di Fabrizio Casari

Il PD non c’è più. Il Colle si è rivelato ostacolo non superabile. Tra decisioni incomprensibili e indigeribili, in una alternanza folle tra la ricerca del consenso del PDL e il suo opposto nel giro di ventiquattro ore, tra franchi tiratori e rifiuto francamente impossibile da comprendere della ricerca di una convergenza con il M5S, è andato in scena negli ultimi tre giorni il suicidio del PD a reti unificate. In poche ore l’assenza di una linea politica, sommata all’imperizia totale di manovra, è riuscita a bruciare prima i suoi fondatori, poi i suoi candidati, quindi il suo presidente e segretario generale. Non si ha memoria, nella storia politica del Paese, di una siffatta, rovinosa debacle. Solo la DC di Martinazzoli riuscì a sciogliersi con un fax, ma in quel caso si trattava di un partito ormai morto e quel fax era più che altro il suo certificato di avvenuto decesso.

Quello che è venuto al pettine è il nodo più importante: l’incapacità di trasformare storie diverse, ambizioni diverse, percorsi persino distanti e antagonisti in un unico progetto politico. E’ insieme il fallimento strutturale del PD ma,  contemporaneamente, l’unico elemento di chiarificazione politica nelle convulsioni di questi giorni sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Dopo essere riusciti a perdere l’opportunità di governare, subendo il diktat di Napolitano e dei mercati e aprendo la porta alla tragedia del governo Monti, il PD era riuscito a perdere anche elezioni che potevano esser vinte e, infine, da maggioranza possibile è riuscito a diventare minoranza certa e frastagliata nel voto per il prossimo presidente della Repubblica. Franchi tiratori e imperizia politica, confusione tattica e assenza di un disegno strategico, sono stati il combinato disposto di tutti i limiti strutturali di un partito senza identità e ricco di ambiziosi, aspiranti leader.

La resurrezione dei vizi peggiori è stata evidente: il correntismo all’interno e la disponibilità all’inciucio all’esterno, si sono dispiegati senza nemmeno la capacità di ascoltare quanto si urla da fuori. Non solo dalla volontà popolare che dalle urne spinge fortemente verso il cambiamento, ma persino verso la sua base militante, che pure veniva accreditata di grande peso all’indomani delle primarie che avevano scelto Bersani.

Mai, nella pur breve storia del PD, i militanti erano stati costretti ad occupare le loro sedi per obbligare il gruppo dirigente ad ascoltarli, perché mai, come ora, così profondo e violento è lo scollamento tra vertice e base. Quest’ultima, che sul territorio tentava di tenere in piedi ciò che non può starvi e che ha contato uno a uno i milioni di voti venuti meno, assistendo impotente al consenso spostatosi verso Grillo, si sono sentiti orfani del loro partito, anche solo di quello che gli sembrava esserlo e magari non sentivano più così loro fino in fondo.

Un atto d’amore, forse l’ultimo, quello dei giovani del PD. Una protesta da sinistra cui i media hanno tentato d’infilare la camicia dei renziani. Così non era. Chi si è avvicinato a parlare con chi occupava ha potuto rendersi conto di come fossero tutt’altro che vicini al sindaco di Firenze.

E’ emersa con chiarezza, in queste ore, una differenza di aspettative tra la base elettorale e la stessa militanza e la linea politica manovriera ed inciucista del suo gruppo dirigente. E’ emersa, in buona sostanza, la scollatura tra i vertici del PD e il suo elettorato, decisamente orientato più a sinistra di quanto non lo siano i suoi dirigenti e certamente più sensibile al vento del cambiamento e alla riforma della politica rispetto alla volontà di arroccamento della casta, al pervicace reiterarsi dei peggiori riti della politica politicante ai quali invece il gruppo dirigente del PD non ha saputo né voluto rinunciare.

Emblematico di tutto ciò l’inspiegabile rifiuto di votare Stefano Rodotà. Un giurista di valore assoluto, di notevole esperienza politica e istituzionale come di riconosciuta indipendenza, apprezzato dal popolo di sinistra e rispettato anche dagli avversari. Un profilo che si adatterebbe al meglio alle caratteristiche necessarie per un Presidente della Repubblica davanti ad una fase, come quella che ci attende, nella quale proprio la centralità della Carta Costituzionale dovrà rappresentare il timone fermo con il quale indirizzare la navigazione del sistema politico verso la sua riforma.

