di Fabrizio Casari

Quella della commissione di saggi sarà anche un’iniziativa informale, “a tempo limitato” e di tipo “ricognitivo”, ma è una soluzione sbagliata, perché sembra proporre una sorta di “governo ombra”, commissariando nei fatti il governo tutt’ora in carica. Ed è sbagliata anche sul piano simbolico, perché offre l’immagine di una linea di difesa disperata del sistema.

Ricacciato indietro il cambiamento emerso con prepotenza dalle urne, viene riproposto il vecchio schema del governissimo, senza avere però la forza d’imporlo formalmente. La mossa di Napolitano appare dunque come la resurrezione delle larghe intese, proponendo una miscela di personaggi che, seduti intorno a un tavolo, più che a un summit di saggezza fanno pensare a un vertice di maneggioni.

Nel merito della scelta dei nomi ci sarebbe molto da dire; eccezion fatta per Valerio Onida, costituzionalista di primissimo piano, per gli altri si tratta nella maggior parte di persone la cui “saggezza” o “terzietà” è dura da rintracciare. Spiccano in cambio due elementi: l’assenza di donne (cui evidentemente manca “saggezza”) e l’essere indicati - o comunque graditi - trasversalmente al sistema dei partiti, grillini inclusi, che iniziano così nel modo più opaco il loro processo di contaminazione nel sistema politico.

All’impossibilità di trovare un accordo tra i partiti, grazie al mantenimento di una linea di decenza da parte di Bersani, Napolitano ha reagito riproponendo lo schema con il quale ha condannato il suo ex partito alla sconfitta duratura con la nomina del governo Monti. Un protagonismo fuori luogo quello del presidente, che se voleva accorciare i tempi per la formazione del nuovo governo avrebbe potuto dimettersi anticipando così l’elezione del suo successore. Questi, in possesso dei pieni poteri, avrebbe poi affidato il mandato per la formazione del governo o sciolto il Parlamento e riconvocate le urne.

Tra i mugugni del PDL e del PD, pronti comunque a non rendere la vita facile ai presunti saggi, spicca a sorpresa il via libera dei grillini. Questi ultimi, infatti, dopo aver rifiutato qualunque soluzione con Bersani rivendicando coerenza e aver gridato ogni accusa contro il governo di “rigor montis”, si dicono oggi favorevoli alla prorogatio di Monti a Palazzo Chigi. Si assumono così una responsabilità non indifferente, cioè quella di prorogare per altri sei mesi l’agonia che la compagine tecnica infligge all’Italia.

Oltretutto non si capisce quale soluzione potrebbero proporre questi esponenti di partiti che gli stessi partiti non potrebbero decidere da soli. Perché se si tratta di decidere modifiche sostanziali al DEF esse possono essere decise dalla conferenza dei capigruppo di Camera e Senato, dato che saranno poi le due assemblee a dover votare la legge di stabilità (ex legge finanziaria) che dovrà presentare il governo in carica.

Per quanto riguarda l’agognata riforma della legge elettorale, niente impedisce che una proposta di legge in questo senso possa trovare in Boldrini e Grasso la disponibilità ad una calendarizzazione rapida e una legge che dovesse proporre sei semplici parole - “è abolita la vigente legge elettorale” - sarebbe la soluzione migliore e più rapida. Si tornerebbe automaticamente al Mattarellum, che aveva in sé le due caratteristiche fondamentali di una buona legge elettorale: garantire governabilità e rappresentatività.

E ancora: se si tratta di decidere l’allentamento del patto di stabilità dei Comuni, anche qui non servono poteri straordinari; bastano quelli di un Parlamento sovrano che vengono attuati da un governo anche solo in carica per il disbrigo degli affari correnti, dal momento che è nella legge di stabilità che va inserito il provvedimento. Lo stesso dicasi per lo sblocco dei debiti della P.A. verso le imprese, ammontanti a circa novanta miliardi di euro e il cui pagamento anche parziale produrrebbe uno stop alla morìa di PMI e più di 200.000 posti di lavoro: per sbloccare anche solo la metà del dovuto é sufficiente inserire il provvedimento nella legge di stabilità, non servono nuove elezioni o tsunami istituzionali. E non serve nemmeno l’autorizzazione di Bruxelles dalle cui labbra pendono Napolitano e Monti, giacché anche l’esborso immediato di quanto s’ipotizza terrebbe al 2,9 (quindi dentro al differenziale del 3 previsto da Maastricht) il rapporto tra Pil e debito.

