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di Antonio Rei
Sull'Imu alla Chiesa si apre l'ennesimo giallo. Secondo indiscrezioni raccolte dal quotidiano La Repubblica, la squadra dei professori avrebbe escogitato un nuovo trucco fiscale per favorire il Vaticano. L'obiettivo sarebbe di esentare gli enti no profit - fra cui quelli ecclesiastici - dal pagamento della nuova imposta sugli immobili ad uso "misto", quelli adibiti in parte ad attività che generano profitto.
Per non pagare, questi enti dovrebbero solo cambiare entro dicembre il loro statuto, includendo almeno una delle seguenti norme: divieto di distribuire gli utili, obbligo di reinvestire il guadagno a scopi sociali, impegno a devolvere il patrimonio - in caso di scioglimento - ad un'altra struttura no profit con attività analoga. Insomma, una vera e propria definizione ad hoc di ciò che può essere escluso dalla scomoda categoria delle "attività commerciali".
La smentita del Governo non si è fatta attendere: "In merito ad un articolo di stampa oggi pubblicato, che imputa al governo un 'blitz alla Camera' per alleggerire l'Imu a carico degli enti non commerciali - recita una nota di Palazzo Chigi -, si precisa che la ricostruzione dei fatti è del tutto errata e destituita di ogni fondamento. Non c'è stato infatti alcun arretramento rispetto a quanto più volte affermato da parte del governo".
La precisazione è d'obbligo, ma non chiarisce del tutto la vicenda. Secondo la ricostruzione del quotidiano, cliniche e ospedali non pagheranno l'Imu se accreditate o convenzionate con gli enti pubblici e se le loro attività si svolgono "in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico", a titolo gratuito o dietro pagamento di rette "d'importo simbolico". Questo sarebbe un altro bel tranello: a quanto ammonta un "importo simbolico"?
Sembra che il governo non lo specifichi, generando così un vuoto normativo che lascerebbe ampi spazi di manovra a chi non ha alcuna intenzione di pagare. Lo stesso espediente sarebbe valido anche per gli immobili in cui si praticano attività culturali, ricreative e sportive. Convitti e scuole, invece, sarebbero esentati in caso di attività paritaria rispetto alle istituzioni statali. Infine, non pagherebbero l’imposta sugli immobili le "strutture ricettive", purché la ricettività sia "sociale".
Il vero blitz di cui parla La Repubblica è però nascosto in tre righe inserite nel decreto Enti locali, un provvedimento già passato alla Camera e incentrato sui costi della politica, che con l'Imu non hanno nulla a che vedere. Una correzione con cui il governo amplia di fatto la delega che il Parlamento gli aveva attribuito per legiferare sull'imposta a carico degli enti no profit.
Su questo punto l'Esecutivo si esprime chiaramente: "La norma in questione, come può facilmente essere riscontrato - si legge ancora nella smentita - è contenuta nel comma 6 dell'articolo 9 del decreto sugli Enti locali, su cui domani (oggi, ndr) la Camera darà il voto finale, dopo aver votato la fiducia lo scorso 8 novembre. Si precisa pertanto che la disposizione, in linea con gli orientamenti più volte espressi dal governo e con le richieste dell'Unione europea, non è stata modificata in alcuna parte dall'esecutivo durante l'esame alla Camera. Il testo approvato coincide esattamente con quello già deliberato dal Consiglio dei ministri lo scorso 4 ottobre. Tale intervento si era reso necessario a seguito del primo parere del Consiglio di Stato, che individuava un possibile profilo di debolezza nell'assenza di una delega espressa per il regolamento governativo, che risponde in dettaglio e puntualmente ai criteri comunitari".
L'ultimo passaggio appare un po' meno cristallino. Lo scorso 4 ottobre i giudici amministrativi - il cui parere è obbligatorio ma non vincolante - si erano espressi negativamente sul primo regolamento prodotto dal ministero dell'Economia, in cui l'esecutivo spiegava in che modo gli enti no profit dovevano calcolare e dichiarare la porzione dei loro immobili destinata al business.