Quel che resta del PD, non può e non deve perdere l’occasione di aprire la porta al rinnovamento e alla riconnessione sentimentale con il proprio popolo, aprendo una stagione di collaborazione non tanto con il M5S in quanto aggregato politico, ma con quei 27 milioni di italiani che si sono mobilitati, vincendo, sui temi dei beni comuni e sul recupero della sovranità popolare contro il mercatismo becero truccato da liberalità.

In queste ore prende corpo l’ipotesi della Cancellieri. L’attuale Ministro dell’Interno, persona per bene e competente, rappresenta però la riproposizione delle larghe intese, in uno scenario che vede la destra, minoritaria in Parlamento, capace di determinare una scelta che risulterà la meno dolorosa possibile per i suoi interessi. La Cancellieri rappresenta un ulteriore, tragico passaggio, del sopravvento dei presunti tecnici sulla politica.

Sembra ci siano una parte dei parlamentari del PD che sarebbero disposti a votarla e, probabilmente, si tratta di coloro i quali hanno già pronti il giubbotto salvagente che li porterà dalla nave incagliata del PD verso la barca ridipinta del Grande Centro di Monti e Casini. Sarebbe un errore drammatico e ci auguriamo che una siffatta votazione resti tra le speculazioni politico-giornalistiche, volendo ipotizzare per la scelta politica di riaggregazione del Grande Centro un percorso alla luce del sole che determini, pubblicamente, la separazione definitiva da un matrimonio che non s’aveva da fare.

Ma resta comunque in piedi l’anima maggioritaria di quello che fu il PD e che è ora chiamata a dimostrare quale futuro intende prefigurare. Aprire a Rodotà significherebbe inviare un messaggio forte di autocritica e di utile, per quanto tardiva, comprensione di quanto l’Italia del lavoro e dei diritti si attende da chi dovrebbe rappresentarli. Rodotà sarebbe la scelta giusta se solo si volesse indicare per i prossimi sette anni una guida giuridica e politica fedele alla Carta Costituzionale, indisponibile a forzature e sovrapposizioni tra Costituzione e riforma strisciante della stessa. L’Italia, del resto, proprio nella prossima fase politica, contrassegnata da crisi economica, politica e sociale, più che in passato avrebbe bisogno di un Colle che fosse strumento primo e decisivo di garanzia per l’ordine costituzionale.

Nello stesso tempo il PD, votando Rodotà, ha l’ultima occasione di autoriformarsi, di mettere in pista i presupposti del suo superamento in avanti, verso un nuovo soggetto politico che ponga sulla scena l’ineludibile necessità di una forza che rappresenti il mondo del lavoro, dei diritti civili e dell’inclusione sociale. Una forza di sinistra senza se e senza ma. Ci sono due modi di uscire di scena: con una disfatta o con un passo indietro utile a farne due in avanti. Scegliere la Cancellieri sarebbe coerente con il primo, votare Rodotà sarebbe invece l’atto di nascita del secondo. Votare Rodotà oggi, è l’unico modo di prefigurare un partito domani.

di Fabrizio Casari

Governissimo, larghe intese, grosse koalition, chiamatelo pure come preferite e come fantasia suggerisce, ma a detta del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sarebbe questa la via maestra per la soluzione della crisi politica e istituzionale italiana. Nel suo ultimo intervento, l’inquilino del Colle, cercando di far leva sulla nostalgia berlingueriana residua nel partito di Via del Nazareno, propone un collegamento tra la situazione attuale e quella del 1976, quando - afferma Napolitano - c’era chi governava e chi consentiva di governare. Un paragone storico decisamente fuori luogo, quello del Presidente, che volutamente o involontariamente non coglie le differenze enormi di fase storica, protagonisti politici e situazione istituzionale.

Il compromesso storico era, in origine, una discutibile ma inedita tesi sulla necessità d’incontro tra due delle tre grandi famiglie del pensiero politico europeo: quella socialista e quella cattolica. Giusta o sbagliata che fosse, l’analisi partiva della necessità di superare lo stallo politico con il quale governo e opposizione erano cristallizzate, essendo l’Italia soggetto decisivo dello scontro internazionale tra i blocchi ed il PCI prima ed esclusiva vittima del cosiddetto “fattore K”: così definì Alberto Ronchey sulle colonne del Corriere della Sera l’ostracismo palese e occulto dei poteri forti italiani ed internazionali in chiave anticomunista.

