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di Antonio Rei
Fra la selva di misure discusse negli ultimi giorni dal governo, ce ne sono due che la dicono lunga sulla squadra dei professori, sui rapporti di potere che li tengono in piedi e sul loro concetto distorto di equità sociale. Nel giro di qualche ora, i tecnici si sono prodotti in due abomini: il taglio dei fondi per l'assistenza sanitaria ai malati Sla e la proroga del progetto per il ponte di Messina.
Il primo, senz'altro il più odioso, è inserito in quella babele finanziaria che è la legge di stabilità. Tra un aumento dell'Iva e un taglio alle detrazioni, il governo ha stravolto un provvedimento sgradito ai partiti per ragioni elettorali. Questa deve esser stata davvero l'unica preoccupazione dei montiani, visto che nel restyling del testo hanno tagliato 631 milioni di euro dei 680 previsti per la legge Letta. Così facendo hanno messo a repentaglio il fondo usato dalle Regioni per garantire assistenza domiciliare ai malati di Sclerosi laterale amiotrofica. Una mostruosità etica prima ancora che politica e istituzionale.
Stiamo parlando di persone affette da una patologia degenerativa del sistema nervoso. Un male che impedisce progressivamente di camminare, parlare, deglutire, respirare. A queste persone e alle loro famiglie il governo sta negando l'aiuto dello Stato. Anzi, glielo sta togliendo.
Le cronache raccontano che il ministro piangente Elsa Fornero - titolare non solo del Lavoro, ma anche del Welfare, con delega alle politiche sociali - si sia fatta un altro bel piantarello in Consiglio dei ministri, supplicando il premier Mario Monti e il ministro dell'Economia Vittorio Grilli di evitare almeno questo taglio. A spalleggiarla anche il ministro della Salute, Renato Balduzzi. Ma non è servito a niente, se non ad evidenziare quanto conti chi soffre nei bilanci e quanto conti la Fornero nel governo.
Poco importa, infatti, che Fornero si sia impegnata personalmente a risolvere la questione. Ormai ha dimostrato di non contare nulla nel governo, a meno che non si tratti di ratificare e giustificare le decisioni altrui. Come sempre, tutto passa per il vaglio del Tesoro (ammesso e non concesso che Grilli goda di una qualche autonomia decisionale) e di Palazzo Chigi, il cui unico obiettivo è di spostare i soldi nel modo più conveniente per i poteri che li comandano.
L'andamento dell'economia e della finanza pubblica dimostra che non c'entrano nulla nemmeno le ragioni del bilancio. E in ogni caso non sarebbe sufficiente. Un governo con un minimo di umanità e di solidarietà sociale non abbandonerebbe i malati gravi nemmeno il giorno prima della bancarotta.
Ora, un Paese in cui mancano i soldi per assistere i cittadini non autosufficienti può mai pensare di impelagarsi nella costruzione dell'infrastruttura più folle d'Europa? A quanto pare sì. Nella stessa riunione di cui sopra, il Consiglio dei ministri ha deciso di "prorogare, per un periodo complessivo di circa due anni, i termini per l’approvazione del progetto definitivo del Ponte sullo stretto di Messina - si legge in una nota dell'Esecutivo - al fine di verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle effettive condizioni di bancabilità". Lo scorso 30 settembre il ministro dell'Ambiente (si fa per dire) Corrado Clini aveva garantito che l'opera sarebbe stata archiviata. Ma in fondo è solo un ministro, cosa volete che ne sappia?
E' bene sottolineare le differenze fra gli obiettivi e gli ordini di grandezza: oggi siamo certi di non poter trovare qualche milione per i malati di Sla, ma speriamo ancora di reperire nei prossimi due anni (non secoli) qualcosa come 8 miliardi e mezzo da destinare al ponte. Un suicidio dal punto di vista ambientale ed economico, con costi sociali indefinibili e ricadute occupazionali ancora da dimostrare.
