di Mariavittoria Orsolato

La data di scadenza del governo tecnico si avvicina. Aprile è praticamente dietro l'angolo e lo stato pietoso in cui versa la politica “tradizionale” - esposta al pubblico ludibrio grazie alle maldestre ruberie di cui si rende protagonista in modo trasversale - annuncia l'ingrossarsi delle fila degli elettori indecisi, stretti tra l'incudine dell'antipolitica e il martello dell'austerità tecnica. Il terreno è dunque fertile per un bis tecnocratico, grazie anche ad un'informazione che non perde occasione per incensare il premier e la sua azione salvifica.

Sarà anche per questo che Mario Monti, dopo aver molto insistito sulla “transitorietà” della sua “mission”, sulla possibilità di un secondo mandato ci sta facendo realmente un pensierino. La scorsa settimana, dagli Stati Uniti, il premier aveva infatti detto di essere disponibile a guidare un governo dopo le elezioni, nel caso in cui le forze politiche dovessero ritenerlo necessario. Tornato in Italia, due giorni fa, è tornato sui suoi passi dicendosi assolutamente intenzionato a lasciare a non meglio precisati “altri” il governo del Paese.

Un balletto da vera primadonna che, alimentato dall'insistente corteggiamento di Udc, Fli e Montezemolo, rischia di fossilizzare il dibattito pre-elettorale sul quesito “Monti si, Monti no” rubando spazio ai temi cardine di una campagna decisiva come quella per la prossima legislatura. Una legislatura che, a rigor di logica, necessariamente dovrebbe traghettarci fuori dalla crisi economica, dalla recessione e dal collasso sociale e istituzionale. Che l'impresa sia di quelle titaniche lo dimostra la titubanza con cui i partiti stanno affrontando il rinnovo della legge elettorale e lo conferma la latitanza di candidati (Pd escluso ma, si sa, che il troppo storpia) pronti ad accollarsi la responsabilità di governo.

Una responsabilità che Monti non disdegna: “Sono disposto a servire il paese in condizioni eccezionali”. E per condizioni eccezionali intende che se l’Italia sarà in una situazione drammatica e se i partiti saranno disposti a prolungare la durata della legislatura - o al limite formare una grosse Koalition che possa essere l’unica possibile vincitrice e azzeri di conseguenza il dibattito elettorale - allora il bocconiano è a disposizione. Altrimenti no. Ma se, a quanto pare, tutti tranne Fini e Casini aberrano questo scenario, di cosa continuano a blaterare i due fondatori del già defunto Terzo Polo?

Messi assieme i due partiti raccolgono a malapena il 9% delle preferenze e, sebbene gli avversari si attestino su cifre assolutamente modeste per quello che avrebbe dovuto essere un sistema bipolare, la loro corsa a palazzo Chigi è poco più di un miraggio.

Dall'altro lato Pd e Pdl sono abbarbicati allo status quo e non accettano di venire scalzati da una tecnocrazia che, almeno nelle intenzioni, vuole riformare il peso dei partiti legandoli ad un'efficienza che storicamente non gli è mai appartenuta.

Dopo la dimissioni coatte e la consegna nominale del partito al delfino improvvisato Angelino Alfano, quel che conta per Berlusconi è legittimare la sua presenza al tavolo del negoziato sul che fare dopo le elezioni. Un che fare che - vale la pena ripeterlo - riguarda non solo la formazione del nuovo governo ma interessa soprattutto la scelta del nuovo inquilino del Quirinale, posizione a cui il cavaliere non ha mai smesso di ambire.

Chi rischia di più è però il Pd di Bersani. La scelta di Casini di sposare anzitempo il rinnovo del mandato a Monti ha scombinato i piani del segretario democratico che punta a entrare a Palazzo Chigi da vincitore. Bersani contava sull'alleanza con Casini, ma il leader dell'Udc si è sfilato. L'idea di dividere l'esecutivo con Vendola non lo ha mai entusiasmato e i commenti al vetriolo che hanno seguito l'indiscrezione sull'improbabile matrimonio hanno confermato che era meglio lasciar perdere. Senza i centristi la vittoria dei democratici è inevitabilmente in forse e, grazie anche a una legge elettorale che non verrà riformata, la nuova legislatura rischia di diventare una pericolosa impasse.

Comunque vadano le cose, Monti non abbandonerà la politica. Già prima che gli venisse offerta la possibilità di un secondo mandato, il premier aveva affermato di non intendere rinunciare al seggio (e al remunerativo quanto comodo vitalizio) di senatore a vita. Che poi da quello voglia arrivare alla Presidenza della Repubblica è un altro paio di maniche, ed è uno scenario che sinceramente non ci auguriamo.

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