Ma il Consiglio non aveva eccepito solo la violazione dei limiti imposti dalla delega. Secondo i giudici, il Governo aveva "compiuto alcune scelte applicative" che esulavano "dall'oggetto del potere regolamentare attribuito" e che erano state "effettuate in assenza di criteri o altre indicazioni normative atte a specificare la natura non commerciale di un'attività".
Il sospetto ora è che l'esecutivo abbia scelto di evitare il colpo di mano palese bypassando i termini della delega. Al di là degli aspetti tecnici, tuttavia, la filosofia di fondo rischia di non cambiare. Nel primo regolamento era infatti la vaghezza dei termini a determinare i possibili sconti sull'Imu alla Chiesa.
Sarebbe davvero una presa in giro dolorosa, che non lascerebbe più alcun dubbio sull'iniquità dell'austerity in salsa montiana. Proprio in questi giorni si mette a punto la legge di stabilità 2013, che per far quadrare i conti prevede una serie di misure dannose per l'economia reale: dall'aumento della terza aliquota Iva al taglio di alcune detrazioni e deduzioni. Di fronte alla necessità di battere cassa, con lo stesso provvedimento il governo non esita a sforbiciare ancora una volta i fondi destinati a scuola e sanità.
Negli ultimi giorni è stata messa in dubbio perfino la possibilità di garantire assistenza ai malati di Sla. Ma non basta. Dopo mesi di improvvisazioni dilettantistiche, solo ieri si è (forse) risolta la querelle sugli esodati: la copertura per chi rischia di trovarsi senza pensione né lavoro a causa della riforma Fornero sarà garantita dalla deindicizzazione delle pensioni più ricche.
In una situazione del genere, come si potrebbe giustificare il trattamento di riguardo riservato a un centro di potere come il Vaticano? Anche perché, se alla fine la Chiesa non pagasse il dovuto, l'economia italiana ne uscirebbe danneggiata. Almeno in due modi: non solo per il gettito che mancherebbe dalle casse pubbliche, ma anche perché l'ennesimo condono mascherato potrebbe convincere l'Europa a infliggerci una multa pesantissima. Bruxelles ci accusa di aver concesso aiuti di Stato illegali e punta a recuperare le somme non riscosse dal 2006 (quando ancora era in vigore la vecchia Ici). Se consideriamo gli incassi stimati dal governo (300-500 milioni l'anno), il danno potrebbe sfiorare i tre miliardi. Ma in fondo non c'è da preoccuparsi. Quando servono davvero, i soldi si trovano.
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di Fabrizio Casari
Alla porcata della legge Calderoli, si aggiunge ora la maialata del lodo Casini. L’emendamento alla legge elettorale approvato l'altro ieri in Commissione Affari Costituzionali al Senato, prevede il raggiungimento della soglia minima del 42,5 % per far scattare il premio di maggioranza. Al blitz in Commissione sono seguite grandi dichiarazioni sull’importanza di non amplificare eccessivamente la relazione tra voti ottenuti e seggi a disposizione. Ma è fuffa.
L’emendamento, infatti, è stato votato dagli stessi che, all’epoca del Porcellum, avevano votato per un premio di maggioranza ben più ampio, che non prevedeva nessuna soglia minima da raggiungere per incassare il 55% dei seggi; bastava semplicemente che uno schieramento avesse un voto in più di quello avverso. Inoltre, blocco delle liste confermato, così da evitare il fastidio degli elettori che dovrebbero scegliere donne e uomini che li rappresentino.
