di Giovanni Gnazzi

Veltroni ha garantito in televisione che non si candiderà più. Nessuna pulsione africana, resterà in Italia a fare quello che ha sempre fatto e questa della sua rinuncia è dunque una buona notizia solo a metà. I maliziosi dicono che si preparerebbe a candidarsi a sindaco di Roma. A volte ritornano? D’Alema, dal canto suo, ha affermato che si candiderà “se lo chiede il partito”, che vuol dire tutto e il suo contrario, vista la genericità del soggetto. Parla infatti del gruppo dirigente? Della base? Di quella del sud? Delle numerose persone che hanno firmato l’appello uscito sull’Unità di ieri?

Certo, anche nell’effettuare (o far finta di farlo) il famoso “passo indietro”, i due denotano una cultura politica decisamente diversa. Uno é stato comunista e non sputa sul suo passato, l'altro non lo é mai stato e il passato l'ha sempre usato per farsi strada. Veltroni continua a pensare ergendosi al di sopra del partito, D’Alema continua a ritenersi, prima di ogni altra cosa, uomo di partito. Una differenza che racconta molto di più di quello che le due prese di posizione apparentemente esibiscono.

La sensazione è che sia il filosofo delle figurine Panini, sia l’ex segretario, premier, ministro e ancora presidente del Copasir ,vogliano entrare a gamba tesa nel dibattito interno del loro partito e che D’Alema, in particolare, proponga quasi una sorta di referendum sul suo nome. Incauto appare, immemore soprattutto di come proprio da lui venne mandato a casa Natta e inconscio, forse, del grado di appeal che la rottamazione suscita di per sé anche nelle fila del suo partito.

Perché sembra che l’articolo dello Statuto del partito che prevede siano al massimo tre le legislature consecutive possibili per i suoi esponenti, potrebbe essere legittimamente praticato senza bisogno di ulteriori pronunciamenti da parte di non meglio precisate istanze di partito. Arrampicarsi sull’interpretazione della norma (legislatura piena di cinque anni o comunque effettuata quale che sia stata la sua durata) perché molti esponenti di primo piano del PD sono in Parlamento da più di vent’anni. Dunque, a meno non si voglia proporre che i mandati debbano essere misurati solo dalla nascita del PD, c’è poco da interpretare se non ci si vuole rendere ridicoli.

Ma il punto non è tanto se D’Alema o chi per lui dovrà o no rientrare in Parlamento, bensì proprio questa ansia di rottamazione che, sempre più, appare come la figlia minore di una compulsione generale che si chiama, semplicemente, rifiuto della politica. Quella fatta da politicanti, composta di riti e personaggi che ormai rappresentano, anche loro malgrado, la politica del compromesso e delle stanze chiuse, della degenerazione progressiva dei valori in funzione del raggiungimento del potere.

E c’è poco da arzigogolare sulle regole delle primarie, giacché la loro assurdità di fondo non servirà ad evitare un fatto: chiunque vinca, tra Bersani e Renzi, farà a meno della vecchia guardia. Anzi, proprio per vincere, dovranno dichiararlo da subito, giacché l’elettorato del PD sente un’ansia di rinnovamento che vede al primo step la piacevole rinuncia a questi dirigenti, condottieri di ogni sconfitta.

Certo, saggezza vorrebbe che prima ancora che degli esponenti dei partiti, sarebbe bene parlare dei partiti stessi, trasformatisi progressivamente in collettori elettorali al netto delle ideologie. Il mito del partito post-ideologico è stata la pietra miliare della costruzione dell’indistinto, della politica come ammucchiata indecente di teoriche diversità. La fine del partito come intellettuale collettivo e come soggetto di formazione, in qualche modo pedagogico nei confronti della società.

I partiti, a maggior ragione quelli progressisti, dovevano formare politicamente le masse per poter spostare gli equilibri dei poteri, ma il loro appannamento progressivo, l’incedere pedante dello svuotamento identitario in funzione della crescita del peso elettorale a prescindere dalla collocazione ideale e politica, ha prodotto i mostri che ora, forse maldestramente, si vuol combattere con ramazza e piccone.

Il PD di Veltroni e D’Alema è stato soprattutto questo. La lunga marcia dell’ex partito comunista verso i rilassanti e confortevoli approdi centristi, nel limbo assoluto delle ideologie che ha fagocitato ogni operazione. Una mutazione genetica totale, che ha invertito completamente le funzioni stesse del suo agire oltre che la sua missione politica.

Si scelse il dialogo con il mondo cattolico, si riteneva che in Italia la maggioranza dell’elettorato fosse conservatrice e, da qui, la necessità di dividere i moderati dai reazionari, i conservatori dalla destra, giacché impensabile era poter contare solo sulla forza della sinistra per vincere. Dalla “svolta di Salerno” al compromesso storico, persino alla mai troppo criticata stagione dell’unità nazionale, si trattò di strategia politica; discutibile nei suoi contenuti, ma non liquidabile con anatemi estremistici, e in ogni caso non imputabile di rottamazione ideale.

La scelta era comunque questa: costruire un quadro di alleanze per cambiare i rapporti di forza nel paese e un voto su tre al PCI rappresentò in qualche modo una indiretta conferma della strategia politica, almeno in una fase storica.

Ma dalla chiusura del PCI, per finire al PD, la mutazione genetica ha assunto i contorni della disfatta ideale e politica. Perché se spostare l’elettorato moderato verso la sinistra era l’intenzione dichiarata, trasferire i progressisti verso i moderati è stata la risultante finale. In questo senso, cambia poco per gli elettori la sorte dei due: Veltroni ha già fatto il massimo del danno possibile, D’Alema ha accettato il progressivo ripiegamento per salvare se stesso. Due fallimenti per due duellanti.

 

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