di Fabrizio Casari

Sono 23 i paesi nei quali le proteste di lavoratori, disoccupati, precari e studenti si sono manifestate. Uno sciopero europeo ampio, partecipato, che ha visto l’adesione di centinaia di sigle politiche, sociali e sindacali in tutto il continente contro le scelte folli delle politiche finanziarie europee, che non solo non risolvono la crisi ma che hanno trasformato una debacle finanziaria degli speculatori internazionali in una crisi economica profonda e drammatica delle popolazioni sulle quali si sono scaricati i costi, mentre i profitti continuano a veleggiare sui centri finanziari.

Quasi ovunque le manifestazioni hanno avuto negli incidenti di piazza un aspetto evidente, pur non essendo la cifra politicamente più importante della giornata. Ma non c’è dubbio che la loro estensione in quasi tutta Europa, ha reso gli incidenti l’aspetto prevalente nei commenti del giorno dopo. Da parte dei media è comprensibile: immagini e racconti degli scontri sono ad impatto mediatico più forte e immediato di quanto non lo siano articoli che entrano nel merito dei contenuti dello sciopero europeo, il primo da quando la crisi economica ha cominciato a mordere il vecchio continente. Da parte dei governi, che la maggior parte dei media ossequiano, le espressioni di sdegno per le violenze accompagnate dalla immancabile, scontata solidarietà alle forze dell’ordine, sono state premessa e conclusione di ogni presa di posizione.

Ma i media dovrebbero fare un altro mestiere: è sulle cause della protesta e sulle mancate risposte dei governi che bisognerebbe porre tutta la necessaria attenzione, facendo prevalere per una volta il tentativo di comprendere e non quello di stigmatizzare. Una domanda non andrebbe mai evasa: hanno ragione e diritto di protestare gli esclusi? E’ una protesta di tipo ideologico o invece le piazze sono la risposta unica di chi non ha voce nei luoghi delle decisioni?

Si chiede agli studenti pacifici di isolare quelli violenti, assegnando così alla protesta il ruolo del governo della stessa. Ma queste sono condizioni non semplici e che comunque si determinano quando la protesta diventa matura, quando trova il suo sbocco politico, la sua rappresentazione organizzata. E, soprattutto, quando i soggetti che protestano diventano interlocutori delle istituzioni che al momento, invece, restano cieche e sorde. L’idea di una società piagata e disperata, colpita e umiliata, che sceglie la protesta educata e discreta, é paradossale.

Nello specifico italiano la protesta viene descritta come “rabbia”. Ma quando un governo conferma le spese folli per l’inutile TAV, il ridicolo Ponte sullo Stretto e l’assurdo acquisto dei bombardieri di ultima (e già tecnologicamente superata) generazione, mantiene inalterati i privilegi delle diverse caste mentre toglie i fondi per i malati di sla, lascia indenni i costi pazzeschi del Palazzo ma abbatte i fondi per l’istruzione, riduce alla fame le pensioni e toglie ogni tutela ai lavoratori, quale sentimento popolare dovrebbe produrre?

Il Governo Monti è, per cifre e per segno, il peggiore degli ultimi 40 anni. Mai l’Italia ha avuto numeri peggiori, mai ha avuto un debito pubblico e una disoccupazione così alta; in preda ad una spirale recessiva, mai come oggi è stata sull’orlo dell’azzeramento della sua struttura industriale e appare decisamente privata di ogni speranza di ripresa a breve-medio termine.

La proposta che indicavano gli scioperanti era, in sintesi, quella di fermare la guerra del capitale contro il lavoro; di arrestare lo strapotere finanziario e difendere le conquiste di civiltà sociale e giuridica; di ribaltare completamente le politiche di azzeramento del debito pubblico che hanno aggravato lo stesso debito, stremato il tessuto sociale collettivo e ridotto un intero continente ad una variabile dipendente della speculazione finanziaria internazionale.