Prendendo spunto dall’esperienza cilena di Salvador Allende e del suo governo di Unidad Popular, soffocato nel sangue dal golpe di Pinochet nel settembre del 1973, Enrico Berlinguer, memore della lezione togliattiana sulla società italiana che non poteva vedere una maggioranza elettorale assoluta per la sinistra, ansioso di porre fine alla strategia della tensione e alla stagione dei golpe striscianti, che avevano aperto in Italia la possibilità di un processo di militarizzazione del conflitto socio-politico con potenziali uscite imprevedibili e pericolose, proponeva alla Democrazia Cristiana un compromesso storico che rinsaldasse il Patto Costituzionale ereditato dalla fase costituente e, sotto la spinta delle organizzazioni popolari e dei sindacati, aggiornasse in senso progressista il nuovo patto sociale, fornendo così un livello di governabilità e stabilità politica al paese.

Non è certo in poche righe che può essere affrontato il tema, ricco di richiami ideologici e politici, oltre che storici, che un’analisi compiuta dovrebbe mettere in campo. Ma quello che si può dire è che se il tentativo appariva ingenuo allora, visto che gli USA non volevano minimamente negoziare la loro posizione di proconsoli dell’impero e mai avrebbero mollato un paese così straordinariamente importante sotto il profilo geopolitico (la morte di Moro, tra molte altre cose, ne definì l’impraticabilità) oggi appare addirittura improponibile per una serie di considerazioni.

In primo luogo non c’è il PCI, che pur dall’opposizione cambiò l’organizzazione sociale e culturale del paese, (si pensi allo Statuto dei lavoratori, alla riforma della scuola e a quella sanitaria, al voto ai diciottenni, ai diritti civili e molto altro ancora). Ora, purtroppo, c’è un PD che obbedisce a Berlino, vittima del vuoto pneumatico politico ed ideale frutto di un partito nato in laboratorio da un esperimento sbagliato, che ha messo in condominio forzato i resti di due sconfitte pensando di trasformarli in una vittoria.

In secondo luogo non c’è la DC, partito interclassista, di potere, capace tuttavia di una sua laicità sul terreno della governabilità (mai, nemmeno con la maggioranza assoluta, ad esempio, la DC pensò all’equiparazione tra scuola pubblica e privata). In terzo luogo, il compromesso storico rappresentava comunque un’idea d’incontro tra due mondi e due culture con elementi comuni (la solidarietà sociale, l’ordine costituzionale e democratico) che oggi sarebbero decisamente orfani.

E oggi? Al posto del PCI, partito serio, con una dimensione identitaria, culturale e politica di spessore assoluto con cui la società italiana e il mondo del lavoro s’identificava, c’è il PD. Del PD abbiamo detto spesso: privo di qualunque identità ideale e di progetto politico, unione contronatura di filosofie diverse e senza spessore, appare come una sorta di ottimizzatore amministrativo più che come soggetto di una trasformazione. Alle soglie di una sua crisi profonda, la cui esplosione distruggerà il progetto fallimentare sul quale si era costruito, non sembra nelle condizioni di proporre una leadership politica al paese.

E ciò che fu la DC? Il posto della Democrazia Cristiana di quegli anni verrebbe preso da un partito-azienda di proprietà di uno degli uomini peggiori della storia italiana. Il PDL, miscela di avanzi fascisti, democristiani e pseudo-socialisti, non ha né la statura ideale, né il rigore etico, né tantomeno la decenza di una linea politica popolare che potrebbe consentire a qualunque forza democratica anche solo una breve stagione di collaborazione. Il partito che ha disprezzato il Parlamento e le istituzioni riducendo il paese ad una sorta di postribolo, praticando ad ogni dove ruberie e sequestri di legalità a favore degli interessi del suo capo e della cricca che lo accompagna, non può, in nessun caso, avere udienza presso una stagione che si vuole di rinnovamento.

