di Carlo Musilli

Da venerdì scorso la legge per tagliare il finanziamento pubblico ai partiti esiste, ora si tratta di approvarla in Parlamento. Il percorso probabilmente non sarà dei più semplici e qualche modifica al testo varato dal Consiglio dei ministri è addirittura probabile. Al momento, comunque, si punta ad abolire i finanziamenti gradualmente fra l'anno prossimo e il 2017, sostituendoli a poco a poco con i contributi dei privati, che godranno di sgravi fiscali variabili a seconda della donazione (del 52% fra i 50 e i 5 mila euro e del 26% fino a un massimo di 20 mila euro), ma a partire dal 2016.

Dalla stessa data, inoltre, sarà possibile destinare il due per mille nella dichiarazione dei redditi ai partiti (per chi non vuole, allo Stato), che potranno anche usufruire di spazi e servizi gratuiti o scontati.

Ma prima ancora di entrare nel merito delle misure proposte e delle possibili correzioni, sorgono un paio di dubbi. Primo: era davvero questo uno dei primi interventi da mettere in cantiere con il "governo di servizio" guidato da Enrico Letta? Secondo: non c'è il rischio che la riforma consenta ai partiti maggiori di incassare lo stesso, danneggiando invece le formazioni minori o alternative?

In molti fanno notare che l'anomalia italiana non riguarda i finanziamenti in sé. Anzi, a livello puramente teorico, che lo Stato garantisca sostegno finanziario a chi si impegna in attività politiche è perfino un principio democratico, altrimenti questo diritto sarebbe esercitabile soltanto da chi può permetterselo. Uomini come Silvio Berlusconi, che vent'anni fa fondò in pochi mesi un partito personale, o semplicemente le forze politiche più ramificate e influenti, quelle in grado di ottenere un cospicuo appoggio non solo dai portafogli dei militanti, ma anche dalla pletora di lobby interessate a distribuire favori per poi riceverne. E' evidente che se un gruppo di cittadini qualsiasi decidesse di formare un nuovo partito contando solo sulle donazioni private avrebbe ben poche possibilità di successo.

Certo, la situazione attuale non è sostenibile. Ma il vero problema è altrove: ossia nella quantità dei fondi che sono stati distribuiti finora e soprattutto nelle modalità di assegnazione. Il punto è che nessun Lusi deve più comprarsi casa con i soldi pubblici, nessun Belsito deve più sgraffignare diamanti con i fondi che avrebbe dovuto dare alle sezioni.

Fin qui sono mancati i controlli e le rendicontazioni, anche perché la prassi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è sempre stata viziata a monte: le risorse destinate ai partiti avrebbero dovuto essere dei rimborsi sulla base di spese certificate, invece erano di fatto dei finanziamenti (una pratica contro cui, peraltro, gli italiani avevano espresso il proprio dissenso via referendum ormai un paio di decenni fa). Ora la certificazione dei bilanci diventa obbligatoria, ed è questo il passo avanti più importante.

Il secondo tema riguarda l'uguaglianza di trattamento garantita alle forze in campo. Il ddl approvato dal Consiglio dei Ministri prevede che per accedere a tutti i benefici previsti i partiti debbano avere uno statuto che preveda "requisiti minimi idonei a garantire la democrazia interna". Al di là della vaghezza di una simile formulazione (chi giudicherà questi "requisiti minimi"?) è inevitabile leggere nella postilla una chiara (e goffa) volontà di marginalizzare il Movimento 5 Stelle, che infatti ha già gridato allo scandalo.

Senza statuto non si potrà usufruire nemmeno della manna dal cielo prevista nel comma 2 dell'articolo 4 a proposito di quel famoso due per mille: "In caso di scelte non espresse - si legge nel testo - la quota di risorse disponibili, nei limiti di cui al comma 4, è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse". Il limite è di 61 milioni di euro e dovrebbe essere facilmente raggiungibile anche se la maggior parte dei contribuenti decidesse di devolvere i soldi allo Stato. Sembrerebbe poca cosa, se paragonata ai 160 milioni che i partiti si sono spartiti dopo le ultime elezioni. Peccato che, a quanto pare, i "limiti di cui al comma 4" facciano riferimento a una quota da incassare ogni anno.

