di Fabrizio Casari

Il PD non c’è più. Il Colle si è rivelato ostacolo non superabile. Tra decisioni incomprensibili e indigeribili, in una alternanza folle tra la ricerca del consenso del PDL e il suo opposto nel giro di ventiquattro ore, tra franchi tiratori e rifiuto francamente impossibile da comprendere della ricerca di una convergenza con il M5S, è andato in scena negli ultimi tre giorni il suicidio del PD a reti unificate. In poche ore l’assenza di una linea politica, sommata all’imperizia totale di manovra, è riuscita a bruciare prima i suoi fondatori, poi i suoi candidati, quindi il suo presidente e segretario generale. Non si ha memoria, nella storia politica del Paese, di una siffatta, rovinosa debacle. Solo la DC di Martinazzoli riuscì a sciogliersi con un fax, ma in quel caso si trattava di un partito ormai morto e quel fax era più che altro il suo certificato di avvenuto decesso.

Quello che è venuto al pettine è il nodo più importante: l’incapacità di trasformare storie diverse, ambizioni diverse, percorsi persino distanti e antagonisti in un unico progetto politico. E’ insieme il fallimento strutturale del PD ma,  contemporaneamente, l’unico elemento di chiarificazione politica nelle convulsioni di questi giorni sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Dopo essere riusciti a perdere l’opportunità di governare, subendo il diktat di Napolitano e dei mercati e aprendo la porta alla tragedia del governo Monti, il PD era riuscito a perdere anche elezioni che potevano esser vinte e, infine, da maggioranza possibile è riuscito a diventare minoranza certa e frastagliata nel voto per il prossimo presidente della Repubblica. Franchi tiratori e imperizia politica, confusione tattica e assenza di un disegno strategico, sono stati il combinato disposto di tutti i limiti strutturali di un partito senza identità e ricco di ambiziosi, aspiranti leader.

La resurrezione dei vizi peggiori è stata evidente: il correntismo all’interno e la disponibilità all’inciucio all’esterno, si sono dispiegati senza nemmeno la capacità di ascoltare quanto si urla da fuori. Non solo dalla volontà popolare che dalle urne spinge fortemente verso il cambiamento, ma persino verso la sua base militante, che pure veniva accreditata di grande peso all’indomani delle primarie che avevano scelto Bersani.

Mai, nella pur breve storia del PD, i militanti erano stati costretti ad occupare le loro sedi per obbligare il gruppo dirigente ad ascoltarli, perché mai, come ora, così profondo e violento è lo scollamento tra vertice e base. Quest’ultima, che sul territorio tentava di tenere in piedi ciò che non può starvi e che ha contato uno a uno i milioni di voti venuti meno, assistendo impotente al consenso spostatosi verso Grillo, si sono sentiti orfani del loro partito, anche solo di quello che gli sembrava esserlo e magari non sentivano più così loro fino in fondo.

Un atto d’amore, forse l’ultimo, quello dei giovani del PD. Una protesta da sinistra cui i media hanno tentato d’infilare la camicia dei renziani. Così non era. Chi si è avvicinato a parlare con chi occupava ha potuto rendersi conto di come fossero tutt’altro che vicini al sindaco di Firenze.

E’ emersa con chiarezza, in queste ore, una differenza di aspettative tra la base elettorale e la stessa militanza e la linea politica manovriera ed inciucista del suo gruppo dirigente. E’ emersa, in buona sostanza, la scollatura tra i vertici del PD e il suo elettorato, decisamente orientato più a sinistra di quanto non lo siano i suoi dirigenti e certamente più sensibile al vento del cambiamento e alla riforma della politica rispetto alla volontà di arroccamento della casta, al pervicace reiterarsi dei peggiori riti della politica politicante ai quali invece il gruppo dirigente del PD non ha saputo né voluto rinunciare.

Emblematico di tutto ciò l’inspiegabile rifiuto di votare Stefano Rodotà. Un giurista di valore assoluto, di notevole esperienza politica e istituzionale come di riconosciuta indipendenza, apprezzato dal popolo di sinistra e rispettato anche dagli avversari. Un profilo che si adatterebbe al meglio alle caratteristiche necessarie per un Presidente della Repubblica davanti ad una fase, come quella che ci attende, nella quale proprio la centralità della Carta Costituzionale dovrà rappresentare il timone fermo con il quale indirizzare la navigazione del sistema politico verso la sua riforma.

Quel che resta del PD, non può e non deve perdere l’occasione di aprire la porta al rinnovamento e alla riconnessione sentimentale con il proprio popolo, aprendo una stagione di collaborazione non tanto con il M5S in quanto aggregato politico, ma con quei 27 milioni di italiani che si sono mobilitati, vincendo, sui temi dei beni comuni e sul recupero della sovranità popolare contro il mercatismo becero truccato da liberalità.

In queste ore prende corpo l’ipotesi della Cancellieri. L’attuale Ministro dell’Interno, persona per bene e competente, rappresenta però la riproposizione delle larghe intese, in uno scenario che vede la destra, minoritaria in Parlamento, capace di determinare una scelta che risulterà la meno dolorosa possibile per i suoi interessi. La Cancellieri rappresenta un ulteriore, tragico passaggio, del sopravvento dei presunti tecnici sulla politica.

Sembra ci siano una parte dei parlamentari del PD che sarebbero disposti a votarla e, probabilmente, si tratta di coloro i quali hanno già pronti il giubbotto salvagente che li porterà dalla nave incagliata del PD verso la barca ridipinta del Grande Centro di Monti e Casini. Sarebbe un errore drammatico e ci auguriamo che una siffatta votazione resti tra le speculazioni politico-giornalistiche, volendo ipotizzare per la scelta politica di riaggregazione del Grande Centro un percorso alla luce del sole che determini, pubblicamente, la separazione definitiva da un matrimonio che non s’aveva da fare.

Ma resta comunque in piedi l’anima maggioritaria di quello che fu il PD e che è ora chiamata a dimostrare quale futuro intende prefigurare. Aprire a Rodotà significherebbe inviare un messaggio forte di autocritica e di utile, per quanto tardiva, comprensione di quanto l’Italia del lavoro e dei diritti si attende da chi dovrebbe rappresentarli. Rodotà sarebbe la scelta giusta se solo si volesse indicare per i prossimi sette anni una guida giuridica e politica fedele alla Carta Costituzionale, indisponibile a forzature e sovrapposizioni tra Costituzione e riforma strisciante della stessa. L’Italia, del resto, proprio nella prossima fase politica, contrassegnata da crisi economica, politica e sociale, più che in passato avrebbe bisogno di un Colle che fosse strumento primo e decisivo di garanzia per l’ordine costituzionale.

Nello stesso tempo il PD, votando Rodotà, ha l’ultima occasione di autoriformarsi, di mettere in pista i presupposti del suo superamento in avanti, verso un nuovo soggetto politico che ponga sulla scena l’ineludibile necessità di una forza che rappresenti il mondo del lavoro, dei diritti civili e dell’inclusione sociale. Una forza di sinistra senza se e senza ma. Ci sono due modi di uscire di scena: con una disfatta o con un passo indietro utile a farne due in avanti. Scegliere la Cancellieri sarebbe coerente con il primo, votare Rodotà sarebbe invece l’atto di nascita del secondo. Votare Rodotà oggi, è l’unico modo di prefigurare un partito domani.

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