Lo sciopero è stato un collante di almeno due o tre generazioni, una volta scandite non solo anagraficamente, ma anche nell’usufruire dell’ascensore sociale insito nell’idea di progresso, e che oggi si trovano unite nella totale assenza di presente e futuro, vittime del baratro di prospettiva che viene definito modernizzazione. Gli studenti di oggi saranno i precari di domani mentre i lavoratori di oggi non saranno mai i pensionati di domani. Il ciclo dell’esistenza, tra formazione, lavoro e pensioni si è interrotto. Il lavoro come attività principale nella costruzione del reddito e strumento indispensabile per il miglioramento delle condizioni materiali di vita è - e sempre più sarà - un’opportunità per pochi.

La guerra scatenata dal capitale contro il lavoro è stata la forma complessiva che i paesi liberisti hanno adottato di fronte alla globalizzazione. La concentrazione spaventosa di ricchezza in poche mani ha determinato il drammatico allargamento della povertà alla stragrande maggioranza della popolazione. Lo spostamento della ricchezza dai redditi da lavoro a quelli di Borsa non è stata minimamente contrastata, anzi permane una differenza gravissima nella tassazione a favore della rendita.

La speculazione finanziaria, che continua imperterrita a dettare legge non solo sui mercati, ma anche sui governi, non ha dovuto subire nessun freno, non è sottoposta a nessuna regola e i costi del suo rifinanziamento li ha pagati e li paga la quota maggiore della popolazione mondiale. Mentre tentano di piegare l’Europa intera alla logica dello spread sui titoli, i centri finanziari continuano a detenere e ad usare quote spaventose di titoli spazzatura, ormai arrivati ad un importo superiore all’intero PIL mondiale. Carta straccia e diritti stracciati: é questa l’essenza dell’economia di mercato?

Mai, come nell’epoca attuale, il capitalismo ha offerto il suo volto più truce. Liberato dal confronto con modelli diversi e alternativi, ha potuto togliersi la maschera di sistema inclusivo e scatenare la sua voracità nel processo di accumulazione rapida, violenta ed esclusiva a vantaggio di alcuni centri di potere economico e finanziario. Non si tratta, ovviamente, di sociologica ferocia: portare il 99% della popolazione al minimo è lo strumento unico per tenere l’1% al massimo. Si depaupera in profondità l’economia di ogni paese non in nome di un cinismo e di una ferocia senza limiti, ma dalla necessità di aggiornare i processi di accumulazione dei capitali. Il lavoro, in questo senso, non è un elemento duale di relazione con il capitale, bensì il suo nemico dichiarato, a meno di non essere ridotto a pura schiavitù.

Di fronte a questo scenario, all’assenza di ogni pallida forma di resistenza dei governi nei confronti della speculazione internazionale e alla contemporanea incapacità della politica tout-court di rappresentare la disperazione sociale che fa guardare persino ad un passato difficile con nostalgia, è del tutto inutile affidare le risposte ai manganelli.

Oggi, anche grazie ad una cosiddetta sinistra che ha incamerato e metabolizzato la cultura mercatista, che si dimostra non solo incapace ma addirittura non interessata a proporre un disegno aggiornato di una teoria e una prassi della trasformazione della società, i bisogni di quella parte di popolo espulso dal ciclo economico attivo non sono rappresentati.

L’accettazione supina di questo sistema, la sua definizione di processo ineluttabile, di ultima pagina della storia, lascia sul terreno ogni forma di civiltà e di progresso per le società di massa. E così, a seguito di una crisi che disegna uno scenario generale di precarietà, una caduta verticale del tenore di vita del 99% della popolazione e dell’arricchimento smisurato ed insultante dell’1%, si offre a queste e alle prossime due generazioni un senso di assoluta inutilità della formazione culturale e professionale, il vuoto a perdere di una scala dove i gradini permettono solo di scendere.

E allora davvero sono i manganelli a poter e dover fornire le risposte di intere generazioni? Davvero l’assenza di ordine sociale può essere sostituito da una lettura repressiva dell’ordine pubblico? Le risposte vanno cercate altrove e la politica che oggi finge allarme farà bene a reindossare gli abiti che le competono. Perché se lo studio, il lavoro e il welfare sono precari, anche l’ordine pubblico lo diventerà.