di Fabrizio Casari

Leggendo i risultati della tornata di elezioni amministrative ci sono quattro elementi che risultano evidenti oltre ogni ragionevole dubbio: il voto è ormai rito di minoranza, nella migliore delle ipotesi di maggioranza risicata; il centrosinistra pare voler tentare una complicata resurrezione grazie alla disciplina repubblicana della quale i suoi elettori sono dotati; il Movimento 5 stelle ha già iniziato a pagare il conto del suo posizionamento inutile al fine del cambiamento e si presenta ormai come un mix di scelte politicanti e incapacità di governo del suo stesso consenso elettorale; la destra, priva di Silvio Berlusconi, è priva anche di ogni speranza di vittoria politica.

L’astensionismo è figlio naturale dell’assenza della politica dai temi che riguardano la vita delle donne e degli uomini. Accartocciata sui gorgoglii di stomaco dei funzionari UE, incapace di trovare risposte alla crisi economica ed a quella democratica che ne consegue, risulta inutile anche ai all’esigenza di rappresentanza della maggior parte della popolazione, che quindi vota più che mai “contro” qualcuno e qualche sigla, più che “per” qualcosa da fare. Ma intanto, visto che il dibattito sulla legge elettorale è in corso, si può dire che senza il Porcellum qualcuno vince sempre. Per i Comuni e le Regioni, dove l’infernale trappola di Calderoli non trova applicazione, i risultati sono infatti netti. Dunque una buona legge elettorale serve eccome a garantire la governabilità.

Il risultato più importante, ad oggi, è quello di Roma, dove l’ottimo Marino riscuote un successo notevole al primo turno. Sembrerebbe l’esibizione di un certificato di esistenza in vita da parte del PD, ma non è di questo (o almeno non solo) che si tratta, dal momento che l’emorragia di voti non cessa. Il motivo di questo successo romano risiede invece nel candidato, tanto nelle posizioni da lui espresse che nel modo stesso di candidarsi.

Marino ha vinto le primarie contro la nomenklatura del partito, che infatti poco e male lo ha sostenuto;  ha poi espresso chiaramente il dissenso dal governo delle larghe intese, ha reiterato come vadano ampliate le distanze tra le due sponde del Tevere in materia di diritti civili ed ha avuto il coraggio di dimettersi da Senatore prima e non dopo il voto. Si è quindi candidato a sindaco di sinistra, riproponendo concetti e programmi che sono patrimonio di una sinistra attenta al sociale e che di liberale ha solo la cultura dei diritti civili.

Medici, il candidato della sinistra che si sente talmente a sinistra fino a scomparire dalla mappa, ha ottenuto una percentuale insignificante, il cui unico risultato utile è stato quello di non ampliare eccessivamente le distanze per il ballottaggio, così da impedire eccessi di sicurezza e rilassamento nei prossimi quindici giorni che ci separano dal voto decisivo. Spicca poi il fallimento del M5S, che ha presentato un personaggio davvero poco convincente e che si è sommato al disamore già autosviluppatosi verso Grillo, che solo pochi mesi prima aveva convinto tanta parte dell’elettorato di sinistra a votarlo alle politiche. I deliri dei suoi capigruppo, i riti dello show cominciati con il Presidente e finiti con gli scontrini, la commedia della trasparenza che diventa però omissis quando Report chiede lumi sui conti di Grillo e Casaleggio, hanno già prodotto l’effetto boomerang del famoso vaffanculo.

La destra, sconfitta in tutta Italia e con ogni veste con la quale si è presentata (Lega, FI o ex AN) come si diceva si conferma in crisi di credibilità quando il suo proprietario, Silvio Berlusconi, non scende direttamente in campo con le corazzate televisive e la pioggia di denari. La Lega di Maroni viene ridotta ai minimi termini proprio sul terreno che più le era congeniale, quello dell’insediamento territoriale a livello locale. Un terreno che ha sempre rappresentato l’esercito di riserva di voti che il Carroccio ha dispiegato sul tavolo del PDL per ottenere un ruolo politico nazionale, a fronte di un ruolo locale decisivo al Nord in virtù anche del disegno dei collegi e delle circoscrizioni elettorali ulteriormente viziato dal Porcellum.

