di Carlo Musilli

Con la caduta in Lombardia, la destra chiude quasi simbolicamente un ventennio di malgoverno a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica. E lo fa proprio lì dove tutto è cominciato, nella terra di nascita del fu partito personale Forza Italia. "Si può votare in un periodo compreso tra 45 e 90 giorni, quindi è realistica la previsione di elezioni a gennaio". A meno di improbabili ripensamenti della Lega, è questo il progetto del governatore Roberto Formigoni per il futuro prossimo della sua Regione.

Nell'ultimo scampolo di legislatura, il Celeste punta a organizzare "una giunta breve con due compiti precisi: riformare la legge elettorale abolendo il listino e approvare il bilancio". A quel punto, una volta chiusi i giochi, Formigoni non si ricandiderà alla presidenza della Regione. Ha in mente altri nomi, "ad esempio l'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini". Ma questo, a suo dire, non significa ritirarsi dalla "battaglia politica": il quasi ex-governatore, tanto per cominciare, non lascerà l'incarico di commissario per l'Expo di Milano.

In ogni caso, dopo 17 anni la sua parabola da governatore è terminata e al Celeste non rimane che combattere per non sparire nel nulla a fine legislatura. E guardando indietro, attraverso i quattro mandati di Formigoni in Regione, si scorge una riproduzione in scala locale di quello che il berlusconismo ha significato per il Paese dalla metà degli anni Novanta.

Una concezione della politica come arte dell'imbonimento, dello spettacolo preparatorio che tutto annuncia per poi smentirsi clamorosamente nei fatti. Un modello in cui al leader carismatico e rassicurante si demanda ogni capacità critica, sempre disposti a lasciarsi convincere da qualsiasi auto-assoluzione sommaria. Il Celeste oggi lascia il Pirellone rivendicando anni di buon governo, "anzi, ottimo". E questo basta come sempre a cancellare di netto il degrado della realtà reale, quella che parla di una Regione con 14 politici indagati su un totale di 80 poltrone. Esattamente come fece il Cavaliere poco meno di un anno fa, quando si dimise lasciando un Paese disastrato, ma presentò il suo passo indietro come un "alto gesto di responsabilità", dettato esclusivamente dal tradimento di un alleato e dalla tirannia irrazionale dello spread.

A ben vedere, nel ventennio di Formigoni in Lombardia ci sono quasi tutti gli ingredienti fondamentali della politica al tempo di Beautiful. Si pensi alla reazione del governatore dopo l'arresto dell'assessore Domenico Zambetti, accusato di aver pagato alla 'ndrangheta 200mila euro in cambio di 4mila voti. Lo scandalo ha portato la Lega ad abbandonare la nave e Formigoni ne è rimasto sorpreso. Sinceramente, viene da credere. Nel rispetto di una tradizione ormai consolidata, il governatore prima di abbandonare la poltrona ha dovuto attendere che accadesse l'irreparabile. Ancora ieri aspettava pietosamente che il Carroccio gli concedesse di restare, come se il capo della giunta non fosse responsabile per la condotta dei propri assessori. E quando andrà via, naturalmente, lo farà solo perché costretto dal "ribaltone leghista".

Una lettura com'è ovvio distorta, visto che solo negli ultimi anni Formigoni di motivi per dimettersi ne avrebbe avuti da vendere. Zambetti non è il primo assessore a finire in manette sotto il suo governo: è il quinto.

Restringendo lo sguardo solo all'ultimo triennio, il Celeste si è reso protagonista di più d'una condotta oltre i limiti della decenza. Il primo episodio risale al 2010, ma ha una coda nell'attualità. La settimana scorsa il governatore è stato condannato a pagare 900 euro di multa e altri 100mila di risarcimento per aver diffamato i Radicali. Un anno fa due esponenti della lista Bonino-Pannella avevano scoperto 926 firme false fra quelle presentate dalla lista Formigoni alle elezioni regionali, firme senza le quali il Celeste non avrebbe potuto nemmeno candidarsi. (Una vicenda che richiama in modo inquietante quella di Michele Giovane, il consigliere che in Piemonte è stato condannato in primo grado e in appello per aver certificato firme false in favore dell'attuale governatore leghista, Roberto Cota).

Messo alle strette, Formigoni scelse di gridare al complotto. Non contro la magistratura comunista, ma contro i Radicali, "rimasti 12 ore da soli con in mano penne e borse" a controllare i registri con le firme, avrebbero "potuto manipolare le liste, correggerle, spostare i documenti come volevano". Una ricostruzione che secondo il pm è falsa. Come le firme.

Ma dopo i dubbi sulla legittimità stessa delle elezioni, ci sono quelli sui candidati. Il caso più rappresentativo è senza dubbio quello di Nicole Minetti, ormai conosciuta da tutta Italia come iconografia suprema della donna Pdl. All'epoca era solo una procace e sconosciuta igienista dentale di 25 anni e fu eletta in Consiglio regionale proprio grazie a quel "listino bloccato" contro cui oggi Formigoni imbastisce la sua ultima crociata. In sintesi, il nome della Minetti fu inserito nella stretta cerchia dei candidati che venivano automaticamente eletti in caso di riconferma del governatore. Il che è la riproduzione in piccolo di quello che accade su base nazionale con il Porcellum.

A imporre il nome della ragazza fu naturalmente sua maestà Silvio Berlusconi e le cronache dei mesi seguenti ne svelarono il motivo. Oggi la Minetti è indagata dalla Procura di Milano nell'ambito del processo Ruby per favoreggiamento e induzione alla prostituzione, ma più probabilmente passerà alla storia come la reginetta dei festini sudaticci e debosciati della reggia d'Arcore.

Arriviamo così alla ciliegina sulla torta nella vita politica di Formigoni, la vicenda che maggiormente lo preoccupa e lo irrita. Il governatore è indagato per concorso in corruzione insieme al suo caro amico Pierangelo Daccò, ex consulente di varie aziende sanitarie appaltatrici della Regione Lombardia. L'ipotesi dell'accusa è che per anni Daccò abbia pagato al Celeste viaggi e comfort extra-lusso (8,5 milioni di euro in tutto), ottenendo in cambio delibere e fondi del Pirellone - per un totale di circa 200 milioni - in favore delle strutture sanitarie a lui collegate. Fra tutte spicca la fondazione Maugeri di Pavia, dalla quale Daccò avrebbe ricevuto 70 milioni di euro successivamente dirottati come fondi neri in un sistema di società off-shore.

Formigoni ha passato mesi a smentire questa ricostruzione. Sostiene di aver sempre pagato le vacanze di tasca propria, rimborsando l'amico ogni volta che questi gli anticipava dei soldi. Un'autodifesa a cui bisognerebbe credere sulla parola: "Quando dai dei soldi a un amico - è il mantra ripetuto fino alla noia dal governatore -, poi gli chiedi la ricevuta?".

Certo che no, ma in teoria basterebbe produrre la documentazione sui movimenti bancari di quel periodo per dimostrare a tutti d'aver pagato la propria quota. Purtroppo, se esistono, quelle distinte sono ancora segrete. Nella migliore delle ipotesi il Celeste non ritiene che il suo ruolo pubblico lo obblighi a dar prova d'onestà. A decidere saranno naturalmente i magistrati, ma è certo è che fin qui l'autodifesa dal Celeste non suona più convincente di quella della collega del Lazio, Renata Polverini ("Le ostriche in Consiglio c'erano già prima di me"). Né, volendo, del "burlesque" di Arcore. 

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