Casini è dunque tornato all’ovile. La maggioranza che ha votato in Commissione è la stessa che votò il Porcellum nel 2005, quando ancora l’UDC governava con Forza Italia, lega e An. E come già con il Porcellum, hanno confezionato un prodotto che è in sintonia con le necessità politiche del centro-destra e dei poteri forti nazionali ed internazionali che vogliono ad ogni costo evitare un governo progressista o anche solo sul modello di quello di Hollande in Francia. Dicono di averlo fatto per liberarsi del Porcellum, ma la verità è che se rimanesse in vigore il Porcellum, il PD - che viene accreditato sia come primo partito che come coalizione vincente - avrebbe un premio di maggioranza che gli consentirebbe di governare insieme a Vendola. Per questo il blitz che mette i poteri forti al riparo dal rischio di un governo a tinte progressiste.
Lo scenario, infatti, sarà il seguente: non è possibile un allargamento dell’alleanza a Grillo o a quant’altro di simile da parte del PD: dunque la soglia massima cui potranno aspirare a Via del Nazareno arriverà al 30-35%, Vendola compreso. A destra lo sfaldamento del PDL non potrà essere evitato nemmeno dalle iniezioni provenienti dai neofascisti e dal centro e il rischio è che la destra diventi decisamente minoritaria (intorno al 20-25% o poco più) in Parlamento. Il cosiddetto centro arriverà intorno al 5%, dunque inservibile sia per destra che per sinistra, inutile anche per blandire o minacciare niente e nessuno.
Dunque, il senso del blitz è questo: dal momento che nessuna coalizione sarà in grado di ottenere la maggioranza assoluta e nemmeno di arrivare alla soglia del 42,5%, la strada obbligata sarà o il ritorno al voto o il governo di unità nazionale. Guidato da chi? Da Monti, ovvio.
La mossa del cavallo orchestrata da Casini e dal PDL, non si limita poi al solo scenario di governo, dove con l’ipotesi Monti si garantisce la continuità delle politiche ultraliberiste e dell’inchino perenne alle gerarchie ecclesiali. I riflessi sono inevitabilmente sulla corsa al Quirinale. Infatti, tenendo "rigor montis" a Palazzo Chigi, si riduce il numero dei papabili per il Colle, tra i quali spicca proprio Casini. Non solo per l’ambizione nota di cui il suocero di Caltagirone è pervaso, ma anche per il patto non scritto ma vigente che vede alternarsi al Quirinale presidenti provenienti dalla tradizione laica e progressista e da quella cattolica e conservatrice.
Dal momento che se Monti fosse in campo avrebbe molte più possibilità di Casini, se il professore fosse a Palazzo Chigi e quindi fuorigioco per il Colle, il capo dell’UDC avrebbe un avversario in meno e potrebbe far pesare il ruolo di Presidente della Camera avuto in passato. Prodi sarebbe decisamente più autorevole, ma l’opposizione della destra è scontata e dal momento che il presidente lo elegge il Parlamento con maggioranza qualificata…
Qualcuno da Via del Nazareno si accorge fuori tempo massimo di avere dietro di sé il famoso ombrello di Altan e chiede al governo Monti e a Napolitano d’intervenire. Ma Monti (ammesso che non accarezzi proprio l’idea di rimanere a Palazzo Chigi) non ha nessun potere d’intervento, perché anche un decreto deve poi trovare il voto di Camera e Senato per divenire legge e in entrambi i rami del Parlamento il centrodestra ha la maggioranza. Quanto a Napolitano, solo chi non ha capito come ci sia proprio la sua mano nell’operazione di ritorno di Monti può credere che sia contrariato dal voto in Commissione.
E ad ogni modo, volendolo anche estraneo all’operazione, addirittura contrariato, il massimo che potrebbe fare è inviare un messaggio alle Camere. Ma sarebbe una mossa sterile, non solo perché non può minacciare di non apporre la firma sulla legge, non avendo essa tratti palesi d’incostituzionalità, ma anche perché ogni tentativo di pressione sarebbe ininfluente. In campagna elettorale nessuno rispetta la moral suasion e la solennità di un messaggio alle Camere sarebbe decisamente ridotta causa inizio del semestre bianco, cioè i sei mesi nei quali il Presidente della Repubblica non può più sciogliere le Camere e diventa buono solo per il taglio dei nastri e i funerali di Stato.