Dunque non si capisce il senso di una decisione come quella di Napolitano; una scelta irrituale e poco rispettosa del Parlamento e delle forze politiche che lo compongono che doveva essere evitato, visti gli esiti per il paese di una altra delle sue pensate quale quella di non convocare le elezioni dopo le dimissioni di Berlusconi e inoculare Monti nelle vene degli italiani. Re Giorgio poteva e doveva evitarci un bizantinismo di cui non si sentiva il bisogno, poteva e doveva abdicare in modo migliore.

di Rosa Ana De Santis

Arriva con il sapore inconfondibile che hanno le buone notizie, soprattutto in questa fase di stallo politico preoccupante, la nomina a Presidente della Camera dei Deputati - con 327 voti - di Laura Boldrini. Il saluto al Presidente Napolitano è stato accolto con un forte applauso da tutti i deputati. Una vera e propria ovazione invece quella di M5S e Pd quando la Boldrini ha parlato di giovani, esodati e di diritti delle donne. "Dovremo farci carico dell'umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore".

"Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze", ha proseguito la neopresidente della Camera, per "dare piena dignità a ogni diritto", per "ingaggiare una battaglia vera contro la povertà e non contro i poveri". Perché "in quest'Aula sono stati scritti i principi fondamentali della nostra Costituzione, la più bella del mondo" e allora "quest'Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontani dall'Italia".

Parole forti che evocano sentimenti forti. E ancora, accolta da applausi scoscianti di tutta l’aula di Montecitorio, non indugia sulle iaghe meno discusse di questo paese: "Dovremo stare accanto a chi è caduto senza trovare l'aiuto o la forza per rialzarsi - ha scandito ancora - ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante, come autorevolmente denunciato dalla Corte europea per i diritti umani". Un discorso fatto di freschezza e di valori, uno di quelli che apre il cuore e che incrocia favorevolmente le istanze di partecipazione e di coinvolgimento che le ultime elezioni hanno portato all’attenzione del Palazzo.

La Camera come luogo di cittadinanza attiva, viaggio nel rinnovamento delle istituzioni, “umiltà e cura” nel servire l’incarico assegnatole sono stati i temi guida del primo discorso che arriva, peraltro, nel giorno della commemorazione di Via Fani. Ed è proprio il ricordo di Aldo Moro a mettere insieme e tutti in piedi i neo deputati. Una prova generale di unità che fa bene all’anima di un paese in carestia di idee e di futuro.

Laura Boldrini è stata eletta in Sicilia, nelle liste di SEL, e ha una storia personale carismatica, fatta di incarichi di alto profilo. L’impegno per i rifugiati, i profughi, la vicinanza ai campesinos del Venezuela iniziata giovanissima subito dopo la laurea con i diversi viaggi nell’America del Sud, l’hanno portata, dopo forti esperienze sul campo, alta formazione nel no-profit e tanti anni di lavoro nelle agenzie delle Nazioni Unite,  all’alto incarico di portavoce dell’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal 1998 al 2012, periodo in cui ha ricevuto numerosi riconoscimenti.

Un debutto il suo nella politica “tradizionale” che la vede terza donna alla guida della Camera dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti e che proprio per la sua intrinseca novità di “giovane debuttante” sembra intercettare nel modo migliore la volontà di cambiamento che segna l’attuale stagione istituzionale.

Non piace al Pdl la Boldrini, magari per le parole di condanna che espresse ai tempi dei respingimenti in mare o più semplicemente per una collocazione politica a tinte forti che la vede al fianco di Vendola. Piace molto invece al Pd e al Segretario Bersani che parallelamente al Senato riesce a vincere con Grasso, rammaricandosi della mancata intesa con le altre forze politiche, grillini compresi. Non c’è dubbio che con la nomina di Laura Boldrini, che ha sbaragliato gli altri nomi, il Pd vince la sfida del rinnovamento e inaugura un’operazione di rottura grazie all’annunciata teoria della “casa della buona politica e dei valori dell’antifascismo”.