 

di Rosa Ana De Santis

La moda della politica americana, fortificata dalla recentissima elezione di Obama, ha contagiato anche la competizione elettorale tricolore. E meno male, pensano in molti. Peccato che sia stato Sky e non il servizio pubblico a garantire, per la prima volta, un confronto pubblico intellegibile che finalmente non si sia trasformato nella solita baruffa di salotto. Un giudizio positivo piuttosto unanime e forse la prova comunicativa più vincente, e più efficace di qualsiasi declamazione di programma, di quanto la cultura di sinistra, il cui dna è fatto di confronto e dialogo, sia diversa da quella piramidale del Pdl che le primarie le fa solo per cercare un erede del Cavaliere e non certo per sentire gli umori della base.

Ragioniamo sulle differenze. Nichi Vendola: “romantico”, come lo definisce Tabacci. E’ lui a disallinearsi dal linguaggio dei concorrenti con un tasso di poeticità e di barocco linguistico a tratti stucchevole. Peccato, perché se avesse detto in quella sede “Pomigliano capitale d’Italia”, quello che dai microfoni di Unomattina ha annunciato con efficace sintesi, tirando fuori l’asso nella manica del lavoro che lo vede più forte di tutti, avrebbe conquistato meglio i suoi elettori.

Expert System, leader in tecnologia semantica, ha analizzato con il software semantico Cogito il linguaggio usato dai cinque sfidanti. Renzi è quello che ha parlato di più: per velocità e numero di vocaboli usati. Uno smacco che la Puppato abbia svelato il meccanismo che lo vedeva teleguidato dai continui sms forse del suo spin doctor. E’ noto per le sue doti mediatiche il rampante sindaco di Firenze, peccato questa caduta di stile che fa venire in mente Ambra Angiolini quindicenne in cuffia con Boncompagni. La giovane età questa volta non porta bene al rottamatore del Pd.

Bersani e Tabacci parlano all’elettorato storico del centro sinistra (rimprovero unanime per Bersani che avrebbe potuto rievocare Enrico Berlinguer invece di Papa Giovanni XXIII) il loro linguaggio arriva meglio a tutti, mentre Renzi, Puppato e Vendola si rivolgono ad elettori con bagaglio culturale più elevato, con una scolarizzazione almeno di diploma superiore.

Renzi e Bersani hanno usato più degli altri termini come lavoro, soldi, governo, coalizione. Tabacci ha insistito molto sui temi fiscali e le tasse. Puppato molto sul lavoro, Vendola su politica e destino. Anche nel vocabolario sembra tratteggiarsi una prima gerarchia di quelli che saranno i vincenti di questa competizione: in testa il segretario e il sindaco che ragionano da capi di coalizione.

Renzi sembra aver studiato i discorsi alla Obama contro lo sfidante Romney e il sentiment evocato è lo stesso. Vendola e Bersani sono quelli che usano di più i termini attinenti al momento difficile che attraversa il paese: crisi, disagio, con una bella quantità di aggettivi negativi.

Colpa forse dei tempi da tg più che da convegno, il linguaggio dei cinque, tracciando un profilo generale, manca in ogni caso di quella chiarezza e accessibilità che rappresenta invece un connotato caratteristico dell’oratoria americana, se tale può dirsi. La Puppato quella più difficile, Tabacci quello forse più machiavellico e tagliente.

Renzi non batte Bersani al primo turno, nemmeno in tv dove sembrava più corazzato e a suo agio. Già la scenografia televisiva delle primarie annuncia quindi una sfida tutt’altro che semplice e i due possibili candidati al ballottaggio, Renzi e Bersani, confermano i loro ruoli: il rottamatore contro la tradizione politica. Peccato che Renzi sia figlio allevato da quella stessa tradizione e che il suo vocabolario rottami senza rivoluzionare nulla, rincorrendo Obama con esiti solo di poco migliori a quelli di veltroniana memoria.