In un colpo solo, così, il leader dell’UDC, come sempre, ha giocato le sue carte in modo spregiudicato, indifferente ad ogni forma di decenza politica. Annuncia di allearsi con il PD (per impedire che lo stesso stampi il negativo della foto di Vasto e sposti l’alleanza dei progressisti su un terreno elettoralmente più ampio e politicamente più radicale) mentre in realtà sta costruendo da mesi l’alleanza con il PDL depurato da Berlusconi.
Perché l’obiettivo d’impedire l’accesso al governo del centrosinistra è stato ed è il motivo fondamentale che tiene in piedi (o meglio, sulle poltrone) l’UDC. Che è formazione politica organicamente parte della destra clericale: la sua rottura con il PDL è stata rottura del suo gruppo dirigente con la persona di Berlusconi, non con la destra. Ora che il cavaliere pare voler abbandonare lo scenario, l’UDC è pronta a rientrarvi; se mantiene ancora qualche balletto d’incertezza apparente, è solo perché non è ancora chiarissimo quale sarà la decisione finale del cavaliere.
Pare che successivamente al voto in commissione, Bersani abbia sostenuto che è stata una trappola. Sembra anche che abbia aggiunto come risulti chiaro che la soglia sia stata posta per impedire al PD di governare. Straordinario! Acume politico purissimo quello del segretario del PD. Esempio lampante di chi sente avvicinarsi la tragedia quando già si contano le vittime. Adesso dovrà scapicollarsi per spiegare come sia andata in frantumi l’idea di una alleanza con Casini e le sue frattaglie, sul cui altare il PD ha sacrificato il suo rafforzamento politico, che poteva darsi aprendosi alla sinistra sociale prima ancora che a quella politica.
Non avrà nemmeno la forza (e l'intenzione) di rompere nelle giunte con l’UDC e dovrà spiegare perché una linea politica così sgangherata abbia potuto caratterizzare le scelte e la sequela di errori compiuti dal suo partito dall’arrivo di Monti a Palazzo Chigi fino ad oggi. Dovrà trovare la forza per dire a Napolitano di riparare ora ai danni che ha fatto. Tutto questo mentre corre per vincere le primarie. Complimenti.
L’Italia è l’unico paese al mondo che cambia continuamente la sua legge elettorale. L’incapacità di garantire gli equilibri di potere a vantaggio dei conservatori e dei reazionari del nostro paese, costituisce la motivazione di fondo dei ripetuti cambiamenti. Il sistema di voto proporzionale, che per tanti decenni aveva caratterizzato la metodologia elettorale, è stato progressivamente stracciato proprio per adeguare il controllo dei partiti allo stravolgimento continuo del patto sociale e costituzionale sancito dalla Carta.
Nei decenni trascorsi dal dopoguerra alla fine del secolo, dove la collocazione internazionale dell’Italia faceva tutto quello che c’era da fare e anche di più per impedire l’arrivo al governo dei comunisti, c’erano gli Andreotti e i Moro a garantire la vigenza del "fattore K". Adesso, per fregare il PD, è stato sufficiente l’ex portaborse di Forlani. Dice abbastanza dei tempi che ci tocca vivere.
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di Rosa Ana De Santis
La televisione ha immortalato Beppe Grillo per anni, prima di mandarlo in esilio, e gli ha permesso di costruire la fortuna e la popolarità che ha poi utilizzato per fondare un movimento e inaugurare una militanza politica di partito, oggi in co-brand con la Casaleggio associati. La tv lo ha seguito passo passo in ogni piazza, per arrivare all’ultimo show che lo ha visto attraversare con successo lo Stretto.
