di Carlo Musilli

L'autodistruzione della Regione Lombardia si è compiuta e le elezioni ormai sono dietro l'angolo. L'ultimatum arrivato sabato dalla Lega, che aveva chiesto di votare ad aprile insieme alle politiche, ha indotto Angelino Alfano a mollare la presa: "Basta con l'accanimento teraupetico", ha detto ieri il segretario del Pdl. Il governatore Roberto Formigoni però non ci sta a rimanere sulla graticola per sei mesi: "Si andrà al voto il prima possibile - ha tuonato dai microfoni Canale 5 - e alle elezioni io sarò sicuramente in campo, anche se con una posizione ancora da determinare". Insomma, il Celeste probabilmente non si ricandiderà alla Presidenza. Dopo ben 17 anni, stavolta la sua lunga stagione da governatore sembra davvero al capolinea.

Certo, l'agonia è stata lunga. Per dare la spallata decisiva alla prima Regione d'Italia è entrata in gioco addirittura la 'ndrangheta. Dopo l'arresto dell'assessore Domenico Zambetti - che avrebbe versato ai clan 200mila euro in cambio di 4mila voti - Formigoni aveva annunciato con squilli di tromba l'intenzione di prodursi in un "gesto forte". Qualche ora di suspence, poi il colpo di scena deludente: il governatore voleva cavarsela azzerando la giunta e nominando una nuova squadra a schieramento ridotto. Un po' scarso come segnale di discontinuità, un gesto minimo più che "forte", anche perché così facendo sarebbe rimasto in carica l'intero Consiglio regionale. Non esattamente un cenacolo senza macchia: se sommiamo consiglieri e assessori, dall'inizio della legislatura arriviamo alla vetta di 14 indagati.

Subito dopo l'ennesimo scandalo, Alfano aveva tentato di sostenere Formigoni con tutta la convinzione possibile. D'altra parte, è ormai prassi consolidata nel Pdl cercare di evitare in ogni modo le dimissioni dei vertici, così da non creare scomodi precedenti. Senza contare che la ferita aperta dal Laziogate è ancora fresca e che le correnti con velleità di scissione sono tutt'altro che sedate. A completare il quadro dei mal di pancia ci sono poi incertezze sulla legge elettorale e su chi sarà il prossimo candidato premier, dopo il tira e molla di Silvio Berlusconi.

Per tutte queste ragioni, giovedì scorso Alfano aveva convocato un vertice straordinario in via dell'Umiltà. Alla riunione, oltre al governatore lombardo, era presente anche il numero uno della Lega, Roberto Maroni. L'intesa per arrivare a fine legislatura sembrava raggiunta, ma la base leghista non aveva affatto gradito. E così, sabato, al Consiglio federale del Carroccio era passata la linea dura del segretario lombardo Matteo Salvini: si vota a primavera.

L'ulteriore accelerazione di Formigoni ha poi indotto Maroni a convocare per il prossimo fine settimana delle "vere e proprie primarie": sabato e domenica gli elettori in camicia verde potranno votare il loro candidato preferito (non c'è una rosa di nomi fra cui scegliere) in uno dei 1.500 gazebo del Carroccio.

A ben vedere, la Lega in Lombardia ha svolto lo stesso ruolo dell'Udc nel Lazio, determinando la caduta di un governatore che altrimenti non si sarebbe mosso di un centimetro. In effetti, dal punto di vista padano, era questa la scelta più sensata.

Il compito numero uno del nuovo corso maroniano è ricucire il rapporto con la base, ricostruire un'immagine dura e pura agli occhi degli attivisti. I leghisti "sul territorio" non hanno dimenticato lo scandalo Belsito e la triste caduta del fondatore Umberto Bossi è una delusione ancora difficile da superare. Maroni si è preso questa responsabilità armato di ramazza, promettendo anche l'impossibile (ad esempio le dimissioni di Rosi Mauro - mai arrivate - dalla vicepresidenza del Senato). Come poteva salvare un Presidente che ha lasciato entrare la 'ndrangheta nel Pirellone? Semplice, non poteva.

"Gli accordi erano diversi", si lamenta Formigoni. "La durata delle legislatura non rientrava nei patti", la replica glaciale di Maroni. Come spesso accade negli ultimi tempi, l'unico a tacere è Berlusconi, che evidentemente si concentra sulla visione d'insieme. Secondo indiscrezioni della settimana scorsa, ci sarebbe già l'intesa per assicurare la presidenza della Lombardia ad Attilio Fontana, sindaco di Varese e maroniano doc. Forse è questa la strada per evitare di mettere a rischio l'alleanza tra Pdl e Carroccio anche in Piemonte e in Veneto, dove a governare sono i leghisti Roberto Cota e Luca Zaia.

Il sacrificio di Formigoni sarebbe quindi un danno collaterale accettabile in vista di un bene superiore. L'asse del Nord va protetto a ogni costo, anche perché ad aprile si tornerà a votare per le politiche. E dopo lo sdegnato rifiuto dell'Udc di Casini, il Pdl ha un disperato bisogno di alleati.  

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