di Fabrizio Casari

Governissimo, larghe intese, grosse koalition, chiamatelo pure come preferite e come fantasia suggerisce, ma a detta del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sarebbe questa la via maestra per la soluzione della crisi politica e istituzionale italiana. Nel suo ultimo intervento, l’inquilino del Colle, cercando di far leva sulla nostalgia berlingueriana residua nel partito di Via del Nazareno, propone un collegamento tra la situazione attuale e quella del 1976, quando - afferma Napolitano - c’era chi governava e chi consentiva di governare. Un paragone storico decisamente fuori luogo, quello del Presidente, che volutamente o involontariamente non coglie le differenze enormi di fase storica, protagonisti politici e situazione istituzionale.

Il compromesso storico era, in origine, una discutibile ma inedita tesi sulla necessità d’incontro tra due delle tre grandi famiglie del pensiero politico europeo: quella socialista e quella cattolica. Giusta o sbagliata che fosse, l’analisi partiva della necessità di superare lo stallo politico con il quale governo e opposizione erano cristallizzate, essendo l’Italia soggetto decisivo dello scontro internazionale tra i blocchi ed il PCI prima ed esclusiva vittima del cosiddetto “fattore K”: così definì Alberto Ronchey sulle colonne del Corriere della Sera l’ostracismo palese e occulto dei poteri forti italiani ed internazionali in chiave anticomunista.

Prendendo spunto dall’esperienza cilena di Salvador Allende e del suo governo di Unidad Popular, soffocato nel sangue dal golpe di Pinochet nel settembre del 1973, Enrico Berlinguer, memore della lezione togliattiana sulla società italiana che non poteva vedere una maggioranza elettorale assoluta per la sinistra, ansioso di porre fine alla strategia della tensione e alla stagione dei golpe striscianti, che avevano aperto in Italia la possibilità di un processo di militarizzazione del conflitto socio-politico con potenziali uscite imprevedibili e pericolose, proponeva alla Democrazia Cristiana un compromesso storico che rinsaldasse il Patto Costituzionale ereditato dalla fase costituente e, sotto la spinta delle organizzazioni popolari e dei sindacati, aggiornasse in senso progressista il nuovo patto sociale, fornendo così un livello di governabilità e stabilità politica al paese.

Non è certo in poche righe che può essere affrontato il tema, ricco di richiami ideologici e politici, oltre che storici, che un’analisi compiuta dovrebbe mettere in campo. Ma quello che si può dire è che se il tentativo appariva ingenuo allora, visto che gli USA non volevano minimamente negoziare la loro posizione di proconsoli dell’impero e mai avrebbero mollato un paese così straordinariamente importante sotto il profilo geopolitico (la morte di Moro, tra molte altre cose, ne definì l’impraticabilità) oggi appare addirittura improponibile per una serie di considerazioni.

In primo luogo non c’è il PCI, che pur dall’opposizione cambiò l’organizzazione sociale e culturale del paese, (si pensi allo Statuto dei lavoratori, alla riforma della scuola e a quella sanitaria, al voto ai diciottenni, ai diritti civili e molto altro ancora). Ora, purtroppo, c’è un PD che obbedisce a Berlino, vittima del vuoto pneumatico politico ed ideale frutto di un partito nato in laboratorio da un esperimento sbagliato, che ha messo in condominio forzato i resti di due sconfitte pensando di trasformarli in una vittoria.

In secondo luogo non c’è la DC, partito interclassista, di potere, capace tuttavia di una sua laicità sul terreno della governabilità (mai, nemmeno con la maggioranza assoluta, ad esempio, la DC pensò all’equiparazione tra scuola pubblica e privata). In terzo luogo, il compromesso storico rappresentava comunque un’idea d’incontro tra due mondi e due culture con elementi comuni (la solidarietà sociale, l’ordine costituzionale e democratico) che oggi sarebbero decisamente orfani.