Quale grande disegno riformatore della società italiana si assegna al PDL? L’ansia di co-governare con il PD è dettata unicamente da un obiettivo: garantire una sostanziale amnistia per il suo boss, non più in grado di scriversi leggi ad hoc per farla franca e salvaguardare l’immenso reticolato di potere che nel corso di un ventennio ha costruito e che l’ha tenuto in piedi. Per il primo aspetto l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica è vitale: è infatti il Capo dello Stato che ha la facoltà di firmare un decreto di nomina a Senatore a vita, garantendogli così l’immunità per sempre. Ma in attesa di vedere come andrà la partita per il Quirinale - e non è detto che si possa essere ottimisti a Palazzo Grazioli - l’urgenza immediata è fermare la legge sull’ineleggibilità, che potrebbe domani impedire il salvacondotto per Berlusconi. In aggiunta, il co-governo stopperebbe la legge anticorruzione, che ove passasse trasformerebbe una buona parte del PDL in una potenziale colonia penale.

E dunque perché mai il PD dovrebbe scegliere di suicidarsi alleandosi con il PDL? Il PD non ha stravinto le elezioni proprio in ragione del suo appoggio al governo Monti, cui ha versato sangue e credibilità (ormai impossibili da recuperare se non con lo scioglimento dell’inutile, dannosa avventura e la ripartenza con ben altro profilo politico e ben diversi riferimenti culturali). Qualunque ipotesi di accordicchio con il PDL farebbe implodere quel che resta del partito.

Il tentativo di Napolitano si scontra con la realtà, con una analisi anche minima del quadro complessivo ma, come già per la nomina del governo Monti, il Presidente ritiene che il suo partito debba essere l’agnello sacrificale per le sue opinioni. Ma perché oltre ad aver arrostito a fuoco lento Bersani, Napolitano pensa di poter far evaporare del tutto il suo partito, che da un’operazione comune con Berlusconi ne ricaverebbe la sua riduzione al 10-15% dei voti e ne assegnerebbe, come d’incanto, 40% a Beppe Grillo?

Lo scenario post-elettorale dovrebbe aver lasciato chiaro a tutti, Quirinale compreso, come la rottura della connessione sentimentale tra elettori e partiti politici sia ormai difficile da ricucire. Riproporre un governissimo solo per far contenti i poteri forti in attesa di sguinzagliare nomine e fondi, significa non aver compreso nulla della crisi italiana. Significa voler procedere imperterriti e a velocità folle sul viale del tramonto, al cui termine c’è solo una scogliera. Con il Movimento 5 stelle unico ad essere dotato di deltaplano.

di Fabrizio Casari

Quella della commissione di saggi sarà anche un’iniziativa informale, “a tempo limitato” e di tipo “ricognitivo”, ma è una soluzione sbagliata, perché sembra proporre una sorta di “governo ombra”, commissariando nei fatti il governo tutt’ora in carica. Ed è sbagliata anche sul piano simbolico, perché offre l’immagine di una linea di difesa disperata del sistema.

Ricacciato indietro il cambiamento emerso con prepotenza dalle urne, viene riproposto il vecchio schema del governissimo, senza avere però la forza d’imporlo formalmente. La mossa di Napolitano appare dunque come la resurrezione delle larghe intese, proponendo una miscela di personaggi che, seduti intorno a un tavolo, più che a un summit di saggezza fanno pensare a un vertice di maneggioni.

Nel merito della scelta dei nomi ci sarebbe molto da dire; eccezion fatta per Valerio Onida, costituzionalista di primissimo piano, per gli altri si tratta nella maggior parte di persone la cui “saggezza” o “terzietà” è dura da rintracciare. Spiccano in cambio due elementi: l’assenza di donne (cui evidentemente manca “saggezza”) e l’essere indicati - o comunque graditi - trasversalmente al sistema dei partiti, grillini inclusi, che iniziano così nel modo più opaco il loro processo di contaminazione nel sistema politico.

All’impossibilità di trovare un accordo tra i partiti, grazie al mantenimento di una linea di decenza da parte di Bersani, Napolitano ha reagito riproponendo lo schema con il quale ha condannato il suo ex partito alla sconfitta duratura con la nomina del governo Monti. Un protagonismo fuori luogo quello del presidente, che se voleva accorciare i tempi per la formazione del nuovo governo avrebbe potuto dimettersi anticipando così l’elezione del suo successore. Questi, in possesso dei pieni poteri, avrebbe poi affidato il mandato per la formazione del governo o sciolto il Parlamento e riconvocate le urne.

