di Fabrizio Casari

Sono 23 i paesi nei quali le proteste di lavoratori, disoccupati, precari e studenti si sono manifestate. Uno sciopero europeo ampio, partecipato, che ha visto l’adesione di centinaia di sigle politiche, sociali e sindacali in tutto il continente contro le scelte folli delle politiche finanziarie europee, che non solo non risolvono la crisi ma che hanno trasformato una debacle finanziaria degli speculatori internazionali in una crisi economica profonda e drammatica delle popolazioni sulle quali si sono scaricati i costi, mentre i profitti continuano a veleggiare sui centri finanziari.

Quasi ovunque le manifestazioni hanno avuto negli incidenti di piazza un aspetto evidente, pur non essendo la cifra politicamente più importante della giornata. Ma non c’è dubbio che la loro estensione in quasi tutta Europa, ha reso gli incidenti l’aspetto prevalente nei commenti del giorno dopo. Da parte dei media è comprensibile: immagini e racconti degli scontri sono ad impatto mediatico più forte e immediato di quanto non lo siano articoli che entrano nel merito dei contenuti dello sciopero europeo, il primo da quando la crisi economica ha cominciato a mordere il vecchio continente. Da parte dei governi, che la maggior parte dei media ossequiano, le espressioni di sdegno per le violenze accompagnate dalla immancabile, scontata solidarietà alle forze dell’ordine, sono state premessa e conclusione di ogni presa di posizione.

Ma i media dovrebbero fare un altro mestiere: è sulle cause della protesta e sulle mancate risposte dei governi che bisognerebbe porre tutta la necessaria attenzione, facendo prevalere per una volta il tentativo di comprendere e non quello di stigmatizzare. Una domanda non andrebbe mai evasa: hanno ragione e diritto di protestare gli esclusi? E’ una protesta di tipo ideologico o invece le piazze sono la risposta unica di chi non ha voce nei luoghi delle decisioni?

Si chiede agli studenti pacifici di isolare quelli violenti, assegnando così alla protesta il ruolo del governo della stessa. Ma queste sono condizioni non semplici e che comunque si determinano quando la protesta diventa matura, quando trova il suo sbocco politico, la sua rappresentazione organizzata. E, soprattutto, quando i soggetti che protestano diventano interlocutori delle istituzioni che al momento, invece, restano cieche e sorde. L’idea di una società piagata e disperata, colpita e umiliata, che sceglie la protesta educata e discreta, é paradossale.

Nello specifico italiano la protesta viene descritta come “rabbia”. Ma quando un governo conferma le spese folli per l’inutile TAV, il ridicolo Ponte sullo Stretto e l’assurdo acquisto dei bombardieri di ultima (e già tecnologicamente superata) generazione, mantiene inalterati i privilegi delle diverse caste mentre toglie i fondi per i malati di sla, lascia indenni i costi pazzeschi del Palazzo ma abbatte i fondi per l’istruzione, riduce alla fame le pensioni e toglie ogni tutela ai lavoratori, quale sentimento popolare dovrebbe produrre?

Il Governo Monti è, per cifre e per segno, il peggiore degli ultimi 40 anni. Mai l’Italia ha avuto numeri peggiori, mai ha avuto un debito pubblico e una disoccupazione così alta; in preda ad una spirale recessiva, mai come oggi è stata sull’orlo dell’azzeramento della sua struttura industriale e appare decisamente privata di ogni speranza di ripresa a breve-medio termine.

La proposta che indicavano gli scioperanti era, in sintesi, quella di fermare la guerra del capitale contro il lavoro; di arrestare lo strapotere finanziario e difendere le conquiste di civiltà sociale e giuridica; di ribaltare completamente le politiche di azzeramento del debito pubblico che hanno aggravato lo stesso debito, stremato il tessuto sociale collettivo e ridotto un intero continente ad una variabile dipendente della speculazione finanziaria internazionale.

