di Carlo Musilli

Sembrano dei soldati che, sul campo di battaglia, pretendono di minacciare il nemico puntandogli in faccia una pistola ad acqua. Mano a mano che si avvicina la data di scadenza del loro generale (il 9 settembre inizierà a lavorare la Giunta per le elezioni del Senato, chiamata a decidere sulla decadenza di Silvio Berlusconi), colonnelli e luogotenenti del Pdl fanno la voce sempre più grossa. All'inizio erano incerti, ora invece ostentano aggressività: se il Pd voterà per l'espulsione del Cavaliere dal Parlamento, il governo Letta cadrà. Sì, ma... Poi?

Al di là del mero ricatto - ultima freccia rimasta nella faretra -, non si vede proprio quale vantaggio possa trarre la destra dal ribaltone. I pericoli cui si esporrebbe, invece, sono chiarissimi. Insomma, se fosse una partita a poker, sarebbe un bluff facile da leggere. Tanto è vero che nemmeno il Partito democratico, stavolta, sembra esserci cascato.

Passiamo in rassegna qualche indizio che suggerisce la pista della simulazione. Innanzitutto, il piano meramente legislativo. Se l'Esecutivo cadesse a breve, la tanto vituperata Imu tornerebbe a infestare i sogni di tutti. E' vero, in qualche modo tornerà comunque con la "service tax": il problema è che resusciterebbe il vecchio acronimo, perché la copertura finanziaria necessaria ad abolire la seconda rata dovrà essere indicata con la legge di stabilità, in agenda per metà ottobre. E poi la famosa "service tax" è ancora tutta da concepire.

Ora, è verosimile che il Pdl si renda responsabile di una simile marcia indietro? Dopo l'infinita campagna mediatica anti-Imu e gli squilli di tromba seguiti alla sua abolizione, davvero la destra vuole reintrodurla, facendo scontare ai contribuenti-elettori le grane giudiziarie di Berlusconi? Sarebbe davvero complesso indorare una pillola del genere.

Passiamo ora alle ragioni personali di Berlusconi. Ciò che più interessa al Cavaliere è rimanere in Senato il più a lungo possibile, in modo da affrontare gli altri processi in cui è coinvolto forte dell'immunità parlamentare. E' del tutto evidente che, una volta sciolte le Camere, decadrebbe immediatamente dalla carica, come tutti i membri del Parlamento. Ma a differenza dei colleghi, lui, in forza della legge Severino - approvata l'anno scorso con i voti decisivi del Pdl - non potrebbe ricandidarsi. Un bell'autogol, no?

Com'è ovvio, poi, la decisione di sciogliere le Camere non spetta ai pidiellini, ma al Capo dello Stato. E al momento della rielezione Giorgio Napolitano ha lasciato chiaramente intendere che farà di tutto per non riportare gli italiani al voto prima della riforma elettorale. Ha perfino messo sul tavolo la minaccia delle dimissioni.

Se quindi fosse impossibile far nascere un Letta-bis con i voti dei transfughi pidiellini e grillini - opzione remota, numeri alla mano - il Presidente della Repubblica potrebbe mantenere la promessa e abbandonare il Colle. A quel punto la priorità sarebbe eleggere il suo successore e la destra non avrebbe i numeri per mercanteggiare: un eventuale (e probabile) asse Pd-M5S porterebbe certamente al Quirinale un nemico giurato del Cavaliere, che si tratti di Stefano Rodotà o di Romano Prodi.

A conti fatti, dunque, la prospettiva migliore per Berlusconi è che il Pdl rimanga al governo. La questione della "agibilità politica" è evidentemente pretestuosa per un partito tenuto insieme solo e soltanto dalla figura del capo carismatico. L'attività pseudo-politica dei pidiellini si è sempre risolta nell'obbedire al padrone per tutelare i suoi interessi, in primo luogo finanziari. Non conoscendo altri orizzonti, proseguiranno certamente su questa strada, anche se gli ordini dovessero arrivare da un extraparlamentare che sta scontando il proprio debito con la giustizia italiana.

Berlusconi rimarrà quindi a capo della destra, qualsiasi cosa accada. Ma se davvero vuole continuare ad esercitare un peso politico di qualche rilievo, gli conviene che il governo Letta sopravviva. Altrimenti rischia di affrontare le prossime sentenze come sta facendo oggi con il voto della Giunta. Armato solo di pistola ad acqua. 

di Carlo Musilli

Caro contribuente, forse non lo sapevi, ma la tua casa è un servizio comunale. Un “service”, in English. Però non farti illusioni: rimane una proprietà privata su cui continuerai a pagare il mutuo o l’affitto, oltre alle tasse. Solo il vituperato acronimo “Imu” andava tolto di mezzo. E, dopo il bianchetto, una bella freccia ha spostato l’intero pacchetto sotto un’altra voce. Una nuova creatura un po’ confusa, eterogenea, dal nome inquietante: in prima battuta l'avevano chiamata Taser, poi (santo Google) si sono accorti dell'omonimia con le pistole elettriche usate per stordire i manigoldi e hanno fatto marcia indietro.