Quando però le telecamere non sono per lui, solo questo sembra essere il discrimine, il leader maximo del Movimento Cinque Stelle tira fuori chili di odio contro la televisione, confondendo il fenomeno del berlusconismo con la storia e anche il valore sociologico della rivoluzione televisiva.
Si è consumato su questo il fattaccio che ha visto insultata e isolata dai colleghi, all’interno del Movimento, la consigliera di Bologna, Federica Salsi per il suo intervento a Ballarò. Non una sfilata di moda alla Minetti o Amici di Maria de Filippi, ma una trasmissione di approfondimento e dibattito politico. Si può pensare tutto il male possibile di Ballarò ma, appunto, non era la trasmissione di Floris, bensì la TV in quanto tale l’oggetto dell’ira del comico genovese.
Dopo la scomunica di Grillo, confezionata con un esempio illuminante di maschilismo linguistico e l’accusa di avere nella TV il “punto G”, sono piovuti sulla Salsi insulti di ogni sorta dagli adepti e un isolamento consumatosi nella stessa aula del Consiglio comunale dove i colleghi, Marco Piazza e Massimo Bugani, si sono alzati dissociandosi dall’ordine del giorno PD- Sel di solidarietà per la consigliera sommersa di insulti feroci da parte dei grillini. I suoi adepti sul web, come l’intendenza, hanno seguito: e giù insulti sessisti e vaffanculo a gogò, persino velate minacce alla Salsi, rea di aver parlato di cose concrete e, par di capire, rea soprattutto di essere risultata convincente. La pece non era disponibile, pare.
Oltre al metodo squadrista, c’è un merito ridicolo. Sciocco pensare che rimanere fuori dalle ospitate televisive significhi non stare in televisione e Grillo questo lo sa benissimo. Pare proprio che si attacchi ad un cavillo filologico per non confessare la propria vanità di avere tutta l’esclusiva televisiva. Perché di interviste da dietro la scrivania lui ne ha rilasciate tante. Proprio perché conosce l’animale televisivo, sa come salirci e sa anche che dominarlo rende noti; l’idea che chiunque, o molti, possano essere quindi identificati con il suo movimento a prescindere da lui od oltre lui, pare farlo letteralmente impazzire.
La Salsi, che è persona sensata e non sprovveduta, accusa i suoi di avere pericolose derive da setta religiosa e di avere poco senso di democrazia. Grillo, del resto, non è nuovo nel proclamare veloci epurazioni. Il Movimento patisce quindi un altro strappo, forse questa volta ancor più insidioso per la propria unità.
Era accaduto già con il consigliere comunale a Ferrara, Valentino Tavolazzi, che aveva osato aprile un tavolo di discussione anche su quanto tenere Grillo dentro al simbolo. Liquidata la discussione come partitocrazia o come eresia, Grillo lo ha cacciato. Il Movimento ha mostrato quindi in ripetute occasioni di non conoscere alcuna prassi di confronto interno, ma di seguire in maniera verticistica e fiduciaria i proclami del fondatore.
Difficile credere che si possa essere garanti di democrazia all’esterno se se ne è privi, persino con orgoglio, dentro casa. Così funziona nelle Chiese, in Egitto ai tempi dei faraoni o sotto i fascismi. O, per essere più attuali, dentro Scientology, come dichiara la stessa consigliera epurata. A parte con Casaleggio, spin doctor e neo Aristotele di Alessandro Magno a cinque stelle, Grillo non pare consultarsi con alcuno quando decide cosa il Movimento debba fare o non fare nell’agone elettorale italiano, come del resto certifica il decalogo appena diffuso.
Forse è solo espressione autoritaria di narcisismo, dato che ad oggi e' l’unico che pur rifiutando confronti (atteggiamento di Berlusconiana memoria), si è concesso dal comodo di casa lunghe interviste e monologhi. E’ proprio lui per il quale il decalogo, a quanto pare, sarà corredato di tutti gli emendamenti del caso.