Lo sciopero è stato un collante di almeno due o tre generazioni, una volta scandite non solo anagraficamente, ma anche nell’usufruire dell’ascensore sociale insito nell’idea di progresso, e che oggi si trovano unite nella totale assenza di presente e futuro, vittime del baratro di prospettiva che viene definito modernizzazione. Gli studenti di oggi saranno i precari di domani mentre i lavoratori di oggi non saranno mai i pensionati di domani. Il ciclo dell’esistenza, tra formazione, lavoro e pensioni si è interrotto. Il lavoro come attività principale nella costruzione del reddito e strumento indispensabile per il miglioramento delle condizioni materiali di vita è - e sempre più sarà - un’opportunità per pochi.

La guerra scatenata dal capitale contro il lavoro è stata la forma complessiva che i paesi liberisti hanno adottato di fronte alla globalizzazione. La concentrazione spaventosa di ricchezza in poche mani ha determinato il drammatico allargamento della povertà alla stragrande maggioranza della popolazione. Lo spostamento della ricchezza dai redditi da lavoro a quelli di Borsa non è stata minimamente contrastata, anzi permane una differenza gravissima nella tassazione a favore della rendita.

La speculazione finanziaria, che continua imperterrita a dettare legge non solo sui mercati, ma anche sui governi, non ha dovuto subire nessun freno, non è sottoposta a nessuna regola e i costi del suo rifinanziamento li ha pagati e li paga la quota maggiore della popolazione mondiale. Mentre tentano di piegare l’Europa intera alla logica dello spread sui titoli, i centri finanziari continuano a detenere e ad usare quote spaventose di titoli spazzatura, ormai arrivati ad un importo superiore all’intero PIL mondiale. Carta straccia e diritti stracciati: é questa l’essenza dell’economia di mercato?

Mai, come nell’epoca attuale, il capitalismo ha offerto il suo volto più truce. Liberato dal confronto con modelli diversi e alternativi, ha potuto togliersi la maschera di sistema inclusivo e scatenare la sua voracità nel processo di accumulazione rapida, violenta ed esclusiva a vantaggio di alcuni centri di potere economico e finanziario. Non si tratta, ovviamente, di sociologica ferocia: portare il 99% della popolazione al minimo è lo strumento unico per tenere l’1% al massimo. Si depaupera in profondità l’economia di ogni paese non in nome di un cinismo e di una ferocia senza limiti, ma dalla necessità di aggiornare i processi di accumulazione dei capitali. Il lavoro, in questo senso, non è un elemento duale di relazione con il capitale, bensì il suo nemico dichiarato, a meno di non essere ridotto a pura schiavitù.

Di fronte a questo scenario, all’assenza di ogni pallida forma di resistenza dei governi nei confronti della speculazione internazionale e alla contemporanea incapacità della politica tout-court di rappresentare la disperazione sociale che fa guardare persino ad un passato difficile con nostalgia, è del tutto inutile affidare le risposte ai manganelli.

Oggi, anche grazie ad una cosiddetta sinistra che ha incamerato e metabolizzato la cultura mercatista, che si dimostra non solo incapace ma addirittura non interessata a proporre un disegno aggiornato di una teoria e una prassi della trasformazione della società, i bisogni di quella parte di popolo espulso dal ciclo economico attivo non sono rappresentati.

L’accettazione supina di questo sistema, la sua definizione di processo ineluttabile, di ultima pagina della storia, lascia sul terreno ogni forma di civiltà e di progresso per le società di massa. E così, a seguito di una crisi che disegna uno scenario generale di precarietà, una caduta verticale del tenore di vita del 99% della popolazione e dell’arricchimento smisurato ed insultante dell’1%, si offre a queste e alle prossime due generazioni un senso di assoluta inutilità della formazione culturale e professionale, il vuoto a perdere di una scala dove i gradini permettono solo di scendere.

E allora davvero sono i manganelli a poter e dover fornire le risposte di intere generazioni? Davvero l’assenza di ordine sociale può essere sostituito da una lettura repressiva dell’ordine pubblico? Le risposte vanno cercate altrove e la politica che oggi finge allarme farà bene a reindossare gli abiti che le competono. Perché se lo studio, il lavoro e il welfare sono precari, anche l’ordine pubblico lo diventerà.

 

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