Tra i mugugni del PDL e del PD, pronti comunque a non rendere la vita facile ai presunti saggi, spicca a sorpresa il via libera dei grillini. Questi ultimi, infatti, dopo aver rifiutato qualunque soluzione con Bersani rivendicando coerenza e aver gridato ogni accusa contro il governo di “rigor montis”, si dicono oggi favorevoli alla prorogatio di Monti a Palazzo Chigi. Si assumono così una responsabilità non indifferente, cioè quella di prorogare per altri sei mesi l’agonia che la compagine tecnica infligge all’Italia.

Oltretutto non si capisce quale soluzione potrebbero proporre questi esponenti di partiti che gli stessi partiti non potrebbero decidere da soli. Perché se si tratta di decidere modifiche sostanziali al DEF esse possono essere decise dalla conferenza dei capigruppo di Camera e Senato, dato che saranno poi le due assemblee a dover votare la legge di stabilità (ex legge finanziaria) che dovrà presentare il governo in carica.

Per quanto riguarda l’agognata riforma della legge elettorale, niente impedisce che una proposta di legge in questo senso possa trovare in Boldrini e Grasso la disponibilità ad una calendarizzazione rapida e una legge che dovesse proporre sei semplici parole - “è abolita la vigente legge elettorale” - sarebbe la soluzione migliore e più rapida. Si tornerebbe automaticamente al Mattarellum, che aveva in sé le due caratteristiche fondamentali di una buona legge elettorale: garantire governabilità e rappresentatività.

E ancora: se si tratta di decidere l’allentamento del patto di stabilità dei Comuni, anche qui non servono poteri straordinari; bastano quelli di un Parlamento sovrano che vengono attuati da un governo anche solo in carica per il disbrigo degli affari correnti, dal momento che è nella legge di stabilità che va inserito il provvedimento. Lo stesso dicasi per lo sblocco dei debiti della P.A. verso le imprese, ammontanti a circa novanta miliardi di euro e il cui pagamento anche parziale produrrebbe uno stop alla morìa di PMI e più di 200.000 posti di lavoro: per sbloccare anche solo la metà del dovuto é sufficiente inserire il provvedimento nella legge di stabilità, non servono nuove elezioni o tsunami istituzionali. E non serve nemmeno l’autorizzazione di Bruxelles dalle cui labbra pendono Napolitano e Monti, giacché anche l’esborso immediato di quanto s’ipotizza terrebbe al 2,9 (quindi dentro al differenziale del 3 previsto da Maastricht) il rapporto tra Pil e debito.

Dunque non si capisce il senso di una decisione come quella di Napolitano; una scelta irrituale e poco rispettosa del Parlamento e delle forze politiche che lo compongono che doveva essere evitato, visti gli esiti per il paese di una altra delle sue pensate quale quella di non convocare le elezioni dopo le dimissioni di Berlusconi e inoculare Monti nelle vene degli italiani. Re Giorgio poteva e doveva evitarci un bizantinismo di cui non si sentiva il bisogno, poteva e doveva abdicare in modo migliore.

di Rosa Ana De Santis

Arriva con il sapore inconfondibile che hanno le buone notizie, soprattutto in questa fase di stallo politico preoccupante, la nomina a Presidente della Camera dei Deputati - con 327 voti - di Laura Boldrini. Il saluto al Presidente Napolitano è stato accolto con un forte applauso da tutti i deputati. Una vera e propria ovazione invece quella di M5S e Pd quando la Boldrini ha parlato di giovani, esodati e di diritti delle donne. "Dovremo farci carico dell'umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore".

"Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze", ha proseguito la neopresidente della Camera, per "dare piena dignità a ogni diritto", per "ingaggiare una battaglia vera contro la povertà e non contro i poveri". Perché "in quest'Aula sono stati scritti i principi fondamentali della nostra Costituzione, la più bella del mondo" e allora "quest'Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontani dall'Italia".

Parole forti che evocano sentimenti forti. E ancora, accolta da applausi scoscianti di tutta l’aula di Montecitorio, non indugia sulle iaghe meno discusse di questo paese: "Dovremo stare accanto a chi è caduto senza trovare l'aiuto o la forza per rialzarsi - ha scandito ancora - ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante, come autorevolmente denunciato dalla Corte europea per i diritti umani". Un discorso fatto di freschezza e di valori, uno di quelli che apre il cuore e che incrocia favorevolmente le istanze di partecipazione e di coinvolgimento che le ultime elezioni hanno portato all’attenzione del Palazzo.