Ribalta il tavolo senza dover ricorrere al ricatto dei Cinque Stelle che per una volta assistono all’investitura di una figura giovane, di talento, debuttante e cristallina che parla di novità e di valori senza aver avuto bollini di onestà stampati dal Guru del blog.

di Mariavittoria Orsolato

C'è in realtà molto poco da stupirsi riguardo alla vicenda di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò accusati di aver ucciso due pescatori indiani mentre facevano da scorta armata alla petroliera privata Enrica Lexie. I due fucilieri della Marina Militare non rientreranno in India dopo il permesso di un mese accordato dalla Corte Suprema indiana e lo faranno con la benedizione delle Istituzioni.

"La giurisdizione è italiana", ha affermato il ministro non eletto degli Esteri, Giulio Terzi, con un tweet in cui spiega che il Paese è disponibile "a trovare soluzioni con l'India in sede internazionale" ma che, intanto, "i nostri marò restano in Italia".

E così facendo, di concerto con i Ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha dimostrato per l'ennesima volta l'assunto secondo cui, di fronte alla divisa, la giurisprudenza venga ridotta a mero zerbino sotto cui nascondere lo sporco.

La vicenda dei due marò, che il 15 febbraio del 2012 scambiarono il peschereccio St. Antony per una barca di pirati ferendo a morte Ajesh Binki e Valentine Jelastine, aveva da subito animato il dibattito politico italiano, impegnandolo in tortuose disquisizioni sulla potestà delle acque, sui limiti delle giurisdizioni e altre amenità diplomatiche in cui, purtroppo, c'era ben poco di sensato - in merito Matteo Miavaldi ha redatto un'ottima ricostruzione su Giap e ChinaFiles.com.

E così come è iniziata - a tarallucci e vino - così probabilmente finirà la vicenda dei due fucilieri della Marina: scavalcata la legittimità del Paese in cui si è consumato il delitto, l'Italia infligge lo stesso torto che altre divise protette hanno inferto a vittime di “casa nostra”, a Nicola Calipari, ai venti morti del Cermis. Non ci infatti ancora dato sapere se i due marò continueranno a godere dello status di “eroi” o se verranno regolarmente processati nei tribunali nostrani.

La Farnesina, nella nota diffusa ieri alla stampa, ha motivato il suo no con “il principio dell’immunità dalla giurisdizione degli organi dello Stato straniero e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982? dopo aver assecondato per mesi le autorità indiane - già a Natale infatti la Suprema Corte aveva concesso una licenza di 15 giorni ai due militari, che è stata rigorosamente rispettata con il loro ritorno a Kichi il 4 gennaio.

E lo ha fatto pur sapendo che quei soldati, impiegati di fatto come mercenari per proteggere un'imbarcazione privata, non possono e non potranno mai essere riconosciuti in missione militare coperta dall’immunità. Se questa non è una presa in giro, di sicuro è una figuraccia diplomatica non da poco. Certamente per l'imperizia giuridica su cui è stata impiantata.

Certo era - e questo è il vergognoso messaggio che ha lasciato trapelare ieri Giulio Terzi - che i “nostri ragazzi” non potevano rimanere bloccati nell'hotel di lusso in cui la Corte Suprema indiana li aveva confinati. Bisognava liberare i due “eroi”: lo chiedeva sbraitando la destra e lo voleva l’esercito, che in Latorre e Girone vede solo due dei suoi uomini prigionieri per colpa di un governo che li aveva mandati in missione senza la sufficiente copertura legale, indispensabile all'impunità che contraddistingue la divisa.

Quindi, in barba agli accordi diplomatici e alle trattative portate avanti da un anno a questa parte, l'evasione avallata dal dicastero degli Esteri deve essere sembrata la via più auspicabile o, perlomeno, quella più facilmente percorribile. D'altronde, si sa, le nostre sono promesse da marinaio e la bassissima credibilità internazionale italiana ce lo ricorda ogni santo giorno di austerity che trascorriamo. A conti fatti, non c'è poi quindi questo abisso tra il maestro di sci Frattini e l'ex console Terzi di Sant'Agata.

Rimane da capire come reagirà il Governo indiano alla sonora pernacchia arrivata Roma. Esclusa la possibilità di accordi confidenziali in grado di salvare capra e cavoli - difficile che l'India accetti con nonchalance di essere ridicolizzata dal nostro stivale - dall'Onu una fonte diplomatica indiana dell'ANSA fa sapere come “i due dovranno affrontare il processo in India, secondo le leggi indiane”.