E oggi? Al posto del PCI, partito serio, con una dimensione identitaria, culturale e politica di spessore assoluto con cui la società italiana e il mondo del lavoro s’identificava, c’è il PD. Del PD abbiamo detto spesso: privo di qualunque identità ideale e di progetto politico, unione contronatura di filosofie diverse e senza spessore, appare come una sorta di ottimizzatore amministrativo più che come soggetto di una trasformazione. Alle soglie di una sua crisi profonda, la cui esplosione distruggerà il progetto fallimentare sul quale si era costruito, non sembra nelle condizioni di proporre una leadership politica al paese.

E ciò che fu la DC? Il posto della Democrazia Cristiana di quegli anni verrebbe preso da un partito-azienda di proprietà di uno degli uomini peggiori della storia italiana. Il PDL, miscela di avanzi fascisti, democristiani e pseudo-socialisti, non ha né la statura ideale, né il rigore etico, né tantomeno la decenza di una linea politica popolare che potrebbe consentire a qualunque forza democratica anche solo una breve stagione di collaborazione. Il partito che ha disprezzato il Parlamento e le istituzioni riducendo il paese ad una sorta di postribolo, praticando ad ogni dove ruberie e sequestri di legalità a favore degli interessi del suo capo e della cricca che lo accompagna, non può, in nessun caso, avere udienza presso una stagione che si vuole di rinnovamento.

Quale grande disegno riformatore della società italiana si assegna al PDL? L’ansia di co-governare con il PD è dettata unicamente da un obiettivo: garantire una sostanziale amnistia per il suo boss, non più in grado di scriversi leggi ad hoc per farla franca e salvaguardare l’immenso reticolato di potere che nel corso di un ventennio ha costruito e che l’ha tenuto in piedi. Per il primo aspetto l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica è vitale: è infatti il Capo dello Stato che ha la facoltà di firmare un decreto di nomina a Senatore a vita, garantendogli così l’immunità per sempre. Ma in attesa di vedere come andrà la partita per il Quirinale - e non è detto che si possa essere ottimisti a Palazzo Grazioli - l’urgenza immediata è fermare la legge sull’ineleggibilità, che potrebbe domani impedire il salvacondotto per Berlusconi. In aggiunta, il co-governo stopperebbe la legge anticorruzione, che ove passasse trasformerebbe una buona parte del PDL in una potenziale colonia penale.

E dunque perché mai il PD dovrebbe scegliere di suicidarsi alleandosi con il PDL? Il PD non ha stravinto le elezioni proprio in ragione del suo appoggio al governo Monti, cui ha versato sangue e credibilità (ormai impossibili da recuperare se non con lo scioglimento dell’inutile, dannosa avventura e la ripartenza con ben altro profilo politico e ben diversi riferimenti culturali). Qualunque ipotesi di accordicchio con il PDL farebbe implodere quel che resta del partito.

Il tentativo di Napolitano si scontra con la realtà, con una analisi anche minima del quadro complessivo ma, come già per la nomina del governo Monti, il Presidente ritiene che il suo partito debba essere l’agnello sacrificale per le sue opinioni. Ma perché oltre ad aver arrostito a fuoco lento Bersani, Napolitano pensa di poter far evaporare del tutto il suo partito, che da un’operazione comune con Berlusconi ne ricaverebbe la sua riduzione al 10-15% dei voti e ne assegnerebbe, come d’incanto, 40% a Beppe Grillo?

Lo scenario post-elettorale dovrebbe aver lasciato chiaro a tutti, Quirinale compreso, come la rottura della connessione sentimentale tra elettori e partiti politici sia ormai difficile da ricucire. Riproporre un governissimo solo per far contenti i poteri forti in attesa di sguinzagliare nomine e fondi, significa non aver compreso nulla della crisi italiana. Significa voler procedere imperterriti e a velocità folle sul viale del tramonto, al cui termine c’è solo una scogliera. Con il Movimento 5 stelle unico ad essere dotato di deltaplano.

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