La scelta di rinviare la decisione "è motivata dalla necessità di contenimento della spesa pubblica, vista anche la sfavorevole congiuntura economica internazionale - si legge ancora nella nota -, ed è in linea con la proposta della Commissione europea dell’ottobre 2011 di non includere più questo progetto nelle linee strategiche sui corridoi trans-europei. Solo tali opere, infatti, possono godere del co-finanziamento comunitario".
L'idea di unire Calabria e Sicilia fu partorita dalla cute trapiantata di Silvio Berlusconi, il quale poco più di un anno fa assicurava che il progetto sarebbe andato avanti. Ne sapeva più lui nel 2011 che Clini il mese scorso. Proprio sotto il governo del Cavaliere, nel 2005, il Consorzio di Imprese Eurolink si aggiudicò la magna gara d'appalto per la costruzione dell'obbrobrio. Ne fanno parte gruppi come Impregilo, Sacyr S.A., Società Italiana per Condotte d’Acqua e la Cooperativa Muratori&Cementisti.
Nella lista non compare il nome di un'altra grande azienda italiana, ma i suoi manager possono continuare tranquillamente a fregarsi le mani. E forse dovremmo gioire anche noi. Se mai si farà, il ponte sarà anche Cosa nostra.
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di Antonio Rei
L'agenda Monti dimostra ogni giorno di più la sua logica fallimentare, ma secondo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non potrà essere archiviata nemmeno dopo le elezioni politiche di aprile. Fra i vari "moniti scagliati" negli ultimi mesi dal Quirinale, quello arrivato la settimana scorsa su espressa richiesta del Premier non ha destato particolare clamore.
Eppure si è trattato di un violazione grave del ruolo che la nostra Costituzione assegna al Capo dello Stato. "Mi auguro non manchi il senso di responsabilità nell'Italia post elettorale - ha detto Napolitano durante una visita in Olanda - il resto però dipenderà dai partiti. In Italia, com'è inevitabile e salutare, si dovrà tener conto dell'importantissima esperienza portata avanti nell'ultimo anno dal governo Monti".
Con queste parole il Presidente ha alimentato una convinzione sbagliata ma assai diffusa: quella che vede nei tecnici dell'attuale esecutivo una sorta d'intellighenzia illuminata, guidata dal lume della competenza e del tutto libera da condizionamenti politici. Secondo i profeti del montismo, gli euroburocrati senza partito hanno ragione a prescindere dai risultati che ottengono. La loro strada va seguita con un abbandono quasi mistico, "com'è inevitabile e salutare".
Una posizione da respingere con forza per due ragioni macroscopiche. La prima è che il governo Monti non è affatto apolitico. A inizio mandato fu lo stesso Presidente del Consiglio a rivendicare la continuità con l'esecutivo del suo predecessore, Silvio Berlusconi, nell'ispirazione politico-economica. Certo, il Pdl è ancora il partito più rappresentato in Parlamento, e questo ha inciso nello snaturare provvedimenti nati con intenzioni migliori (l'ultimo esempio è la ridicola legge anticorruzione approvata dal Senato). Tuttavia, in nessuna circostanza il Professore ha smentito il suo orientamento destrorso: dalla politica fiscale a quella sul lavoro, passando per i rapporti con banche, industriali e sindacati.
Ecco perché l'appello di Napolitano va oltre i limiti che la Costituzione impone alla sua carica. All'articolo 87 della Carta si legge che "il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale". Può inviare messaggi alle Camere, ma deve rimanere super partes: non gli è consentita alcuna intromissione nella scelta dell'indirizzo politico. Questa funzione spetta in primo luogo al governo, liberamente eletto dai cittadini. E gli elettori potrebbero benissimo ritenere che l'agenda Monti non sia affatto da portare avanti. La seconda ragione attiene a quello che i tecnici hanno effettivamente prodotto in quasi un anno di mandato. Ossia un disastro completo, da ogni punto vista: sociale, economico e persino della finanza pubblica.