Per ora il dato certo che emerge da questa svolta, oltre al già citato assecondare le velleità della destra patriottarda, è che la politica uscente ha avuto un ruolo fondamentale nella scelta dei tempi: l’insediamento delle Camere previsto per venerdì ha certamente fatto riflettere sull’opportunità che a prendere una decisione del genere fosse il governo in carica e, così facendo, Terzi e l'ammiraglio Di Paola hanno di fatto tolto le castagne dal fuoco al governo (quale?) che verrà.

In attesa dei prossimi sviluppi, riportiamo la sentenza che lo scorso 18 gennaio il tribunale di Kollam nella regione del Kerala, incaricato inizialmente delle indagini, ha emesso nei confronti dei due fucilieri della Marina. “La Corte suprema ha detto che lo Stato del Kerala non ha giurisdizione per procedere contro i due marò italiani ed il governo centrale di New Delhi, dovrà consultarsi col presidente della Corte suprema e formare una Corte speciale. Ma soprattutto, cosa che è evidentemente sfuggita a Terzi e al suo staff, chiarisce: “La Corte ha inoltre deciso che la questione della giurisdizione dovrà essere considerata dalla Corte speciale, che deciderà se i marò verranno processati in India o in Italia”.

Una Corte Speciale che non ha nulla a che fare con quelle di fascista memoria ma che invece è pratica d'uso comune in India per dirimere casi particolarmente complessi o di interesse nazionale; negli ultimi anni si è ricorso alla formazione di diverse Corti speciali per affrontare casi di terrorismo, corruzione, crimini contro le donne. In India sono viste come garanzia di autorevolezza e terzietà in un Paese dove la fiducia nelle altre istituzioni nazionali è ai minimi storici. Le autorità indiane ci stavano tendendo la mano, ma quando si tratta di divise i panni sporchi si devono sempre lavare in casa.

di Fabrizio Casari

Tra corteggiamenti e rifiuti, sommersi da un diluvio d’imbecillità agghiacciante, osserviamo da semplici spettatori manovre sotto banco di vecchi volponi e passeggiate romane di neofiti confusi. Grillo non fa altro che ripetere la sua indisponibilità a votare un governo che non sia a guida M5S; politico o tecnico, il governo è sostenuto da una maggioranza parlamentare (quindi politica) spiega, e questo impedisce variazioni sul tema.

Grillo, vincitore autentico, sembra sorpreso e al tempo stesso spaventato dal carico di responsabilità che gli è venuto addosso; vuoi per la difficoltà del quadro complessivo nel quale muoversi, vuoi per l’assoluta inadeguatezza del suo personale politico, autentica incognita per il futuro immediato dove a valutare non ci sarà più solo il popolo della Rete, ma l’Italia intera; governare è un po’ più complicato che postare tweet.

Il leader del M5S, che non immaginava di cogliere un successo di siffatte proporzioni, sta giocando la sua partita in modo spregiudicato e intelligente, approfittando della risaputa inerzia ed incapacità politica dei suoi competitor. Sarà meglio smetterla con il richiamarlo al senso di responsabilità: se si vuole stanare la politicanteria dei grillini è molto meglio presentargli proposte nette e senza margini d’interpretazioni sulle quali chiamarli al voto.

I margini di manovra per uscire dallo stallo, al netto delle chiacchiere, non sono molti. Il PDL, giustamente preoccupato da un possibile accordo tra PD e M5S, non cessa di ripetere come sia disponibile al governissimo, risposta unica - dicono - all’emergenza nazionale. In realtà il PDL dei destini del paese se ne frega come sempre, ma una sua partecipazione alla maggioranza parlamentare vedrebbe come moneta di scambio l’archiviazione preventiva di ogni ipotesi di legge sul conflitto d’interesse e contro la corruzione, i due capisaldi su cui si regge l’impalcatura della destra italiana.

Il suo dispositivo mediatico si è scatenato per tentare di offuscare la batosta presa dal  cavaliere, ma resta un dato inequivocabile: la sconfitta poteva essere ancora più dura, ma quella che si è subita non è comunque leggera. Si tratta dunque da una posizione subalterna, anche perché nessuno sembra voglia commistioni con la destra.