Peccato che Bersani abbia timore di rievocare tutto il portato storico della sinistra, consapevole di aver digerito, con Monti, anche l’indigeribile. Un’amnesia, quella del ruolo e della necessità storica della sinistra, che Vendola colma alla grande, rivendicando temi e politiche per definizione iscrivibili alla storia del riformismo di sinistra e annunciando che chiunque dovesse vincere dovrà fare i conti con lui. A partire dal primo turno, dove conteranno i suoi voti e nessuna parola.

di Antonio Rei

Chiamatela legge di Murphy o legge di Monti, ma tutto ciò che poteva andar male sta andando peggio. Anche le brutte notizie che dovrebbero escludersi a vicenda si presentano immancabilmente a braccetto. L'ultima ha a che fare con il debito pubblico. Nel più recente supplemento al bollettino statistico, la Banca d'Italia ha annunciato che a settembre la voragine nei conti del nostro Paese è arrivata al 1.995,1 miliardi di euro.

Un nuovo massimo storico, che lascia pochi dubbi sul prossimo futuro: “Abbiamo ancora molti record davanti a noi - ha ammesso il numero uno di via Nazionale, Ignazio Visco -. Finché non si raggiunge l'equilibrio di bilancio non solo strutturale, ma in termini assoluti, il debito aumenta. E' aritmetica”. Facile prevedere che ad ottobre il muro dei 2.000 miliardi sia andato in pezzi.

In questi giorni ricorre anche il primo anniversario del governo tecnico e trarre un bilancio è inevitabile. I professori erano stati accolti a furor di popolo con l'obiettivo di salvare i disastrati conti pubblici italiani. Un profano penserebbe subito a due obiettivi: riduzione del debito e/o rilancio della crescita. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Anzi. Gli specialisti bocconiani hanno ottenuto il risultato di ridurre lo spread, ma lo hanno fatto essenzialmente obbedendo agli ordini di Bruxelles, che ha imposto misure depressive per l'economia reale.

Sul versante del debito, invece, la situazione sta peggiorando. Il trend si spiega anche con ragioni tecniche e con una serie di obblighi internazionali, ma al netto di queste voci la squadra di Monti non ha fatto meglio di quella targata Silvio Berlusconi, il che è tutto dire.

Dal punto di vista tecnico, come sottolinea Visco, è inevitabile che il debito aumenti fin quando l'Italia non arriverà al pareggio di bilancio "in termini assoluti", e non solo "strutturali", ovvero al netto del ciclo economico, come previsto per il 2013. Perché l'indebitamento inizi a calare, è necessario che il deficit scompaia. Punto e basta. Ma è anche vero che - pur essendo inevitabile - il tasso d'incremento del debito potrebbe rallentare. Purtroppo sta accadendo esattamente il contrario.

Su questo andamento incidono pesantemente le somme oceaniche che l'Italia si è impegnata a versare per sostenere i Paesi in crisi e per finanziare i fondi salva Stati Efsf e Esm. Ma anche escludendo queste voci, e facendo riferimento esclusivamente al fabbisogno delle amministrazioni pubbliche, il conto è aumentato fra 2011 e 2012. Nei primi 9 mesi dell'anno scorso era stato di 61 miliardi di euro, mentre quest'anno nello stesso periodo è arrivato a quota 61,9 miliardi.

La spesa pubblica quindi sta aumentando, al netto di qualsiasi giustificazione. Con buona pace dei rigoristi a oltranza e soprattutto dei contribuenti, flagellati da nuove tasse mentre assistono alla demolizione dello Stato sociale. Sempre sui nove mesi, infatti, le entrate sono arrivate a 280 miliardi, in crescita del 2,6% rispetto al lo stesso periodo del 2011.

In teoria, mentre i conti pubblici peggiorano, il prodotto interno lordo potrebbe ripartire. Volendo, il rapporto debito/Pil (126% a settembre) si riduce anche alzando il secondo termine dell'operazione, non solo riducendo il primo. Il meccanismo è semplice e si mette in moto in quei Paesi che investono sul proprio rilancio, mettendo le basi per la far risorgere l'attività produttiva. Naturalmente non è il nostro caso. Al contrario, da quando il Professore è in carica, anche la recessione italiana si è aggravata. Lo testimoniano le stesse previsioni economiche del governo, che ad ogni giro di boa vengono drammaticamente riviste al ribasso.