La debacle più clamorosa è stata senz'altro quella del ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Con la riforma della previdenza, la Professoressa torinese ha cancellato i diritti acquisiti da milioni di persone, cambiando in corsa le regole per ottenere la pensione. Così facendo ha creato addirittura una nuova categoria sociale, quella degli esodati, lavoratori che rischiano di ritrovarsi senza stipendio né assegno previdenziale. Nemmeno il numero delle persone coinvolte nel provvedimento è stato in grado di produrre il suo dicastero. Una mostruosità dovuta solo a negligenza, al pressappochismo e a una buona dose di ferocia sociale con cui è stata scritta la legge.
Quanto alla riforma de lavoro, l'obbrobrio più noto è la modifica all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che consente di non reintegrare le persone licenziate ingiustamente per motivi economici o disciplinari. Ora le imprese, nella maggior parte dei casi, se la cavano con un semplice indennizzo. Varie misure anche per i giovani, peccato che nessuna combatta seriamente il dramma del precariato (si pensi al geniale aumento dei giorni da lasciar passare fra un contratto e l'altro). A riprova dell’inutilità del provvedimento, nessun incremento dell’occupazione ha fatto seguito alla modifica dell’art.18. Che, va precisato, non era stato mai posto dalle imprese come primo terreno d’intervento per la ripresa dell’occupazione.
Precari umiliati e offesi anche nel mondo della scuola. La spending review prevede di riutilizzare "in ambito provinciale" 10 mila insegnanti in esubero, che saranno impiegati per coprire posti vacanti e supplenze, ma in classi di concorso diverse dalla propria. Un'altra misura prevede l'impiego come lavoratori Ata (personale amministrativo, tecnico e ausiliario) di 3.765 docenti "inidonei all'insegnamento" per motivi di salute. Infine, è stato bandito un concorsone-truffa che rischia di far perdere il posto a lavoratori abilitati e già vincitori di un concorso passato. Insegnanti che spesso hanno retto la nostra scuola per decenni.
E i tagli ai costi della politica? Su questo capitolo il governo si è speso in tante promesse, salvo poi disattenderle. Quasi irridente la riduzione delle auto blu, peraltro non rispettata dalle amministrazioni. Caduti ovviamente nel dimenticatoio i propositi di ridurre numero e stipendio dei parlamentari.
Sembrerà strano a chi s'illude di fare sacrifici in vista di un bene superiore, ma da quando il Professore è entrato a Palazzo Chigi anche i conti dello Stato sono peggiorati.
Gli ultimi dati parlano chiaro. Eurostat ha comunicato che nel secondo trimestre del 2012 il debito pubblico italiano è schizzato al 126,1% del Pil (+4,4% su base annua). Fra gennaio e marzo aveva già raggiunto il picco del 123,7%. In termini assoluti il nostro debito è ancora il più alto d'Europa (un miliardo e 982 milioni, circa 72 milioni in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso), mentre in rapporto al Pil è secondo solo a quello della Grecia (al 150,3%).
A fine settembre, nell'ultima nota d'aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), il governo ha rivisto in peggio tutte le sue stime: nel 2012 il debito salirà al 126,4% (123,4% nei calcoli di aprile), per arrivare poi al 127,1% nel 2013 e iniziare a scendere dall'anno successivo.
Quanto al rapporto deficit/Pil, sarà del 2,6% quest'anno (contro l’1,7% previsto) e dell’1,8% nel 2013 (ma solo ad aprile si parlava dello 0,5%). Con tanti saluti al fantomatico "pareggio di bilancio", a meno di non parlare in termini strutturali, ossia al netto del ciclo economico. E' questa la nuova modalità di valutazione introdotta dal Fiscal Compact europeo: una correzione per nulla chiara, volutamente ambigua a livello tecnico. L'unica certezza è che, nei fatti, il nostro bilancio non sarà per nulla in pareggio.
