interna al Pdl che ha provocato le dimissioni di Polverini.

Proprio lui ha sponsorizzato Franco Battistoni, il capogruppo Pdl nominato a luglio in sostituzione "der Batman" Franco Fiorito. E l'unico di cui Polverini ha preteso immediatamente la testa dopo lo scoppio del Laziogate.

Veniamo ora all'aspetto pratico della faccenda. Un emendamento a una legge regionale proposto lo scorso dicembre dall'ineguagliabile Batman prevede che, dopo due anni e mezzo di mandato, consiglieri e assessori esterni al Consiglio abbiano diritto a quattromila euro mensili di vitalizio. Un bell'assegno intascabile dalla tenera età di 50 anni, a patto che gli interessati paghino i contributi mancanti di tasca loro (almeno questo...). Ora, i due anni e mezzo di questo Consiglio scadono a fine ottobre. Ecco servita la vendetta nei confronti di Birindelli, Mattei e Lollobrigida, che non avendo altri contributi precedenti da sommare vedranno sfumare la meta della super baby-pensione a pochi metri dal traguardo.

Gli altri licenziati non hanno questo problema, ma dovranno comunque rinunciare allo stipendio, che invece sarà regolarmente corrisposto a tutti gli altri consiglieri fino alle prossime elezioni. Il che vuol dire fino ad aprile, se davvero si voterà nell'election-day (politiche più regionali) voluto dal governo per ridurre le spese.

Ma non è finita. Oltre alle epurazioni, prima di dimettersi Polverini ha trovato il tempo di fare anche qualche favore. Mercoledì l'esecutivo laziale ha rinnovato il contratto a nove direttori generali, fra cui spiccano le nomine di due amici della governatrice provenienti dall’Ugl: Raffaele Marra (al personale) e Giuliano Bologna (capo dell'avvocatura). Due investiture che erano state bocciate dal Tar a giugno e su cui il Consiglio di Stato si pronuncerà di nuovo a ottobre. "Questo è lo spirito legalitario della Presidente Polverini nel rispettare le leggi e le sentenze", hanno scritto dal sindacato interno dei dirigenti DirerDirl.

Intanto, come sempre, la nostra classe politica si preoccupa di non farci annoiare proponendoci ogni giorno nuovi deliziosi dettagli di colore. L'ultimo è stato svelato dal settimanale L’Espresso, che ha pubblicato anche le foto. In breve, lo scorso 24 giugno Polverini è stata accompagnata dall'isola di Ponza, dove era stata per il premio Caletta, fino al porto di Anzio da una motovedetta di 22 metri della Guardia di Finanza. La governatrice era insieme a quattro amici e a scortarli c'era anche un’altra imbarcazione delle Fiamme Gialle. Per la precisione un'imponente V2050, usata di solito per la lotta al contrabbando. "Abbiamo fatto scuola", ha detto mercoledì Polverini uscendo dalla Conferenza delle Regioni. Come darle torto?


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