E se nelle città “rosse” il centrosinistra ritrova in buona parte il suo elettorato, riscendendo verso Roma va detto che c’entra davvero poco il derby nella sconfitta di Alemanno.  La partita dura due ore, per votare ce ne sono a disposizione 24. Oltre tutto, molti di quelli che affollano le curve sono gli stessi che disertano le urne. Ma il fatto è che Alemanno (a Roma da tutti chiamato Ale-danno) è stato il protagonista nero di cinque anni di sfascio totale della città eterna.

Tra parentopoli e malgoverno, spocchia e incapacità, conti alla deriva, apologia di fascismo a ciclo ininterrotto e reingresso dalla porta di servizio di figuri usciti da ogni inchiesta criminale (sia essa di terrorismo che di delinquenza comune) la città è piegata e piagata come non mai. Ale-danno è stato, né più né meno, il peggior sindaco della storia della città.

Anche il risaputo vestito di nuovo non ha avuto miglior sorte. Arfio Marchini si è infatti attestato sulla stessa soglia della Lista Civica di Monti alle politiche. D’altra parte essere attore primario in società pubbliche e private, rappresentare interessi e lobbies di ogni tipo (in particolare immobiliari) e presentarsi poi in pubblico come il salvatore della patria, presupporrebbe che gli elettori fossero completamente scemi. Così non è.

La Roma avvilita e depressa, incattivita e intollerante, prepotente ma frustrata, sa riconoscere - in mezzo a tutti i suoi difetti e le sue perversioni - la differenza che passa tra chi soffre e chi gode, tra le migliaia di famiglie senza niente e le teste cotonate che regnano e hanno sempre regnato girando le forchette sul tessuto urbanistico e sociale della città e che, per colmo di sfacciataggine, si presentano indicando le ricette per il male che essi stessi hanno contribuito a creare.

C’è ancora da lavorare prima di chiudere la partita a Roma e in altre città. Vietato sedersi pensando che ormai è fatta, la rimonta di Ale-danno su Rutelli lo insegna. E vietato anche pensare, stupidamente, che uno in fondo vale l’altro, perché mai la distanza tra due concezioni della politica e dell’etica sono state più distanti come tra Marino ed Alemanno. La città non può sopportare altri cinque anni di scandali e affari all’ombra del Campidoglio e sotto le tonache d’Oltretevere.

Il Centrosinistra dovrà intensificare gli sforzi e proporre davvero un nuovo progetto di rinascita per la città, un modello di governo alternativo al dominio dei poteri forti. E dovrà trovare ogni comunanza con la sinistra più autentica, che non è rappresentata, quella delle moltitudini silenziate. Sì, proprio quella sinistra che affollava le vie di Genova ai funerali di Don Gallo, dovrà mobilitarsi per far vincere Marino e iniziare da Roma, con tenacia e pazienza, ad aprire un varco che diventi, tra quindici giorni, la nuova breccia di Porta Pia.

di Fabrizio Casari

Don Andrea Gallo ci ha lasciati. Una perdita immensa per il popolo dei giusti e dei senza diritti, per tutti coloro che cercano, attraverso la coscienza di ciò che si è e con lo strumento della ribellione individuale e collettiva, la via per ottenere giustizia o, almeno, il modo di non sentirsi umiliati, oltre che sconfitti. A 84 anni, il miglior sacerdote della storia italiana ha concluso una vita dove oltre la tonaca ha indossato gli abiti più nobili: partigiano durante la Resistenza antifascista e antifascista per sempre, scrittore di libri splendidi e fustigatore dell’arroganza dei potenti.

Fu oppositore della gerarchia cattolica, che nel 1970 lo sospese, accusandolo di essere “di sinistra” e lo privò della sua parrocchia senza però riuscire a privarlo dei suoi fedeli. Seppe denunciare guerre e diseguaglianze come i peggiori elementi del nostro tempo, fu leader spirituale di ogni battaglia politica e sociale per migliorare le vite degli altri.