Nell'ultimo aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), l'Esecutivo ha scritto che il Pil viaggerà in recessione del 2,4% nel 2012 e dello 0,2% nel 2013. Le precedenti stime governative parlavano rispettivamente di -1,2% e +0,5% (tanto per intenderci sul livello d'attendibilità dei tecnici). Ancora più pessimista la Banca d'Italia, che nell'ultimo bollettino economico parla di un -0,7% per l'anno prossimo.

Tutti questi numeri ci insegnano almeno due cose. Primo: dobbiamo smetterla di stupirci quando sentiamo parlare di "nuovo record storico" del debito pubblico, perché continueremo a far segnare nuovi primati ancora a lungo. Non c'è alcun dubbio, almeno fino a quando il turbo monetarismo sarà la religione economica imperante. Secondo: la riduzione del debito non è affatto una preoccupazione primaria della tecnocrazia al potere, ma allo stesso tempo questa è probabilmente l'ultima delle ragioni per cui dovremmo lamentarci. Il vero problema non è scritto nelle carte della Ragioneria di Stato. Mentre i conti pubblici non migliorano, a ridursi sono le nostre prospettive.

 

 

 

 

 

 

di Antonio Rei

Sull'Imu alla Chiesa si apre l'ennesimo giallo. Secondo indiscrezioni raccolte dal quotidiano La Repubblica, la squadra dei professori avrebbe escogitato un nuovo trucco fiscale per favorire il Vaticano. L'obiettivo sarebbe di esentare gli enti no profit - fra cui quelli ecclesiastici - dal pagamento della nuova imposta sugli immobili ad uso "misto", quelli adibiti in parte ad attività che generano profitto.

Per non pagare, questi enti dovrebbero solo cambiare entro dicembre il loro statuto, includendo almeno una delle seguenti norme: divieto di distribuire gli utili, obbligo di reinvestire il guadagno a scopi sociali, impegno a devolvere il patrimonio - in caso di scioglimento - ad un'altra struttura no profit con attività analoga. Insomma, una vera e propria definizione ad hoc di ciò che può essere escluso dalla scomoda categoria delle "attività commerciali".

La smentita del Governo non si è fatta attendere: "In merito ad un articolo di stampa oggi pubblicato, che imputa al governo un 'blitz alla Camera' per alleggerire l'Imu a carico degli enti non commerciali - recita una nota di Palazzo Chigi -, si precisa che la ricostruzione dei fatti è del tutto errata e destituita di ogni fondamento. Non c'è stato infatti alcun arretramento rispetto a quanto più volte affermato da parte del governo".

La precisazione è d'obbligo, ma non chiarisce del tutto la vicenda. Secondo la ricostruzione del quotidiano, cliniche e ospedali non pagheranno l'Imu se accreditate o convenzionate con gli enti pubblici e se le loro attività si svolgono "in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico", a titolo gratuito o dietro pagamento di rette "d'importo simbolico". Questo sarebbe un altro bel tranello: a quanto ammonta un "importo simbolico"?

Sembra che il governo non lo specifichi, generando così un vuoto normativo che lascerebbe ampi spazi di manovra a chi non ha alcuna intenzione di pagare. Lo stesso espediente sarebbe valido anche per gli immobili in cui si praticano attività culturali, ricreative e sportive. Convitti e scuole, invece, sarebbero esentati in caso di attività paritaria rispetto alle istituzioni statali. Infine, non pagherebbero l’imposta sugli immobili le "strutture ricettive", purché la ricettività sia "sociale".

Il vero blitz di cui parla La Repubblica è però nascosto in tre righe inserite nel decreto Enti locali, un provvedimento già passato alla Camera e incentrato sui costi della politica, che con l'Imu non hanno nulla a che vedere. Una correzione con cui il governo amplia di fatto la delega che il Parlamento gli aveva attribuito per legiferare sull'imposta a carico degli enti no profit.