La Camera come luogo di cittadinanza attiva, viaggio nel rinnovamento delle istituzioni, “umiltà e cura” nel servire l’incarico assegnatole sono stati i temi guida del primo discorso che arriva, peraltro, nel giorno della commemorazione di Via Fani. Ed è proprio il ricordo di Aldo Moro a mettere insieme e tutti in piedi i neo deputati. Una prova generale di unità che fa bene all’anima di un paese in carestia di idee e di futuro.

Laura Boldrini è stata eletta in Sicilia, nelle liste di SEL, e ha una storia personale carismatica, fatta di incarichi di alto profilo. L’impegno per i rifugiati, i profughi, la vicinanza ai campesinos del Venezuela iniziata giovanissima subito dopo la laurea con i diversi viaggi nell’America del Sud, l’hanno portata, dopo forti esperienze sul campo, alta formazione nel no-profit e tanti anni di lavoro nelle agenzie delle Nazioni Unite,  all’alto incarico di portavoce dell’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal 1998 al 2012, periodo in cui ha ricevuto numerosi riconoscimenti.

Un debutto il suo nella politica “tradizionale” che la vede terza donna alla guida della Camera dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti e che proprio per la sua intrinseca novità di “giovane debuttante” sembra intercettare nel modo migliore la volontà di cambiamento che segna l’attuale stagione istituzionale.

Non piace al Pdl la Boldrini, magari per le parole di condanna che espresse ai tempi dei respingimenti in mare o più semplicemente per una collocazione politica a tinte forti che la vede al fianco di Vendola. Piace molto invece al Pd e al Segretario Bersani che parallelamente al Senato riesce a vincere con Grasso, rammaricandosi della mancata intesa con le altre forze politiche, grillini compresi. Non c’è dubbio che con la nomina di Laura Boldrini, che ha sbaragliato gli altri nomi, il Pd vince la sfida del rinnovamento e inaugura un’operazione di rottura grazie all’annunciata teoria della “casa della buona politica e dei valori dell’antifascismo”.

Ribalta il tavolo senza dover ricorrere al ricatto dei Cinque Stelle che per una volta assistono all’investitura di una figura giovane, di talento, debuttante e cristallina che parla di novità e di valori senza aver avuto bollini di onestà stampati dal Guru del blog.

di Mariavittoria Orsolato

C'è in realtà molto poco da stupirsi riguardo alla vicenda di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò accusati di aver ucciso due pescatori indiani mentre facevano da scorta armata alla petroliera privata Enrica Lexie. I due fucilieri della Marina Militare non rientreranno in India dopo il permesso di un mese accordato dalla Corte Suprema indiana e lo faranno con la benedizione delle Istituzioni.

"La giurisdizione è italiana", ha affermato il ministro non eletto degli Esteri, Giulio Terzi, con un tweet in cui spiega che il Paese è disponibile "a trovare soluzioni con l'India in sede internazionale" ma che, intanto, "i nostri marò restano in Italia".

E così facendo, di concerto con i Ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha dimostrato per l'ennesima volta l'assunto secondo cui, di fronte alla divisa, la giurisprudenza venga ridotta a mero zerbino sotto cui nascondere lo sporco.

La vicenda dei due marò, che il 15 febbraio del 2012 scambiarono il peschereccio St. Antony per una barca di pirati ferendo a morte Ajesh Binki e Valentine Jelastine, aveva da subito animato il dibattito politico italiano, impegnandolo in tortuose disquisizioni sulla potestà delle acque, sui limiti delle giurisdizioni e altre amenità diplomatiche in cui, purtroppo, c'era ben poco di sensato - in merito Matteo Miavaldi ha redatto un'ottima ricostruzione su Giap e ChinaFiles.com.

E così come è iniziata - a tarallucci e vino - così probabilmente finirà la vicenda dei due fucilieri della Marina: scavalcata la legittimità del Paese in cui si è consumato il delitto, l'Italia infligge lo stesso torto che altre divise protette hanno inferto a vittime di “casa nostra”, a Nicola Calipari, ai venti morti del Cermis. Non ci infatti ancora dato sapere se i due marò continueranno a godere dello status di “eroi” o se verranno regolarmente processati nei tribunali nostrani.