Per chi ha fede, don Gallo apparteneva a quella schiera di anime, sante già in terra prima che in cielo, per cui Gesù non ha bisogno di aspettare il paradiso per rivelarsi. Infatti, la rivoluzione della giustizia e della purezza, quella scritta con rigore nel Vangelo, inizia da quaggiù. Per questo il prete semplice come un novello Francesco d'Assisi non poteva smettere di ricordarci che i più reietti e disperati andavano accolti, aiutati, inclusi. Ancor prima della carità cristiana, il dramma dell'uomo è nella mancanza di umanità. In questo cristianesimo di carne e sangue credeva don Gallo.

Da cristiano impenitente chiedeva di ripartire dall'umanità per arrivare alla santità. Il suo è il cristianesimo della Maddalena e dell'incredulo. Del dubbio e del peccato. La croce un attimo prima della resurrezione. In quell'inferno lì Don Gallo riusciva a portare Gesù.

In lui si fondevano straordinariamente fede religiosa e laicità dei comportamenti, in un ideale sguardo verso il cielo che in qualche modo poteva darsi solo tenendo le mani in terra. Un sacerdozio mai disgiunto dall’impegno verso i più svantaggiati, gli emarginati, i senza parola e senza diritti. Così riuscendo a tenere insieme la politica, scienza tra le scienze della trasformazione sociale e culturale, con la fede, luogo dell’animo e della ricerca dell’assoluto, ambito per definizione privo di ogni suggestione della logica.

Con la sua comunità genovese di San Benedetto al porto, l’uomo, il sacerdote, il comunista, seppe costruire un ritrovo senza padroni, un luogo dove ognuno era residente anche se ospite. Quale che fosse il disagio, quali che fossero gli handicap, Don Gallo era il porto sicuro, l’accoglienza voluta, le braccia aperte, come quelle di un Cristo riportato nelle piaghe del vivere di coloro che non trovano udienza nei salotti e nemmeno nelle chiese.

Un sacerdote di frontiera, lo avrebbero definito, non fosse altro che don Gallo, di frontiere, non voleva sentir parlare. Aveva abbracciato la fede in Cristo da Salesiano e il destino degli sfruttati da comunista e il legame inscindibile con il messaggio evangelico autentico é stata, insieme ad una coscienza politica limpida e lucida, la miscela di amore che ne ha caratterizzato la vita e le opere.

A voler cercare un po’ di ottimismo circa la bontà genetica del genere umano, don Gallo poteva essere uno spunto utilissimo. Una vita intera spesa al lato degli ultimi con passione, intelligenza, competenza, senza risparmiarsi mai.

Completamente sordo ai doveri ufficiali cui Santa Romana Chiesa obbliga i suoi sacerdoti, aveva le antenne sempre dritte verso ogni luogo e ogni essere umano che ne richiedesse il suo impegno. Non c’è stata causa giusta che l’abbia annoverato tra gli assenti, non c’è stata battaglia politica dalla quale abbia disertato.

Uomo di passione e fede, polemico e ironico, la voce sempre roca, il basco sulla testa e il sigaro tra le labbra, disponeva di empatia naturale, di quella rara capacità di essere amato dagli amici e rispettato dai nemici. Ci mancherà questo sacerdote così pieno di fede e passione, esempio per tutti coloro che intendono riempire con coraggio e coerenza, con scelte nette e idee forti, quello spazio di tempo che la natura ci assegna.

I popoli fortunati, diceva il grande Bertold Brecht, non hanno bisogno di eroi. Forse aveva ragione, ma se la  religione in cui don Gallo credeva dice il vero, siamo sicuri che sarà già in Paradiso, dove un posto per lui è certamente pronto. Magari in basso, ma certamente a sinistra.




di Carlo Musilli

A quanto pare lo odiano tutti, ma lui, il mostro, è ancora lì. E ci sbeffeggia da tre legislature, salvato per otto anni dall'ipocrisia bipartisan del Parlamento. Pochi giorni fa però al club "nemici del Porcellum" si è aggiunto un nome pesante, quello della Cassazione. I giudici della Suprema Corte hanno depositato un'ordinanza in cui definiscono "rilevanti" le "questioni di legittimità" sollevate in un ricorso contro la legge elettorale partorita nel 2005 da Roberto Calderoli (il quale a suo tempo liquidò come "una porcata" la sua stessa creatura). In ballo c'è la conformità del provvedimento alla Costituzione italiana e alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. A questo punto gli atti passano alla Corte costituzionale, chiamata ad esprimere il verdetto finale.