Monti, dal canto suo, cerca di tenere il profilo più basso possibile per evitare che si ricordi come sia stato sonoramente sconfitto e nella speranza che dall’empasse politico-istituzionale venga fuori il suo nome come proroga dell’agonia fino alle prossime elezioni.

Si è guadagnato la poco invidiabile fama di Re Mida al rovescio, dal momento che tutti coloro che direttamente o indirettamente lo hanno sostenuto (ancor più quelli che lo hanno addirittura affiancato) sono stati le vittime illustri delle elezioni. Allearsi con Monti, anche solo pensare d’immaginare un percorso breve in sintonia con lui, può rappresentare una minaccia mortale per chi lo propone. Resterà nel sarcofago in attesa che gli altri decidano cosa fargli fare.

Dunque l’unico elemento di novità di queste ore è la riunione della direzione nazionale del PD, chiamata a decidere la linea da seguire nella trattativa con il Quirinale per la formazione del governo. Non c’è unità d’intenti, par di capire, ma questa è consuetudine per un partito che non trova l’unanimità nemmeno sulle previsioni del tempo. E’ però chiaro come, per la prima volta dalla sua nascita, il PD si trova di fronte ad un bivio decisivo, dove nasce il cammino per la sua ripresa e quello per la sua sepoltura definitiva.

Tra le strade che condurrebbero con certezza in un burrone c’è quella di una disponibilità al governissimo, pur se a tempo e scopo determinato. Intanto per una questione di etica della politica, poi perché é ovvio che nel merito le riforme istituzionali e una diversa direzione di marcia sul terreno delle riforme economiche e sociali non potrebbero, per definizione, essere condivise con il PDL né con Monti. Pensare che il tacchino si autoinviti alla cena di Natale sembra francamente troppo ingenuo.

Non a caso l’ispiratore della proposta di governicchio è Walter Veltroni, l’uomo capace in un colpo solo di far cadere il governo Prodi, dare Roma ad Alemanno e cacciare la sinistra dal Parlamento. Se non fosse notoriamente un incapace, sarebbe accusabile d’intelligenza con il nemico. Lo stesso D’Alema, che lotta disperatamente con Veltroni per accaparrarsi il titolo di distruttore ultimo della sinistra italiana, sarebbe propenso al governissimo. Tesse la tela con Letta, memore dei giorni felici delle larghe intese ma immemore di come il suo famoso “patto della crostata” finì con Berlusconi vincitore e il centrosinistra ammalato di diabete.

C’è poi un fronte meno attrezzato internamente al PD, ma molto rumoroso al di fuori, che vedrebbe volentieri Renzi sul ponte di comando al posto di un dimissionario Bersani. E’ il più nitido e pericoloso degli schieramenti: nitido perché non nasconde l’intenzione di archiviare per sempre la sinistra del centrosinistra, pericoloso perché non è in grado di capire politicamente come non certo sia il gap di comunicazione ad aver punito Bersani.

Alle urne è andato un paese ridotto allo stremo, con una disoccupazione giovanile che sfiora il 40%, una media di 500 posti di lavoro che giornalmente vengono meno ed un generale smantellamento della rete di protezione sociale che espone tutti alla mercé della sussidiarietà privata.

Il collante sociale della nazione è in pezzi, la  dimensione etica sembra fuorilegge e la prospettiva di crescita inesistente; questa è la base della rabbia e della disperazione sulla quale sono arrivati i voti a Grillo e allo stesso Berlusconi. Sono risultati il combinato del rifiuto e della paura che una vittoria del PD potesse in sostanza prorogare le politiche del professor Monti.

In questo senso le quotidiane dichiarazioni di Bersani su Monti e il suo pellegrinaggio a Berlino, nell’ansia di rassicurare i mercati esteri, hanno ulteriormente preoccupato gli elettori italiani. Il PD ha perso la possibilità di governare il giorno stesso che ha accettato di votare il governo tecnico guidato da Monti e ha definitivamente seppellito le speranze quando in campagna elettorale ha proposto solo una minima soluzione di continuità con le sue politiche.