Difficile, per chi mastica un po’ di storia, non riconoscere insidiose assonanze di altri italiani che prima di arrivare a marciare su Roma parlavano la stessa lingua dell’antipolitica, dei movimenti dal basso e del rinnovamento. Anche Mussolini, per essere più chiari, non è stato sempre il Duce della guerra, ma anche quello del manifesto sociale di San Sepolcro. E quando si agita il vaffanculo come sintesi, difficile non trovare similitudini con il tristemente noto “me ne frego”.
Un mito di lusso, infine, quello di pensare che la rete sia la nuova forma mistico-tecnologica di democrazia, addirittura sostitutiva dei mezzi di informazione che da sempre arrivano nelle case della gente. Aldilà del merito c’è una questione di evidenza spicciola che solo un popolo innamorato di un guru può decidere di ignorare per atto di fede.
Insomma nella triste vicenda di una consigliera, giovane e preparata, che va in televisione, convince ed è brava e per questo subisce ostracismo, c’è tutta la parte meno nobile del fenomeno politico Grillo. Predicatore e anti-machiavellico come un sacerdote. Arcangelo del rinnovamento e impastato di maschilismo a buon mercato (se la Salsi fosse stata meno carina nessuno l’avrebbe accusata di essere di facili costumi). Innamorato della rete, ma nostalgico della democrazia diretta ateniese. Il controsenso di chi vorrebbe portare nella democrazia moderna tutto il peggio di quello che eravamo.
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di Carlo Musilli
Le chiamano già "liste pulite", ma il rischio è che si trasformino in uno specchietto per le allodole esattamente come la legge anticorruzione. Un modo come un altro per scaricare la pistola in mano alla cosiddetta antipolitica. Ben tre ministri sono al lavoro su un decreto legislativo che impedirà a chi è stato condannato in via definitiva ad almeno due anni di candidarsi a qualsiasi carica elettiva, di governo o nelle società partecipate. Il provvedimento dovrebbe essere esteso anche a chi ha patteggiato. Prevista anche la decadenza dell'incarico per chi viene condannato dopo esser stato eletto.
L'intenzione di Anna Maria Cancellieri (Interni), Paola Severino (Giustizia) e Filippo Patroni Griffi (Pubblica amministrazione) è di chiudere il testo entro la settimana. Scontato il placet di Palazzo Chigi. A quel punto, poiché si tratta di una delega attribuita al governo, le commissioni parlamentari avranno 60 giorni di tempo per fornire un parere, che l'Esecutivo sarà libero di accogliere o meno. Il decreto dovrebbe quindi diventare legge in tempo per le prossime elezioni: non solo le politiche di aprile, ma anche le regionali in Lazio, Lombardia e Molise, che probabilmente si terranno a fine gennaio.
Ci sono però diversi problemi che gettano un'ombra sulla credibilità del provvedimento. Soprattutto in un Paese con 100 parlamentari indagati, condannati o prescritti. Innanzitutto, l'eventuale incandidabilità non avrà affatto gli effetti di un'interdizione perpetua dai pubblici uffici, perché nella maggior parte dei casi sarà temporanea. Una sorta di purgatorio da determinare in base alla gravità del reato e alla pesantezza della condanna. Gli addetti ai lavori giurano che anche in caso di pena minima (due anni) sarà previsto il divieto di candidarsi per almeno una legislatura.
Si salta un giro, come a Monopoli. Ma che senso ha? La legislatura mancata sembra una penitenza un tantino irrisoria per chi ha la fedina sporca, a meno di non voler credere che il condannato sfrutti davvero gli anni a disposizione per dedicarsi all'ascesi. E ritornare d'incanto una persona degna di governare per gli altri.