Sempre secondo il Def, il Pil viaggerà in recessione del 2,4% nel 2012 e dello 0,2% nel 2013 (le precedenti stime indicavano rispettivamente di -1,2% e +0,5%). Ancora più pessimista la Banca d'Italia, che nell'ultimo bollettino economico parla di un -0,7% per l'anno prossimo.
Veniamo ora alle reali condizioni di vita degli italiani. Stando ai dati Istat, il mese scorso le retribuzioni sono aumentate dell'1,4% su base annua. Un incremento molto inferiore a quello dell'inflazione (+3,2%), che ha portato la forbice prezzi-salari fino all'1,8%, con inevitabili ripercussioni negative sui consumi.
Ad agosto il tasso di disoccupazione è rimasto stabile per il terzo mese consecutivo al 10,7%, il dato più alto dal 2004, anno d'inizio delle serie storiche mensili Istat. Rispetto allo stesso mese del 2011, invece, si è registrato un aumento del 2,3%. Intanto, la produzione industriale è calata del 5,2% su base annua (dopo il -7,3% di luglio), mentre nella media dei primi otto mesi del 2012 il crollo è stato del 6,8%.
Di fronte a numeri simili, è ragionevole parlare del montismo come di un'esperienza positiva? E' davvero questa la scelta migliore, e anzi l'unica possibile anche per la prossima legislatura? Certo che no. Il sospetto è che del nostro debito pubblico non importi nulla a nessuno, men che meno all'Europa, il cui obiettivo è semplicemente ottenere il controllo politico dei singoli Stati. E fin qui l'unico beneficio portato da Monti all'Italia è stato proprio sul piano dei rapporti internazionali. Un risultato ottenuto più per appartenenza che per merito: in sostituzione dell'euro-giullare Berlusconi, i tecnocrati di Bruxelles hanno visto arrivare un uomo dalla lunga esperienza in Commissione europea, alla quale deve praticamente tutta la sua carriera. Uno di loro, insomma. Uno disposto ad obbedire senza fare domande.
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di Agnese Licata
Della serie: quando un risultato elettorale dice tutto (sul disgusto degli elettori verso la politica) e dice niente (sul futuro governo della Sicilia). L’astensione oltre il 50% e l’esplosione del Movimento 5 Stelle fino al 18% dei voti raccontano di cittadini che in partiti vecchi e nuovi non credono più. Soprattutto, non pensano che uno o l’altro cambi qualcosa. “Su’ tutti ‘na cosa” - ossia “sono tutti uguali” - è una delle frasi più ricorrenti in Sicilia a tempo di elezioni. Stavolta, i grillini hanno ridotto almeno in parte il ricorso a questa massima dell’anti-politica, ma è il pessimismo a prevalere, almeno tra la metà degli isolani.
Per tutta la giornata si è parlato, ipotizzato e fantasticato molto sulle ripercussioni che ciò avrà a livello nazionale, in particolar modo sul Pdl, vero sconfitto in Sicilia (13% dei voti) e probabilmente partito che più di altri ha disorientato i propri simpatizzanti, allontanandoli dai seggi elettorali. L’intervento del segretario Angelino Alfano, dopo giorni di silenzio, ha cercato di mostrare un partito più coeso di quanto non sia, addirittura provando a salvare il triste risultato del “suo” Nello Musumeci. Ha confermato le primarie del partito, ma come reagirà Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi, neanche un preveggente può dirlo.
Meglio allora concentrarsi su un’altra grande incognita: la futura maggioranza dell’Assemblea siciliana. I risultati di questa elezione potranno cambiare davvero la politica regionale oppure generare una fotocopia dell’ultima, disastrosa, instabile legislatura? Ad oggi, entrambe queste alternative hanno la stessa possibilità di realizzarsi. Mettiamo per un attimo da parte l’euforia del Partito democratico e della sua coalizione che con oltre il 30% dei voti è stata la più votata, e guardiamo alla nuova composizione dell’Ars. Il sistema elettorale è un proporzionale con sbarramento al 5% e premio di maggioranza (risicato). Quindi: Pd e Udc ottengono insieme 39 seggi (compresa la nomina del Presidente, Rosario Crocetta, e il premio di maggioranza); Pdl-Cantiere popolare crolla a 20 seggi; il Movimento 5 Stelle conquista 15 seggi, come anche gli autonomisti (Mpa e Grande Sud) guidati da Gianfranco Miccichè.