Nel mirino ci sono in particolare i due aspetti più mostruosi del Porcellum: il premio di maggioranza e le liste bloccate. Il primo è deleterio soprattutto alla Camera, dove si affida un oceano di seggi (340 su 630, il 55%) alla coalizione che ha vinto le elezioni, il tutto senza soglia di sbarramento. Traduzione: basta un voto in più rispetto agli avversari per surclassarli a Montecitorio. Il secondo aspetto invece sancisce l'impossibilità di segnalare preferenze per i candidati in cabina elettorale. A scegliere chi va in Parlamento sono solo i partiti.

Per la Cassazione "è dubbio che l'opzione seguita dal legislatore costituisca il risultato di un bilanciamento ragionevole e costituzionalmente accettabile tra i diversi valori in gioco". Ovvero la distribuzione dei seggi non rispecchia correttamente il risultato del voto e questo rischia di compromettere la "sovranità popolare", garantita dagli articoli 1 e 67 della Carta.

Il giudizio più articolato dei giudici è quello sul premio di maggioranza: "Si tratta di un meccanismo premiale - scrivono nelle motivazioni - che, da un lato, incentivando (mediante una complessa modulazione delle soglie di accesso alle due Camere) il raggiungimento di accordi tra le liste al fine di accedere al premio, contraddice l'esigenza di assicurare la governabilità, stante la possibilità che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio si sciolga o i partiti che ne facevano parte ne escano (con l'ulteriore conseguenza che l'attribuzione del premio, se era servita a favorire la formazione di un governo all'inizio della legislatura, potrebbe invece ostacolarla con riferimento ai governi successivi basati un coalizioni diverse); dall'altro esso provoca un'alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio è in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l'altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura". Ecco spiegata "l'irragionevolezza" della misura, che lede "i principi di uguaglianza del voto e di rappresentanza democratica".

Com'era prevedibile, il parere della Cassazione ha dato il via all'ennesimo valzer del finto pentimento. I rappresentanti degli stessi partiti che hanno scritto, approvato e poi lasciato al suo posto il Porcellum mentre la crisi affossava il Paese, oggi se ne tirano fuori. Come se la colpa fosse di qualcun altro.

"Abbiamo una legge elettorale su cui grava un sospetto d'incostituzionalità, sarebbe bene quindi che la politica dimostrasse di non voler cincischiare e risolvesse il problema prima della magistratura", ha detto Gaetano Quagliariello, ministro pidiellino delle Riforme e ex membro dei saggi (l'unico a suggerire per l'Italia un sistema presidenziale). "È evidente e noto che abbiamo una legge elettorale probabilmente incostituzionale", gli ha fatto eco Anna Finocchiaro, senatrice di quel Pd che non ha mai corretto l'abominio prodotto dagli avversari nell'illusione di trarne vantaggio al primo giro di giostra favorevole.

Come ne usciremo? Il Partito Democratico vorrebbe tagliare la testa al toro ripristinando il Mattarellum (perfino Calderoli sarebbe d'accordo...), ovvero la legge precedente, che prevedeva un sistema maggioritario al 75% e proporzionale al 25%, senza premi di maggioranza. Il Pdl però non ci sta e per voce di Renato Brunetta propone una serie di "ritocchi light" al Porcellum, ma senza toccare le liste bloccate. Dicono che si rischi di cadere nella trappola del voto di scambio, ma fanno finta di non vedere che il sistema attuale è il miglior incentivo possibile alla compravendita di deputati e senatori, visto che i partiti sono in grado di garantire a chi vogliono una rielezione sicura.