La Farnesina, nella nota diffusa ieri alla stampa, ha motivato il suo no con “il principio dell’immunità dalla giurisdizione degli organi dello Stato straniero e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982? dopo aver assecondato per mesi le autorità indiane - già a Natale infatti la Suprema Corte aveva concesso una licenza di 15 giorni ai due militari, che è stata rigorosamente rispettata con il loro ritorno a Kichi il 4 gennaio.

E lo ha fatto pur sapendo che quei soldati, impiegati di fatto come mercenari per proteggere un'imbarcazione privata, non possono e non potranno mai essere riconosciuti in missione militare coperta dall’immunità. Se questa non è una presa in giro, di sicuro è una figuraccia diplomatica non da poco. Certamente per l'imperizia giuridica su cui è stata impiantata.

Certo era - e questo è il vergognoso messaggio che ha lasciato trapelare ieri Giulio Terzi - che i “nostri ragazzi” non potevano rimanere bloccati nell'hotel di lusso in cui la Corte Suprema indiana li aveva confinati. Bisognava liberare i due “eroi”: lo chiedeva sbraitando la destra e lo voleva l’esercito, che in Latorre e Girone vede solo due dei suoi uomini prigionieri per colpa di un governo che li aveva mandati in missione senza la sufficiente copertura legale, indispensabile all'impunità che contraddistingue la divisa.

Quindi, in barba agli accordi diplomatici e alle trattative portate avanti da un anno a questa parte, l'evasione avallata dal dicastero degli Esteri deve essere sembrata la via più auspicabile o, perlomeno, quella più facilmente percorribile. D'altronde, si sa, le nostre sono promesse da marinaio e la bassissima credibilità internazionale italiana ce lo ricorda ogni santo giorno di austerity che trascorriamo. A conti fatti, non c'è poi quindi questo abisso tra il maestro di sci Frattini e l'ex console Terzi di Sant'Agata.

Rimane da capire come reagirà il Governo indiano alla sonora pernacchia arrivata Roma. Esclusa la possibilità di accordi confidenziali in grado di salvare capra e cavoli - difficile che l'India accetti con nonchalance di essere ridicolizzata dal nostro stivale - dall'Onu una fonte diplomatica indiana dell'ANSA fa sapere come “i due dovranno affrontare il processo in India, secondo le leggi indiane”.

Per ora il dato certo che emerge da questa svolta, oltre al già citato assecondare le velleità della destra patriottarda, è che la politica uscente ha avuto un ruolo fondamentale nella scelta dei tempi: l’insediamento delle Camere previsto per venerdì ha certamente fatto riflettere sull’opportunità che a prendere una decisione del genere fosse il governo in carica e, così facendo, Terzi e l'ammiraglio Di Paola hanno di fatto tolto le castagne dal fuoco al governo (quale?) che verrà.

In attesa dei prossimi sviluppi, riportiamo la sentenza che lo scorso 18 gennaio il tribunale di Kollam nella regione del Kerala, incaricato inizialmente delle indagini, ha emesso nei confronti dei due fucilieri della Marina. “La Corte suprema ha detto che lo Stato del Kerala non ha giurisdizione per procedere contro i due marò italiani ed il governo centrale di New Delhi, dovrà consultarsi col presidente della Corte suprema e formare una Corte speciale. Ma soprattutto, cosa che è evidentemente sfuggita a Terzi e al suo staff, chiarisce: “La Corte ha inoltre deciso che la questione della giurisdizione dovrà essere considerata dalla Corte speciale, che deciderà se i marò verranno processati in India o in Italia”.

Una Corte Speciale che non ha nulla a che fare con quelle di fascista memoria ma che invece è pratica d'uso comune in India per dirimere casi particolarmente complessi o di interesse nazionale; negli ultimi anni si è ricorso alla formazione di diverse Corti speciali per affrontare casi di terrorismo, corruzione, crimini contro le donne. In India sono viste come garanzia di autorevolezza e terzietà in un Paese dove la fiducia nelle altre istituzioni nazionali è ai minimi storici. Le autorità indiane ci stavano tendendo la mano, ma quando si tratta di divise i panni sporchi si devono sempre lavare in casa.


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