Per arrivare ai 90 deputati totali manca un ultimo seggio, da assegnare con i resti, ma la sostanza non cambia: nessuno ha la maggioranza assoluta in aula. Alla coalizione di Crocetta mancano 7 seggi. Dove trovarli? Ieri i giornalisti lo hanno chiesto più volte all’ex sindaco di Gela, con risposte sempre costantemente vaghe e un po’ scopiazzate ai grillini: “Non faremo alleanze, ma cercheremo l’appoggio di deputati responsabili sulle singole proposte”. E da dove potrebbero arrivare questi deputati responsabili?
Non certo dal Pdl. Ci sono poi i grillini, che per bocca di un esultante Giancarlo Cancelleri, hanno ribadito che loro di alleanze non ne vogliono neanche sentir parlare. Disponibilità, invece, su singole idee. Difficile però che nel loro primo pesante banco di prova, gli attivisti siano disposti a scendere a patti, rischiando di compromettere l’intransigenza che tanto li fa apprezzare ai loro elettori.
Più facile, invece, che il Pd trovi una qualche sponda nell’Mpa e in Miccichè. Ed eccoci qui a una musica già suonata, quella che dal 2010 ha visto alla guida della Sicilia una coalizione Mpa-Pd come unica soluzione per avere una maggioranza all’Assemblea. Questo è il rischio più forte: ritrovarsi punto e a capo. Crocetta ha dichiarato che lui non intende compromettere se stesso e il partito con inciuci vari, piuttosto si torna tutti a votare. Ma il suo partito la penserà allo stesso modo, soprattutto considerando il fatto che è composto dalle stesse persone che appoggiarono fino all’ultimo l’ex governatore Raffaele Lombardo, rinviato a giudizio per concorso in associazione mafiosa e voto di scambio?
Insomma, da queste elezioni in Sicilia si aspettavano tante risposte, ma arrivano più che altro domande.
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di Agnese Licata
Anche in un quadro politico devastato e imprevedibile come quello italiano, ogni elezione porta con sé la speranza di un cambiamento. E forse mai come in questo momento, la voglia di voltare pagina è forte. Spinta, da un lato, da una crisi economica che le varie politiche europee, nazionali e locali non hanno neanche intaccato, e, dall’altro, dagli innumerevoli scandali e colpi di mano che vedono protagonisti i partiti italiani.
Nel giorno in cui la Sicilia va al voto, guardata dal resto d’Italia con un mix di attenzione, curiosità e timore, l’elettore siciliano, anche se tendenzialmente pessimista e confuso (soprattutto se di centrodestra), incrocia le dita e spera che questa volta, la politica isolana inverta davvero la rotta. Il cartellone delle liste è a dir poco corposo, le alternative non mancano. Almeno apparentemente. Dieci i candidati a Presidente, 20 le liste e più di 1.600 gli aspiranti deputati all’Assemblea. Destra, centro, sinistra, alternativi, berlusconiani, antiberlusconiani e chi più ne ha, più ne metta.
In questi giorni, inevitabilmente, le cassette delle lettere dei siciliani hanno visto un via vai di buste, inviti e proclami firmati dai vari candidati. Molte finiscono dritte dritte nel cestino della carta. Ma se si ha lo stomaco di buttar giù la retorica a chili che le caratterizza, si scopre quanto siano simili. A prevalere è l’assoluta mancanza di un vero programma di governo, di manifestazioni d’intento concrete sui tanti problemi che pesano sull’Isola. Prevalgono invece frasi del tipo: “Dobbiamo far valere i diritti e gli interessi dei siciliani, troppo spesso inascoltati a Roma e in Europa”.