C'è poi una questione spinosa, perché tira in ballo la Costituzione. Il Partito democratico vorrebbe l'incandidabilità anche per chi ha subito una condanna in primo grado. La nostra Carta però all'articolo 27 comma 2 afferma che "l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva". Come risolvere la contraddizione? Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha avanzato una proposta: "Se ci sono dei limiti costituzionali, io credo che i partiti dovrebbero darsi loro una soglia di accesso e noi lo faremo. Su alcuni reati, come l'associazione mafiosa, tocca ai partiti mettere un limite alle candidature. Noi lo facciamo e lo faremo anche in presenza della sola condanna di primo grado".
Una rigida auto-selezione all'interno dei partiti sarebbe encomiabile. Quasi un sogno. Ma perché limitarla a colpe gravissime come l'associazione mafiosa? E' naturale che dal punto di vista del diritto i reati non siano tutti uguali. Non si capisce però per quale motivo, nel momento in cui i partiti scelgono le persone da candidare, debbano considerare trascurabili le violazioni di legge meno gravi.
Su questo fronte ci scontriamo anche con una delle riforme mancate da questo governo: quella per l'allungamento dei tempi di prescrizione. Con la legge Cirielli, varata nel 2005 sotto il governo di Silvio Berlusconi, la prescrizione è stata abbreviata notevolmente, incoraggiando i difensori a prender tempo per arrivare alla morte naturale del processo, anziché dimostrare l'innocenza dei propri assistiti. Concludere tutti i gradi del procedimento è diventata in molti casi un'impresa.
Ricordiamo che il proscioglimento per prescrizione non è assimilabile né all'assoluzione né alla condanna. E' più semplicemente una sconfitta per il sistema giudiziario e, naturalmente, la nuova legge non può impedire ai prescritti di candidarsi, a prescindere dal reato per il quale erano stati accusati. Ecco perché la legge Cirielli sgretola dalle fondamenta l'efficacia potenziale anche di questo provvedimento.
Ma non è finita. La delega prevede che l'incandidabilità sia prevista per tutti i reati "di grave allarme sociale" e contro la pubblica amministrazione. La corruzione non è citata esplicitamente, ma dovrebbe essere compresa. Rimarrebbero escluse invece le frodi fiscali e perfino la prostituzione minorile, uno dei reati per cui è sotto processo il Cavaliere.
Viene quindi da pensare che il decreto punti a una sorta di effetto placebo sull'opinione pubblica. Le liste dei candidati non saranno affatto rivoluzionate, né il provvedimento sembra avere la forza sufficiente per funzionare come deterrente nei confronti dei partiti. Se davvero si vuole fare pulizia, serve un aspirapolvere ben più potente.
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di Rosa Ana De Santis
“Non entro nel merito di decisioni interne, ma non mi è piaciuta la mossa che è stata fatta”. Così il (teoricamente) ministro delle Infrastrutture ha commentato l’ultimo episodio di bullismo aziendale di Marchionne. Le parole del Ministro Passera, che ormai rimbalzano ovunque, testimoniano invece tutta l’anima di questo governo che traghetta con orgoglio il paese in un’era storica in cui la politica va percepita come uno spreco tout court, una vanità, un lusso al tempo della crisi. La cosiddetta “strigliata” mediatica del Ministro assomiglia piuttosto a una tolleranza codarda per la policy Marchionne a nome di tutto il governo tecnico. La smania di togliersi il cappello davanti alle imprese è il segno più evidente di come il governicchio sia nient’altro che una propaggine delle stesse.
Mentre Marchionne compie una scandalosa “rappresaglia” sui lavoratori, causa ordine del Tribunale di reintegrare i 19 della FIOM, la politica non può fare a meno di spendere due parole di commento su questa ingloriosa pagina di storia economica del Paese. Ormai Marchionne è scansato da tutti e persino un suo fan come Renzi, che ai tempi del referendum vedeva in lui la panacea della produttività nazionale a tasso ridotto di diritti e di sindacati, deve prendere le distanze. Non si può fare diversamente in aria di primarie e di mandato elettorale restituito finalmente ai cittadini.