Acronimi imbarazzanti a parte, si tratta della “service tax” (sempre in English) che nascerà l’anno prossimo e comprenderà una serie di prelievi per vari “servizi” comunali: dalla Tares sui rifiuti alla tanto odiata imposta sulla casa (anche la prima).

Vari colonnelli delle larghe intese si sono sperticati in manifestazioni di giubilo per l’abolizione dell'Imu - cancellata del tutto per il 2013 su abitazione principale, terreni e fabbricati agricoli -, eppure la "tax" partorita dal governo è ancora un oggetto del mistero per molti, troppi aspetti. A cominciare dalle famigerate coperture: per pagare la cancellazione della prima rata i soldi ci sono, ma per il saldo di dicembre ancora no.

Le fonti di finanziamento saranno messe a punto solo nelle prossime settimane e otterranno il via libera presumibilmente a metà ottobre, con la legge di stabilità. Il solito rinvio non ha mancato d’insospettire Bruxelles, al punto che il commissario agli Affari economici Olli Rehn si è affrettato a tirarci le orecchie: “I miei uffici controlleranno il decreto, l’Italia garantisca la copertura”. Con altrettanta fretta il premier Enrico Letta ha rassicurato l'Europa: “L’Italia rispetterà il limite del rapporto deficit-Pil al 3%”.

Dal governo sono arrivate anche altre due promesse. Primo: per finanziare l’intervento sull’Imu non saranno alzate altre tasse. Anzi, si cercherà perfino di evitare il rincaro automatico della terza aliquota Iva, che senza ulteriori interventi salirà dal 21 al 22% a partire dal primo ottobre. La squadra è talmente compatta su questo punto che Stefano Fassina si è lasciato andare al seguente vaticinio: il rincaro Iva è ormai inevitabile - ha scritto sull'Huffington Post il viceministro dell'Economia -, viste le risorse sottratte all’azione del governo dall’operazione Imu.

L'ultima promessa riguarda i soldi che dovremo scucire l'anno prossimo: la misteriosa "tax" sarà meno cara della somma di Tares e Imu. Ora, a quanto si è capito, il nuovo prelievo potrà tener conto della metratura delle abitazioni, e questo è l'aspetto più positivo, perché dovrebbe aumentare la progressività dell'imposta.

Tuttavia non significa affatto che alla fine il conto sarà meno caro, almeno non per tutti. Secondo l'ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco (Pd), ad esempio, "pagheranno di più gli affittuari (ceti popolari e giovani)" e "alla fine l'onere differenziale si scaricherà sui ceti medi". In ogni caso, si farà sempre in tempo incolpare i sindaci, visto che la nuova tassa sarà di loro competenza.

In uno slancio che ricorda quello del bambino nella favola del “Re nudo”, ieri Fassina ha ricordato anche un’ovvietà che in queste ore tutti fingono d’ignorare: “E’ stata abolita l'Imu, non la tassazione sulla prima casa”. Dopo tutto quello che abbiamo detto sembra una precisazione lapalissiana, ma a leggere le dichiarazioni trionfanti del Pdl si cambia idea.

"Una promessa realizzata - ha scritto Silvio Berlusconi in una nota -. Un punto cardinale pratico e simbolico del programma che abbiamo voluto come scelta qualificante negli accordi che hanno portato alla formazione del governo di larghe intese".

Ancora più ispirato il vicepremier Angelino Alfano: "I tg e i giornali porteranno nelle case degli italiani una bellissima notizia: dovevano pagare una tassa e non la pagheranno. E' una misura fatta nel modo giusto, è tax free". Ma è anche "still a tax", visto che alla fine la tassa rimane...

Al Pdl, evidentemente, interessava soltanto cancellare l'Imu in quanto tale. Farla rientrare dalla finestra sotto mentite spoglie non è un problema: avevamo promesso di abolire l'Imu e lo abbiamo fatto, che volete ancora?