Si deve allora essere capaci di leggere anche solo superficialmente le lezioni venute dalle urne, in primo luogo quelle che indicano come sia proprio l’agenda Monti, cioè l’insieme delle politiche di rigore monetarista con conseguente recessione economica senza nemmeno l’assestamento dei conti, che hanno piagato e piegato il Paese, ad aver subito una clamorosa sentenza di colpevolezza.

Ebbene, Renzi era ed è lo sponsor principale dell’agenda Monti e non a caso trova nei settori confindustriali i suoi tifosi più accaniti: in tutta la campagna per le primarie ha sostenuto con forza come la strada rigorista del funzionario tedesco alla guida dell’Italia fosse l’unica prospettiva possibile per l’Italia, la sola in grado di riproporre il Paese su un livello di gradimento accettabile per i mercati.

Si dice che con Renzi candidato il cavaliere non si sarebbe ripresentato. E’ una stupidaggine colossale: pensare che il cavaliere non si presenti in una competizione elettorale è frutto evidente di scarsa lucidità politica: Berlusconi non delega nemmeno ad Alfano la difesa dei suoi interessi, figuriamoci a Renzi. Peraltro, se Berlusconi trovasse Renzi rassicurante, sarebbero gli elettori del centrosinistra a trovare preoccupante il sindaco di Firenze.

Il quale è uomo di centro e sarà certamente la migliore guida di un partito democratico che si volesse collocare al centro dello schieramento politico; ma non può (e forse nemmeno intende) rappresentare quella sinistra che ha votato PD e che, soprattutto, ha scelto SEL o è trasmigrata verso Grillo (4% dei voti totali, secondo stime al ribasso).

Non sarà una giornata semplice per Bersani: se il PD vuole uscire a testa alta e forse da vincitore dall’empasse politico, non può che continuare a porre come obiettivo unico l’incarico a Bersani, che comunque dispone della maggioranza assoluta alla Camera, cosa che nessun’altro ha, ci pare.

Deve presentarsi da Napolitano prima (che tira il carro verso i suoi personali convincimenti e non da oggi) e alle Camere poi con un pacchetto di proposte nette, prive di ogni possibilità d’interpretazione, di ogni sfumatura di linguaggio politichese e ogni genericità nei contenuti, sulle quali chiedere la fiducia.

Dunque non un generico impegno a “rivisitare e rivalutare l’entità delle spese militari”, come direbbe Bersani, ma una affermazione netta comprendente oggetto, soggetto e numeri del provvedimento. Per intenderci: dire no agli F35 e affermare che i 35 miliardi di Euro risparmiati ( a rate di 4 miliardi l’anno) servono a reperire i fondi che rendono inutile l’IMU mantenendo a saldi invariati la fiscalità generale.

Idem dicasi per diversi altri terreni. Per una nuova legge elettorale non servono tante parole, giacché per abolire il Porcellum non serve un’altra legge elettorale con i suoi tempi lunghi: basta un decreto legge che in una riga reciti: “E’ abolita la vigente legge elettorale”. Di colpo, per legge, ci si ritroverebbe con il Mattarellum in vigore.

E anche sul conflitto d’interessi basta scrivere in un rigo che é “ineleggibile chiunque, direttamente o indirettamente, dispone di quote in società destinatarie di concessioni pubbliche sia a livello nazionale che locale”.

Sono molti altri gli esempi che si potrebbero fare, ma il nodo è politico: il PD non può e non deve accettare nessun’altra ipotesi che non sia quella di Bersani Premier, dichiarando a Napolitano e al Paese che l’alternativa unica è il ritorno alle urne. Perché se Bersani non dispone dei voti sufficienti, gli altri ne hanno ancora meno. Accettare con le solite storielle sulla responsabilità verso il Paese che il voto dei suoi elettori possa essere ceduto a terzi, significa mettere una pietra tombale sul suo futuro.

Che voti contro, se crede, Beppe Grillo, ad un programma che è parte del suo; che vada sul suo blog a dire a chi l’ha votato per disperazione che il suo voto non servirà a dar vita ad un governo che, per la prima volta dopo venti anni, può cancellare Berlusconi e archiviare l’annus horribilis di Monti. Che spieghi che preferisce rivotare a Giugno per avere percentuali migliori.

Ricordandogli magari cosa succederà, proprio a Giugno, quando scadrà la cassa integrazione per decine di migliaia di lavoratori, andrà a regime il decreto Fornero senza aver risolto il problema degli esodati, si dovrà pagare la rata IMU e scadranno una parte dei novanta miliardi di debito dello Stato verso le imprese.