Su questo punto l'Esecutivo si esprime chiaramente: "La norma in questione, come può facilmente essere riscontrato - si legge ancora nella smentita - è contenuta nel comma 6 dell'articolo 9 del decreto sugli Enti locali, su cui domani (oggi, ndr) la Camera darà il voto finale, dopo aver votato la fiducia lo scorso 8 novembre. Si precisa pertanto che la disposizione, in linea con gli orientamenti più volte espressi dal governo e con le richieste dell'Unione europea, non è stata modificata in alcuna parte dall'esecutivo durante l'esame alla Camera. Il testo approvato coincide esattamente con quello già deliberato dal Consiglio dei ministri lo scorso 4 ottobre. Tale intervento si era reso necessario a seguito del primo parere del Consiglio di Stato, che individuava un possibile profilo di debolezza nell'assenza di una delega espressa per il regolamento governativo, che risponde in dettaglio e puntualmente ai criteri comunitari".

L'ultimo passaggio appare un po' meno cristallino. Lo scorso 4 ottobre i giudici amministrativi - il cui parere è obbligatorio ma non vincolante - si erano espressi negativamente sul primo regolamento prodotto dal ministero dell'Economia, in cui l'esecutivo spiegava in che modo gli enti no profit dovevano calcolare e dichiarare la porzione dei loro immobili destinata al business.

Ma il Consiglio non aveva eccepito solo la violazione dei limiti imposti dalla delega. Secondo i giudici, il Governo aveva "compiuto alcune scelte applicative" che esulavano "dall'oggetto del potere regolamentare attribuito" e che erano state "effettuate in assenza di criteri o altre indicazioni normative atte a specificare la natura non commerciale di un'attività".

Il sospetto ora è che l'esecutivo abbia scelto di evitare il colpo di mano palese bypassando i termini della delega. Al di là degli aspetti tecnici, tuttavia, la filosofia di fondo rischia di non cambiare. Nel primo regolamento era infatti la vaghezza dei termini a determinare i possibili sconti sull'Imu alla Chiesa.

Sarebbe davvero una presa in giro dolorosa, che non lascerebbe più alcun dubbio sull'iniquità dell'austerity in salsa montiana. Proprio in questi giorni si mette a punto la legge di stabilità 2013, che per far quadrare i conti prevede una serie di misure dannose per l'economia reale: dall'aumento della terza aliquota Iva al taglio di alcune detrazioni e deduzioni. Di fronte alla necessità di battere cassa, con lo stesso provvedimento il governo non esita a sforbiciare ancora una volta i fondi destinati a scuola e sanità.

Negli ultimi giorni è stata messa in dubbio perfino la possibilità di garantire assistenza ai malati di Sla. Ma non basta. Dopo mesi di improvvisazioni dilettantistiche, solo ieri si è (forse) risolta la querelle sugli esodati: la copertura per chi rischia di trovarsi senza pensione né lavoro a causa della riforma Fornero sarà garantita dalla deindicizzazione delle pensioni più ricche.

In una situazione del genere, come si potrebbe giustificare il trattamento di riguardo riservato a un centro di potere come il Vaticano? Anche perché, se alla fine la Chiesa non pagasse il dovuto, l'economia italiana ne uscirebbe danneggiata. Almeno in due modi: non solo per il gettito che mancherebbe dalle casse pubbliche, ma anche perché l'ennesimo condono mascherato potrebbe convincere l'Europa a infliggerci una multa pesantissima. Bruxelles ci accusa di aver concesso aiuti di Stato illegali e punta a recuperare le somme non riscosse dal 2006 (quando ancora era in vigore la vecchia Ici). Se consideriamo gli incassi stimati dal governo (300-500 milioni l'anno), il danno potrebbe sfiorare i tre miliardi. Ma in fondo non c'è da preoccuparsi. Quando servono davvero, i soldi si trovano.

di Fabrizio Casari

Alla porcata della legge Calderoli, si aggiunge ora la maialata del lodo Casini. L’emendamento alla legge elettorale approvato l'altro ieri in Commissione Affari Costituzionali al Senato, prevede il raggiungimento della soglia minima del 42,5 % per far scattare il premio di maggioranza. Al blitz in Commissione sono seguite grandi dichiarazioni sull’importanza di non amplificare eccessivamente la relazione tra voti ottenuti e seggi a disposizione. Ma è fuffa.

