di Carlo Musilli

Le chiamano già "liste pulite", ma il rischio è che si trasformino in uno specchietto per le allodole esattamente come la legge anticorruzione. Un modo come un altro per scaricare la pistola in mano alla cosiddetta antipolitica. Ben tre ministri sono al lavoro su un decreto legislativo che impedirà a chi è stato condannato in via definitiva ad almeno due anni di candidarsi a qualsiasi carica elettiva, di governo o nelle società partecipate. Il provvedimento dovrebbe essere esteso anche a chi ha patteggiato. Prevista anche la decadenza dell'incarico per chi viene condannato dopo esser stato eletto.

L'intenzione di Anna Maria Cancellieri (Interni), Paola Severino (Giustizia) e Filippo Patroni Griffi (Pubblica amministrazione) è di chiudere il testo entro la settimana. Scontato il placet di Palazzo Chigi. A quel punto, poiché si tratta di una delega attribuita al governo, le commissioni parlamentari avranno 60 giorni di tempo per fornire un parere, che l'Esecutivo sarà libero di accogliere o meno. Il decreto dovrebbe quindi diventare legge in tempo per le prossime elezioni: non solo le politiche di aprile, ma anche le regionali in Lazio, Lombardia e Molise, che probabilmente si terranno a fine gennaio.

Ci sono però diversi problemi che gettano un'ombra sulla credibilità del provvedimento. Soprattutto in un Paese con 100 parlamentari indagati, condannati o prescritti. Innanzitutto, l'eventuale incandidabilità non avrà affatto gli effetti di un'interdizione perpetua dai pubblici uffici, perché nella maggior parte dei casi sarà temporanea. Una sorta di purgatorio da determinare in base alla gravità del reato e alla pesantezza della condanna. Gli addetti ai lavori giurano che anche in caso di pena minima (due anni) sarà previsto il divieto di candidarsi per almeno una legislatura.

Si salta un giro, come a Monopoli. Ma che senso ha? La legislatura mancata sembra una penitenza un tantino irrisoria per chi ha la fedina sporca, a meno di non voler credere che il condannato sfrutti davvero gli anni a disposizione per dedicarsi all'ascesi. E ritornare d'incanto una persona degna di governare per gli altri.

C'è poi una questione spinosa, perché tira in ballo la Costituzione. Il Partito democratico vorrebbe l'incandidabilità anche per chi ha subito una condanna in primo grado. La nostra Carta però all'articolo 27 comma 2 afferma che "l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva". Come risolvere la contraddizione? Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha avanzato una proposta: "Se ci sono dei limiti costituzionali, io credo che i partiti dovrebbero darsi loro una soglia di accesso e noi lo faremo. Su alcuni reati, come l'associazione mafiosa, tocca ai partiti mettere un limite alle candidature. Noi lo facciamo e lo faremo anche in presenza della sola condanna di primo grado".

Una rigida auto-selezione all'interno dei partiti sarebbe encomiabile. Quasi un sogno. Ma perché limitarla a colpe gravissime come l'associazione mafiosa? E' naturale che dal punto di vista del diritto i reati non siano tutti uguali. Non si capisce però per quale motivo, nel momento in cui i partiti scelgono le persone da candidare, debbano considerare trascurabili le violazioni di legge meno gravi.

Su questo fronte ci scontriamo anche con una delle riforme mancate da questo governo: quella per l'allungamento dei tempi di prescrizione. Con la legge Cirielli, varata nel 2005 sotto il governo di Silvio Berlusconi, la prescrizione è stata abbreviata notevolmente, incoraggiando i difensori a prender tempo per arrivare alla morte naturale del processo, anziché dimostrare l'innocenza dei propri assistiti. Concludere tutti i gradi del procedimento è diventata in molti casi un'impresa.

Ricordiamo che il proscioglimento per prescrizione non è assimilabile né all'assoluzione né alla condanna. E' più semplicemente una sconfitta per il sistema giudiziario e, naturalmente, la nuova legge non può impedire ai prescritti di candidarsi, a prescindere dal reato per il quale erano stati accusati. Ecco perché la legge Cirielli sgretola dalle fondamenta l'efficacia potenziale anche di questo provvedimento.

Ma non è finita. La delega prevede che l'incandidabilità sia prevista per tutti i reati "di grave allarme sociale" e contro la pubblica amministrazione. La corruzione non è citata esplicitamente, ma dovrebbe essere compresa. Rimarrebbero escluse invece le frodi fiscali e perfino la prostituzione minorile, uno dei reati per cui è sotto processo il Cavaliere.

Viene quindi da pensare che il decreto punti a una sorta di effetto placebo sull'opinione pubblica. Le liste dei candidati non saranno affatto rivoluzionate, né il provvedimento sembra avere la forza sufficiente per funzionare come deterrente nei confronti dei partiti. Se davvero si vuole fare pulizia, serve un aspirapolvere ben più potente.

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