Dall’Uomo Qualunque a Mariotto Segni, la storia politica italiana è zeppa di occasioni perse e mai più ripresentatesi. Grillo, che non è scemo, troverà certamente sul web materiale al riguardo.

di Fabrizio Casari

Nella generale confusione, alcuni dati appaiono incontrovertibili. Il PD di Bersani ha perso circa 4 milioni di voti rispetto alle ultime elezioni, ma sono due consultazioni impossibili da paragonare per il quadro nel quale si sono svolte e i partiti che vi hanno partecipato; il Movimento Cinque Stelle ha raggiunto il suo straordinario successo poggiando le radici anche su quei milioni di voti persi dal PD. Monti non raggiunge la doppia cifra causa diritto al voto anche dell’elettorato a medio e basso reddito. Berlusconi sopravvive, pur perdendo milioni di voti, grazie alla connessione sentimentale con il Paese.

Perché forse bisognerà anche cominciare ad analizzare il nostro Paese per quello che è e non per gli spot della Barilla o del Mulino Bianco: in un’Italia dove il fatturato della criminalità organizzata è pari all’80 per cento del PIL, dove l’evasione fiscale è al 120 per cento del PIL e dove solo il costo della corruzione ammonta a sessanta miliardi di Euro, perché mai ci s’immagina che l’elettorato dovrebbe auspicare ordine, disciplina fiscale, onestà e regole di comportamento?

Pensare che ci sarebbe un’Italia della “società civile” in lotta contro quella dei furbetti è stupido: l’italiano è “civile” o furbo a seconda della parte in commedia che le circostanze gli presentano come utile. Se gli conviene indignarsi s’indigna, se gli conviene tacere tace, se gli conviene la corruzione si fa comprare senza tremare. Berlusconi lo sa e offre denaro sotto forma di rimborsi, offre denaro sotto forma di allentamento della pressione fiscale e giustificazione dell’evasione, propone un modello di vita che ha nel disprezzo delle regole il suo cuore pulsante e indica negli organismi di controllo il male per i controllati, che genialmente identifica con il paese intero.

Insomma ripropone con maggiore grandezza quanto Lauro faceva a Napoli: compra i voti. Ma mentre Lauro usava le scarpe e la pasta, Berlusconi usa mezzi più sofisticati e non paga nemmeno di tasca sua. Quei voti li compra prima dagli elettori (e vanno sul nostro bilancio) e poi in Parlamento; un’unica spirale corruttiva verso la quale larga parte del popolo italiano prova tutt’altro che sdegno, anzi. Basta vedere il voto in Lombardia, spesso autodefinitasi “capitale morale”: ma dove?

Nelle ore successive alla disfatta elettorale del PD, appena mitigata dalla maggioranza assoluta alla Camera in virtù dell’infame Porcellum, sono diverse le ipotesi che si affacciano. Le peggiori sono quelle che indicano in Bersani il responsabile della sconfitta e che ritengono che se il candidato fosse stato Renzi sarebbe stata vittoria. I flussi elettorali dicono il contrario. Proprio il saccheggio di Grillo conferma quanto Bersani fosse l’espressione di un centrosinistra troppo moderato e privo di vision, intento solo a proporre aggiustamenti di rotta, non una rotta diversa. Se al posto di Bersani ci fosse stato Renzi, il PD sarebbe ancora più indietro di dove è arrivato.

A Bersani si possono però certamente assegnare colpe gravissime sulla modalità di conduzione della campagna elettorale sia nelle forme (saporifere e spesso incomprensibili) sia nei contenuti (difficile vederci elementi di decisa inversione di rotta rispetto al governo precedente). In questo senso il pellegrinaggio in Germania di Bersani è risultato emblematico per la continuità delle politiche di bilancio improntate sul rigore e timide o addirittura inutili sul versante della crescita.

La ripetuta rassicurazione sulla disponibilità a co-governare con Monti è stata la dimostrazione di come davvero il PD non riesce a leggere la società italiana e il suo malessere, di come davvero ha perduto ormai ogni cognizione identitaria con il disagio sociale e si trastulla discettando di finanza, mercati e spread senza pensare minimamente alle vittime di una crisi che si vedono ulteriormente colpiti dalle ricette vessatorie e dannose per la ripresa di cui Monti è stato il fedele applicatore. E non può quindi che destare allegria la misera fine dei sogni del proconsole della Germania, come l’ha apostrofato il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman.