L’emendamento, infatti, è stato votato dagli stessi che, all’epoca del Porcellum, avevano votato per un premio di maggioranza ben più ampio, che non prevedeva nessuna soglia minima da raggiungere per incassare il 55% dei seggi; bastava semplicemente che uno schieramento avesse un voto in più di quello avverso. Inoltre, blocco delle liste confermato, così da evitare il fastidio degli elettori che dovrebbero scegliere donne e uomini che li rappresentino.

Casini è dunque tornato all’ovile. La maggioranza che ha votato in Commissione è la stessa che votò il Porcellum nel 2005, quando ancora l’UDC governava con Forza Italia, lega e An. E come già con il Porcellum, hanno confezionato un prodotto che è in sintonia con le necessità politiche del centro-destra e dei poteri forti nazionali ed internazionali che vogliono ad ogni costo evitare un governo progressista o anche solo sul modello di quello di Hollande in Francia. Dicono di averlo fatto per liberarsi del Porcellum, ma la verità è che se rimanesse in vigore il Porcellum, il PD - che viene accreditato sia come primo partito che come coalizione vincente - avrebbe un premio di maggioranza che gli consentirebbe di governare insieme a Vendola. Per questo il blitz che mette i poteri forti al riparo dal rischio di un governo a tinte progressiste.

Lo scenario, infatti, sarà il seguente: non è possibile un allargamento dell’alleanza a Grillo o a quant’altro di simile da parte del PD: dunque la soglia massima cui potranno aspirare a Via del Nazareno arriverà al 30-35%, Vendola compreso. A destra lo sfaldamento del PDL non potrà essere evitato nemmeno dalle iniezioni provenienti dai neofascisti e dal centro e il rischio è che la destra diventi decisamente minoritaria (intorno al 20-25% o poco più) in Parlamento. Il cosiddetto centro arriverà intorno al 5%, dunque inservibile sia per destra che per sinistra, inutile anche per blandire o minacciare niente e nessuno.

Dunque, il senso del blitz è questo: dal momento che nessuna coalizione sarà in grado di ottenere la maggioranza assoluta e nemmeno di arrivare alla soglia del 42,5%, la strada obbligata sarà o il ritorno al voto o il governo di unità nazionale. Guidato da chi? Da Monti, ovvio.

La mossa del cavallo orchestrata da Casini e dal PDL, non si limita poi al solo scenario di governo, dove con l’ipotesi Monti si garantisce la continuità delle politiche ultraliberiste e dell’inchino perenne alle gerarchie ecclesiali. I riflessi sono inevitabilmente sulla corsa al Quirinale. Infatti, tenendo "rigor montis" a Palazzo Chigi, si riduce il numero dei papabili per il Colle, tra i quali spicca proprio Casini. Non solo per l’ambizione nota di cui il suocero di Caltagirone è pervaso, ma anche per il patto non scritto ma vigente che vede alternarsi al Quirinale presidenti provenienti dalla tradizione laica e progressista e da quella cattolica e conservatrice.

Dal momento che se Monti fosse in campo avrebbe molte più possibilità di Casini, se il professore fosse a Palazzo Chigi e quindi fuorigioco per il Colle, il capo dell’UDC avrebbe un avversario in meno e potrebbe far pesare il ruolo di Presidente della Camera avuto in passato. Prodi sarebbe decisamente più autorevole, ma l’opposizione della destra è scontata e dal momento che il presidente lo elegge il Parlamento con maggioranza qualificata…

Qualcuno da Via del Nazareno si accorge fuori tempo massimo di avere dietro di sé il famoso ombrello di Altan e chiede al governo Monti e a Napolitano d’intervenire. Ma Monti (ammesso che non accarezzi proprio l’idea di rimanere a Palazzo Chigi) non ha nessun potere d’intervento, perché anche un decreto deve poi trovare il voto di Camera e Senato per divenire legge e in entrambi i rami del Parlamento il centrodestra ha la maggioranza. Quanto a Napolitano, solo chi non ha capito come ci sia proprio la sua mano nell’operazione di ritorno di Monti può credere che sia contrariato dal voto in Commissione.