A questo punto il rischio è che proprio sulla modifica della legge elettorale i berluscones concentrino le loro minacce di far cadere il governo. Il ricatto dovrebbe essere semplice: o un leggero makeup, oppure niente. Come se si potesse sconfiggere il mostro mettendogli il rossetto.

di Giovanni Gnazzi

Il prossimo week-end andranno in abbazia. Per concentrarsi. Per isolarsi. Per ritrovare se stessi. Per fare squadra. In Toscana, che il verde aiuta, si mangia bene, l’aria è fresca e il rumore scarso. «Programmare, conoscersi, fare spogliatoio». Questi gli obiettivi indicati dal Presidente del Consiglio. Più che un governo sembra una squadra di atleti in crisi, più che un premier Letta somiglia ad un coach. Ci provò prima di lui, nel 1997, l’allora Premier Romano Prodi, trasferendo la sua rissosa brigata a Gorgonza, meta lussureggiante sconosciuta ai più, anche all’epoca con lo scopo di “fare squadra”, di meditare, discutere, approfondire. Non portò bene, ci pare di ricordare.

Il malanno, dunque, non è nuovo. C’è questa mentalità, a mezza via tra i boyscout e i bocconiani, che tra un ritiro spirituale e un bullet point, s’inebria di idiozia e luoghi comuni che sembrano voler indicare chissà quale approccio metodologico, una sorta di fusione ideale tra mente e corpo, una cultura di gruppo che in realtà è solo un’americanata da quattro soldi.

Addirittura, alcune aziende statunitensi invitano il loro management a giorni di vita tra le foreste, campeggi, ritiri con sacco a pelo e tende lontani dagli smartphone; alcune arrivano persino a proporre corsi di sopravvivenza e amenità simili. L’intento, anche qui, è fare squadra, familiarizzare, conoscersi. Se non altro, le coltellate che si scambiano (vedi la voce competition is competition) da quel momento in poi gli sembreranno più familiari.

Per quanto riguarda la scampagnata dei Letta boys veniamo però (sobriamente) informati che il costo della trasferta verrà suddiviso tra i partecipanti. I ministri, immaginiamo, perché la benzina nelle auto che li accompagneranno in questo viaggio per ritrovar se stessi e gli straordinari che dovranno essere riconosciuti agli uomini adibiti alla sicurezza invece saranno pagati con quelli soliti di Pantalone. D’altro canto, la mancanza di fondi per la manutenzione delle volanti non pare sia tema previsto nell’agenda taoistica del gruppetto. Costruita nell'XI secolo nella campagna di Sarteano (SI) l’abbazia di Spineto è circondata da una proprietà di oltre 800 ettari e dispone di 98 camere distribuite tra l'Abbazia e gli 11 antichi poderi della Tenuta. Riflessioni a cinque stelle vere, insomma, altro che quelle di Grillo.

Eppure Palazzo Chigi abbonda di sale riunioni dove persino un governo così numeroso e rumoroso può trovare comodamente posto senza dover scomodare agenti di scorta e pieni di benzina. Ad esempio la Sala Verde di Palazzo Chigi sarebbe perfetta; vi troverebbero posto persino i portavoce e le segretarie di ogni ministro e sottosegretario. Nel centro di Roma, nel chiuso di un antico e nobilissimo palazzo, dotati di ogni confort, immaginiamo rendano possibili anche grandi e veloci movimenti neuronici.

Domandare ci sembra lecito: cosa mai sarà possibile pensare in Toscana che a Roma non riuscirebbe? Quali orizzonti mai potrebbero aprirsi nelle menti raffinatissime di questa compagine governativa che sembra avere lo spirito di un CRAL aziendale in gita? Forse che la Lorenzin nella campagna senese dal colore così particolare troverà l’Eureka che salverà l’equilibrio tra conti e prestazioni del Servizio sanitario nazionale? Scoprirà il valore dell’universalità della prestazione e quello spiritualmente infinitamente minore delle convenzioni con i boss privati della salute? Oppure la ministro Di Girolamo troverà la soluzione alla crescente riduzione della produzione agricola che per paradosso si associa alla piaga sempre più purulenta del caporalato nei campi?

Da buon tifoso del Milan Letta crederà magari alla favola di Padre Eligio, il consigliere spirituale dei rossoneri durante gli anni 70. Era il Milan di Rivera, che era un fenomeno con i piedi però, non con l’animo. L’animo, se c’era, era quello di Giusy Farina, presidente finito in manette e che portò il Milan in serie B. Vatti a fidare dello spirito e dello spogliatoio. Ad ogni modo, meditare non è mai una cattiva idea. Ma lo si può fare persino da casa propria. E poi Testaccio non è meno cool della Toscana.


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