La strategia è quella di sempre: non esporsi troppo, trovare i soliti nemici “esterni” e tenersi così le mani libere in vista del post-elezioni quando toccherà fare accordi e alleanze. Perché nella grande indecisione di questo voto, c’è una sola (quasi)certezza: dalle urne difficilmente uscirà una vera maggioranza. E così, sotterraneamente, nell’ultima settimana, i partiti hanno preparato il terreno per futuri “inciuci”, fotocopia del passato prossimo.
Innanzitutto, ci sono le voci di un patto Cro-chè, dai nomi dei due candidati Rosario Crocetta (leader di una coalizione Pd-Udc) e Gianfranco Miccichè (Grande Sud, ex Pdl, appoggiato dall’ex governatore Raffaele Lombardo). Tutti gli interessati, a microfono e taccuini hanno smentito, ma in sostanza, ci sarebbe l’intenzione per Miccichè di far confluire i voti verso Crocetta attraverso il voto disgiunto per danneggiare l’odiato Nello Musumeci, candidato del Popolo delle libertà e uomo su cui il segretario Angelino Alfano ha puntato tutto. Per mettersi poi al sicuro dall’exploit preannunciato del Movimento 5 stelle, è già cominciato il corteggiamento dei partiti ai grillini. Sia Musumeci sia Crocetta, hanno fatto capire di essere disposti a venire a patti con il Movimento, una volta entrati a Palazzo d’Orleans.
C’è poi un aspetto su cui sarebbe interessante capire le intenzioni di tutti i candidati, grillini compresi. Uno di quei nodi che nessun politico siciliano ha mai avuto davvero il coraggio di affrontare ma che è cruciale: lo spreco di denaro pubblico da parte di comuni, province e Regione. Uno spreco che alla base ha favoritismi, compravendita di voti, interessi personali… insomma, tutto tranne il bene comune. La Regione viaggia verso i 6 miliardi di euro di debito e se nonostante questo non è ancora stata commissariata è solo per alcuni giochetti sul bilancio che hanno inserito tra i crediti voci irriscuotibili (come il pagamento di alcuni finanziamenti europei contestati dalla stessa Ue perché utilizzati in modo irregolare). Intanto i deputati dell’ARS continuano a prendere uno stipendio da 12-13mila euro al mese.
I Comuni non sono messi meglio. Una settimana fa, i sindaci di alcune amministrazioni siciliane hanno consegnato in prefettura le fasce tricolori minacciando di non organizzare i seggi per mancanza di soldi in cassa. Le tre principali città dell’Isola sono a rischio fallimento. Palermo ha oltre 600 milioni di debito, più due municipalizzate-buchi neri che negli anni sono servite a garantire più che servizi efficienti, un sicuro bacino di voti ai vari sindaci.
I conti di Catania sono sotto la lente della magistratura e della Corte dei Conti. Nel giro di vent’anni di cattiva amministrazione e clientelarismo, si è arrivati a un miliardo di deficit.
Poi, c’è Messina, commissariata dopo che il sindaco Buzzanca si è dimesso giusto per presentare la propria candidatura a queste elezioni. Alle spalle si è lasciato un Comune sull’orlo del dissesto (per colpe di numerose amministrazioni, ovviamente). Il patto di stabilità è stato sforato di oltre 60 milioni di euro l’anno scorso e quindi, il Governo ha deciso un taglio netto dei trasferimenti. Gli effetti li vedranno i cittadini, con trasporti e raccolta rifiuti a singhiozzo.
Di fronte a tutto questo, anche il candidato del Pd Crocetta continua con la solita lagnanza verso Roma che lascia la Sicilia a se stessa, senza ammettere che dietro passivi e disservizi non c’è Roma e il Governo, ma amministratori locali (di destra come di sinistra) irresponsabili e soprattutto incompetenti. L’ammissione di colpe ed errori, non va di moda, si sa.