La malattia del PD si chiama moderatismo; è figlia di una costruzione partitaria sbagliata e priva di contenuti che è sempre più percepita come una aggregazione di casta; di una lettura della società italiana e dei suoi flussi elettorali vecchia di anni; di una coazione a ripetere gli stessi errori di analisi del quadro sociale e culturale del paese, del suo humus profondo e della sua difficoltà ormai strutturale a interloquire con una politica priva di ogni senso identitario e comunitario; di una errata valutazione del mercato dell’offerta politica che li spinge a formulare proposte che sono lontane da quelle attese e percepite come giuste, necessarie, distintive rispetto allo schieramento opposto. La sensazione netta è che la miscela di due passati non crea un futuro.

Lo scenario che si prospetta per il PD non lascia molte strade percorribili: un accordo su un’agenda di governo con Grillo. Qualunque opzione di accordo con Berlusconi sarebbe folle, indecente, insostenibile, indigeribile. Farebbe sprofondare il partito al di sotto delle due cifre e porterebbe Grillo al 40% dei voti. Quello che va intrapreso, invece, è un ragionamento sereno sullo scenario che si ha di fronte, che tra scadenze istituzionali e Costituzionali non lascia spazio per ipotesi di ritorno alle urne entro due mesi.

Dunque il PD può, deve, presentarsi a Grillo con alcune proposte di governo che siano condivise dal M5S e praticabili nel breve e medio periodo. A cominciare dalla legge sul conflitto d’interessi e la riforma elettorale, dalla riduzione del numero dei parlamentari e dei loro emolumenti e da altri risparmi di natura “etica” prima ancora che finanziaria, come la riduzione del 50% della flotta pubblica di autoblu e dei mega-stipendi ai manager pubblici.

Sul piano delle politiche attive per il lavoro, va dato il via al salario sociale come proposto da Grillo (lo SMIC francese, né più né meno) e ad un sostegno pubblico alla green economy, così come la riaffermazione del carattere pubblico e universalistico dei beni e servizi sociali; sul fisco va data un’inversione di marcia attraverso l’introduzione di una patrimoniale e di una riduzione della pressione fiscale per i meno abbienti.

I risparmi immediati possono arrivare dallo stop all’acquisto dei caccia F35 e dal progressivo ritiro delle missioni militari all’estero. Quindi un blocco dei fondi previsti per il Ponte sullo stretto e la TAV e immediata riconversione di quei fondi in un piano operativo di riassetto idrogeologico dell’Italia, nel quale le imprese costruttrici possono partecipare riconvertendo così lavoro e capitali sottratti alle mega opere inutili e dannose come Tav e Ponte. Un’Italia dove qualunque pioggia diventa un cataclisma ha bisogno di essere messa in sicurezza con un grande progetto di opere pubbliche a difesa dei suoli, non di mega strutture inutili, dannose e pericolose.

Sono solo una parte delle iniziative che si potrebbero prendere per migliorare il quadro deprimente del Paese, ma sono voci di un’agenda che recepiscono alcuni dei punti salienti del programma dei grillini e non sono in contrapposizione con quello di PD e SEL. Grillo, che giustamente dal suo punto di vista rifiuta inciuci d’ogni tipo, non potrebbe sottrarsi dal governo (come non lo ha fatto nelle giunte locali) ove il programma fosse coerente con quanto proposto in campagna elettorale e sa benissimo che un suo rifiuto a permettere la formazione di un governo con questi obiettivi provocherebbe un fenomeno di rigetto tra la parte meno sprovveduta del suo elettorato.

L’arrivo del Movimento 5 Stelle porta comunque una ventata di novità e la sua dimensione, frettolosamente definita come “antipolitica”, è già di per sé una proposta politica. Coglierne gli aspetti praticabili (che sono molti) e ricostruire il fronte progressista sulla base di un nuova politica fatta di giustizia e prospettive di cambiamento è l’unico modo per non affondare nella palude dove, sinistramente, tra i partiti e gli elettori non è chiaro quale siano gli animali più pericolosi.


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