I licenziamenti annunciati sono "politici": non lo dice la FIOM, ma la Fiat stessa, che in un comunicato afferma che i destinatari dei provvedimenti avevano esposto posizioni critiche nei confronti del piano industriale proposto dall'azienda. Dopo circa un quarto d'ora, qualcuno in Fiat si é reso conto delle ricadute anche giudiziarie che avrebbe avuto produrre il comunicato ed é corso ai ripari, rilanciando un nuovo comunicato, stavolta depurato dalle reali motivazioni.
L’assenza totale di reazioni all'altezza della situazione, sostituite da dichiarazioni di maniera, è la fotografia che immortala la resa ufficiale della politica non alla tecnica, ma alla legge del più forte. E’ il funerale di quello che dovrebbe significare governare un paese e occupare le sedi delle Istituzioni, che non è proprio la stessa cosa che sedere nel cda di una banca. Il laconico messaggio del Ministro è stato aggravato dal tentativo di giustificare l’indifferenza del governo e quasi le scuse per aver espresso commenti, spiegando che si tratta di azioni e decisioni interne all’azienda e in virtù di questo, avrà voluto dire, al di sopra e al di fuori di ogni possibile competenza e intervento di governo.
Come se le aziende fossero non soltanto extra legem (cosa smentita dai tribunali dove Marchionne ha perso) ma aree della vita pubblica estrinseche alle funzioni di controllo e di naturale competenza della politica. Facile - ovvio - se la politica non c’è più. Mai nella Prima Repubblica un rappresentante di governo avrebbe potuto togliersi il cappello in modo tanto plateale di fronte a un’azienda, senza perdere la testa.
Il Piano Fabbrica Italia di Marchionne è passato in cavalleria con la promessa di non chiudere gli impianti, anche se questo, come sta accadendo, significa null’altro che tenerli fermi e con i lavoratori in mobilità. Tra il modello capitalismo della nuova FIAT e il governo non c’è alcuna discontinuità. Marchionne potrebbe essere degno ministro del governo Monti e Passera essere quello che mette i sigilli a Pomigliano d’Arco.
La scienza della politica alla lezione numero uno recita che la politica ha il pieno diritto di vigilare su quando accade nel paese, dentro al quale risiedono anche le aziende. I diritti, le tutele sul lavoro, il business stesso sono voci sottese al rispetto imprescindibile della legge e della carta costituzionale e non c’è recinto aziendale che tenga di fronte a queste inalienabili priorità di principio la cui sovranità non è questione per i tecnici dell’economia, ma per la politica e le Istituzioni. La proprietà privata in Italia è sottesa al valore del bene comune ed è l’articolo 42 della Costituzione a recitarlo, non il manifesto della FIOM.
Ed è evidente che non è l’esubero di 19 posti di lavoro il problema da cui partire per il risanamento di un’azienda che registra ogni giorno un tracollo delle stime di fatturato: dai 104 miliardi di ricavi previsti per il 2014 a poco più di 88. L’evidenza di una misura discriminatoria, irragionevole e intimidatoria avrebbe dovuto esigere un intervento di ben altra natura da parte del governo. La resa della politica cui assistiamo nulla c’entra con gli sprechi del potere, evidentemente nocivi e pericolosi, che tanto vanno di moda nella vulgata dell’antipolitica.
Senza i guardiani del diritto e della legge il paese non soltanto perde la strada della giustizia, ma anche la capacità di arginare svolte eversive del tessuto sociale. Forse è questo quello che vedremo alle prossime elezioni, quando una società sempre più afflitta dall’iniquità andrà alla ricerca della politica e troverà un vuoto di pensiero da riempire, con la prima ricetta populista disponibile e il primo uomo utile della provvidenza e “non importa come”. Così come insegna la storia di tutte le più odiose tirannidi e la spirale dei corsi e dei ricorsi che rischia di non fare eccezioni per questo governo, inflessibile con gli ultimi e con il cappello in mano davanti ai suoi miti.