Allora perché sorprendersi di quelle piazze riempite dal Movimento 5 stelle e di quelle vuote dei politici di professione? Ma adesso c’è il voto e all’interno della cabina elettorale, in Sicilia, tutto può succedere.
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di Fabrizio Casari
“Così come scesi in campo nel ’94 per il bene del paese, oggi annuncio che non mi ricandiderò compiendo un nuovo gesto d’amore per il paese”. Con la dose consueta di autocelebrazione tipica di ogni sua esternazione, Berlusconi ha diramato così, urbi et orbi, l’intenzione di non ripresentarsi candidato premier per la destra italiana. Sembra che si chiuda così un’epoca storica più che una fase politica; che l’uomo che ha diviso in due l’Italia, azzerando idee e progetti di chi era con lui e anche di chi lo ha combattuto, riducendo lo scontro politico a una partita tra berlusconiani e anti-berlusconiani, si faccia da parte.
Pare che a rompere gli ultimi indugi siano intervenuti una serie di incontri: da quello con la sua sondaggista ufficiale, Alessandra Ghisleri, che gli pronosticava un risultato penoso alle prossime elezioni (minimo 11, massimo 15%), a quello della cena a Palazzo Chigi con Mario Monti, da dove Berlusconi è uscito rassicurato e affascinato al tempo stesso. A dar retta ai racconti della serata, pare che il cavaliere, che ha tentato invano di offrire a Monti la candidatura, sia comunque convinto che in qualche modo il professore sarà in campo a garantire la linea politica del centro-destra anche nel prossimo futuro.
L'annuncio del ritiro, ovviamente, é un annuncio e nient'altro, almeno al momento. E se pure dovesse trovare conferma, non significherà comunque abdicazione. L'ex premier, infatti, non rinuncerà ad influenzare e a indirizzare l'agenda politica della destra itaòliana, con le buone (il ruolo del padre nobile) o con le cattive (l'utilizzo spregiudicato dei suoi media) affinché i suoi interessi vengano tutelati al meglio. Con tutta probabilità, però, volendo uscire dalla pura cronaca, tre sono le ragioni alla base della decisione: la convinzione che le urne l’avrebbero pesantemente castigato, che i processi in corso sarebbero diventati un’ulteriore fonte di pericolo e che le sue aziende avrebbero risentito di un suo ruolo ancora centrale nello scontro politico. Tre ragioni difficili da declinare in ordine d’importanza, essendo in qualche modo legate l’una alle altre. Partiamo dalla prima delle tre elencate.
Il cavaliere, che in politica come negli affari mai ha accettato la competizione senza prima essersi assicurato di vincerla, non ha nessuna voglia di veder uscire dalle urne l’istantanea del suo crepuscolo. In questo gli va riconosciuta l’abilità del giocatore che sa come in presenza di brutte carte sia meglio passare la mano o addirittura alzarsi dal tavolo di gioco. D’altra parte, se nemmeno con una maggioranza bulgara di oltre 100 parlamentari alla Camera è riuscito a governare, figurarsi cosa potrebbe fare con una pattuglia di peones decisamente inferiore. Il suo partito, bastonato e all’angolo, che ospita ogni appartenenza e il suo contrario, appare eccessivamente in ostaggio delle spinte centrifughe di ogni componente interna e ogni singola vanità, impossibile tentare di incollare il puzzle e dargli una veste di soggetto politico.
La seconda questione, anch’essa importante nella scelta di compiere un passo indietro, ha a che vedere con i due processi in corso - Media trade e Ruby - dove il cavaliere rischia condanne pesanti. Il passo indietro in cambio di una sorta di salvacondotto è dunque moneta di scambio ipotizzabile e tutto sommato utile per lui.
Berlusconi vuole uscire per sempre dalle aule giudiziarie e la sua futura collocazione nelle istituzioni italiane sarà a questo legata. Data per scontata l’impossibilità anche solo a livello di boutade di prevedere il Colle nelle sue ambizioni, è probabile che la simpatia verso Monti possa essere il preludio ad una richiesta di nomina a Senatore a vita, che meglio si conformerebbe all’Io ipetrofico del soggetto.