E ad ogni modo, volendolo anche estraneo all’operazione, addirittura contrariato, il massimo che potrebbe fare è inviare un messaggio alle Camere. Ma sarebbe una mossa sterile, non solo perché non può minacciare di non apporre la firma sulla legge, non avendo essa tratti palesi d’incostituzionalità, ma anche perché ogni tentativo di pressione sarebbe ininfluente. In campagna elettorale nessuno rispetta la moral suasion e la solennità di un messaggio alle Camere sarebbe decisamente ridotta causa inizio del semestre bianco, cioè i sei mesi nei quali il Presidente della Repubblica non può più sciogliere le Camere e diventa buono solo per il taglio dei nastri e i funerali di Stato.

In un colpo solo, così, il leader dell’UDC, come sempre, ha giocato le sue carte in modo spregiudicato, indifferente ad ogni forma di decenza politica. Annuncia di allearsi con il PD (per impedire che lo stesso stampi il negativo della foto di Vasto e sposti l’alleanza dei progressisti su un terreno elettoralmente più ampio e politicamente più radicale) mentre in realtà sta costruendo da mesi l’alleanza con il PDL depurato da Berlusconi.

Perché l’obiettivo d’impedire l’accesso al governo del centrosinistra è stato ed è il motivo fondamentale che tiene in piedi (o meglio, sulle poltrone) l’UDC. Che è formazione politica organicamente parte della destra clericale: la sua rottura con il PDL è stata rottura del suo gruppo dirigente con la persona di Berlusconi, non con la destra. Ora che il cavaliere pare voler abbandonare lo scenario, l’UDC è pronta a rientrarvi; se mantiene ancora qualche balletto d’incertezza apparente, è solo perché non è ancora chiarissimo quale sarà la decisione finale del cavaliere.

Pare che successivamente al voto in commissione, Bersani abbia sostenuto che è stata una trappola. Sembra anche che abbia aggiunto come risulti chiaro che la soglia sia stata posta per impedire al PD di governare. Straordinario! Acume politico purissimo quello del segretario del PD. Esempio lampante di chi sente avvicinarsi la tragedia quando già si contano le vittime. Adesso dovrà scapicollarsi per spiegare come sia andata in frantumi l’idea di una alleanza con Casini e le sue frattaglie, sul cui altare il PD ha sacrificato il suo rafforzamento politico, che poteva darsi aprendosi alla sinistra sociale prima ancora che a quella politica.

Non avrà nemmeno la forza (e l'intenzione) di rompere nelle giunte con l’UDC e dovrà spiegare perché una linea politica così sgangherata abbia potuto caratterizzare le scelte e la sequela di errori compiuti dal suo partito dall’arrivo di Monti a Palazzo Chigi fino ad oggi. Dovrà trovare la forza per dire a Napolitano di riparare ora ai danni che ha fatto. Tutto questo mentre corre per vincere le primarie. Complimenti.

L’Italia è l’unico paese al mondo che cambia continuamente la sua legge elettorale. L’incapacità di garantire gli equilibri di potere a vantaggio dei conservatori e dei reazionari del nostro paese, costituisce la motivazione di fondo dei ripetuti cambiamenti. Il sistema di voto proporzionale, che per tanti decenni aveva caratterizzato la metodologia elettorale, è stato progressivamente stracciato proprio per adeguare il controllo dei partiti allo stravolgimento continuo del patto sociale e costituzionale sancito dalla Carta.

Nei decenni trascorsi dal dopoguerra alla fine del secolo, dove la collocazione internazionale dell’Italia faceva tutto quello che c’era da fare e anche di più per impedire l’arrivo al governo dei comunisti, c’erano gli Andreotti e i Moro a garantire la vigenza del "fattore K". Adesso, per fregare il PD, è stato sufficiente l’ex portaborse di Forlani. Dice abbastanza dei tempi che ci tocca vivere.


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