C’è poi la terza questione, davvero non meno importante delle altre due, che si riferisce alla condizione delle sue aziende. Tutti, soprattutto quelli che fanno finta di non saperlo, sanno benissimo che Berlusconi scese nella contesa politica in forma diretta in una fase nella quale più che fermare i comunisti alle porte era necessario fermare la guardia di finanza al suo portone.
L’esposizione bancaria del suo gruppo era drammatica, il debito era divenuto insostenibile e la fine politica del suo principale supporter - Bettino Craxi - non gli permetteva di nutrire alcuna fiducia nello sviluppo definitivo delle sue aziende sul mercato; almeno non nelle dimensioni che avrebbero consentito un rapido rientro dell’esposizione e un riassetto generale in positivo del Gruppo.
E che sia stata la mossa vincente, non c’è dubbio: da quando il cavaliere si è insediato a Palazzo Chigi, non sono stati lesinati provvedimenti, decreti e leggi ad hoc (l’ultima quella sul digitale terrestre, fregatura colossale che è servita a far vedere i decoder dell’azienda di famiglia ndr) per favorire le sue aziende, direttamente e indirettamente, lecitamente e illecitamente.
I record di concentrazione pubblicitaria accumulati da Pubblitalia sono solo uno degli esempi di come funzionavano i rapporti tra le imprese e il governo, così come la crisi della stessa concessionaria dopo l’uscita del cavaliere da Palazzo Chigi è la controprova di quanto quei risultati fossero legati all’influenza politica del gruppo e non certo alla capacità di seduzione sul mercato.
Ebbene, proprio le sue aziende - mai così in crisi negli ultimi venti anni (ci si mette pure il Milan a dare dolori di testa…) - hanno oggi bisogno del disimpegno di Berlusconi, di dover separare la loro attività imprenditoriale dalle sorti politiche disastrose del suo proprietario. Giacché quel legame indissolubile tra Berlusconi e il suo gruppo, così come è servito a crescere in parallelo al controllo politico del paese, oggi é divenuto una palla al piede per le sue aziende, che soffrono proprio dell’assoluta mancanza di controllo politico e della crisi di rigetto del paese verso Berlusconi. Glielo hanno spiegato bene Confalonieri ed Ennio Doris e lo stesso Gianni Letta non ha potuto omettere come la caduta rovinosa del consenso politico chiuda porte e sportelli, con il rischio evidente di trascinare il gruppo nel gorgo del partito o di quel che ne resta.
Queste quindi le ragioni del passo indietro di Berlusconi, che si dimostra una volta di più capace di annusare l’aria e che, anteponendo i suoi interessi personali a quelli politici del suo schieramento, si smarca. Se il dribbling riuscirà o se ormai è arrivato fuori tempo massimo, lo dirà la fine della partita, cioè le condizioni nelle quali l’ex premier affronterà il post-voto.
Quella che sta per scatenarsi ora dentro il Pdl o quel che ne resta è una vera e propria guerra, tra deputate orfane del sultano, politicanti di ogni diaspora pronti all’ennesima capriola e peones improvvisamente preoccupati del loro futuro. L’aggregato scomposto che negli ultimi venti anni di politica italiana è stato soprattutto un mix tra il collegio di difesa del cavaliere e il consiglio d’amministrazione delle sue aziende, si trova ora a dover diventare - se mai ci riuscirà - un partito e non più una protesi del suo capo.
Operazione quanto mai difficile, perché le grandi e voraci mascelle mal si sposano con lo scarso peso intellettuale e l’ancor meno spessore istituzionale dei protagonisti. Non c’è praticamente nessuno nel Pdl che non si candidi alle primarie e non c’è nessuno che possa ragionevolmente pensare di vincerle. La caduta del cavaliere porta a terra anche il cavallo.