Su questo simpatico gioco delle tre carte si misura tutta l'importanza del decreto varato mercoledì dal Consiglio dei ministri. Se in termini economici il suo contenuto è discutibile e incerto, sotto l'aspetto politico è l'esito migliore possibile per entrambi i litiganti: i pidiellini cantano vittoria davanti agli elettori, mentre il Pd riesce nell’intento di non fornire agli alleati-avversari un buon pretesto per incrinare la maggioranza e allo stesso tempo mette in cantiere una tassa-Frankenstein apparentemente sostenibile. Rimane da capire se all'inizio l'abbiano chiamata come una pistola per darci un consiglio.









di Fabrizio Casari

E’ un ricatto. Non ci sono motivi politico-lessicali per definire in maniera diversa la richiesta berlusconiana al PD di rinviare - magari astenendosi dal voto in giunta - la procedura di decadimento dall’incarico di senatore del condannato Silvio Berlusconi. Preso atto dell’impraticabilità della grazia presidenziale, dal momento che pendono sul cavaliere di Arcore altri cinque processi, la guerriglia che l’armata Brancaleone sferra contro il Paese si è concentrata sull’assalto all’unico polo strategico sul quale può avere ancora parola determinante: la sorte del governo.

Dunque, come Don Vito Corleone, Berlusconi propone un'offerta che non si può rifiutare e “suggerisce” al centrosinistra di sottrarsi al voto favorevole in giunta e permettere così al governo di sopravvivere, anche se al prezzo di uno strappo costituzionale tra potere legislativo e giudiziario che lacererebbe il già fragilissimo tessuto costituzionale italiano.

Tralasciando gli house organ famigli, impegnati a definire la riunione di giunta come fosse linizio di Armageddon, gli italiani che hanno sempre votato a destra, stando ai sondaggi, rimarrebbero convinti che la presenza di Berlusconi alla guida del PDL vada garantita.

Qui non c’è solo quella idiosincrasìa tutta italiana della corsa a salire sul carro del vincitore, quella dimensione stracciona del sistema valoriale condiviso che vede nella italica furbizia un modello di vita e nell’aggiramento delle norme il solo modo di sentirsi liberi. C’è proprio il convincimento che la caduta del capo sia l’inizio della fine di una destra che solo sul fatto che egli lo sia trova un minimo di accordo tra le bande che la compongono.

Dal punto di vista politico appare assurda la richiesta di approfondimento in sede di giunta del Decreto Severino, in forza del quale il capo del centrodestra non può più esercitare il ruolo di parlamentare; un simile iter consentirebbe né più né meno stabilire che l’erogazione delle pene previste dalle violazioni dei codici non sono più compito della magistratura ma, nel caso di un parlamentare, diventano materia a discrezione dei colleghi.

Sarebbe un vero e proprio golpe istituzionale che azzererebbe la divisione dei poteri prevista dalla costituzione e sancirebbe, sul piano dell’ordinamento politico, la similitudine tra le istituzioni della repubblica e la fattoria degli animali di Orwell, dove, com’è noto, tutti gli animali sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri.

La scalcinata destra italiana, gigantesco prodotto di una commistione affaristica tra eletti e proprietario, si misura con il senso stesso della sua esistenza, quello cioè di rappresentare un aggregato a difesa degli interessi privati di Silvio Berlusconi. Poco si capisce come mai alcune anime belle del centrosinistra si stupiscano di ciò, indicando la strada della rifondazione del PDL senza il cavaliere.

Sarebbe stato possibile per qualunque partito della storia della Repubblica, ma non per il PDL, giacché esso non rappresenta - né mai ha rappresentato - un progetto politico e non ha mai prodotto una classe dirigente alla quale chiedere d’interpretarlo.

La destra berlusconiana è stata ed è tuttora un gigantesco collegio di difesa delle avventure finanziarie del cavaliere, uno scudo per la sua immunità e la benzina per i suoi motori industrili e finanziari, strumento che, in parallelo con la politica, ha permesso l'espandersi dell'impero.

Mettere in discussione la Legge Severino, da loro convintamente votata, argomentando l’illegittimità della retroattività nell’applicazione delle norme, non deve stupire più di tanto. Quello della retroattività è certamente un elemento che presenta dubbi di costituzionalità, ma fintanto che non è toccato a Berlusconi la destra non l’ha - guarda caso - mai posto all’attenzione, men che mai ha proposto una legge che la abolisse. Ora però, la legge di colpo non va più bene. E dov’è la novità?

Allo stesso modo hanno sferrato attacchi durissimi contro il rigore europeo dopo aver loro firmato il fiscal compact e l’impegno di pareggio dei conti pubblici. Non serve, dunque, cercare coerenza; non c’è mai stata, mai ci sarà, dal momento che l’idea che il padrone della destra ha è che tutto si possa dire e smentire, fare e disfare, se funzionale al processo di consolidamento del suo potere politico e finanziario.

Nel merito, infatti, la decadenza da senatore e una prossima non candidabilità di Berlusconi per effetto della sentenza definitiva di condanna, non impedirebbe al cavaliere di dirigere comunque, pur restando fuori dalle istituzioni, il suo balocco. Il problema è che in vista dei prossimi processi Berlusconi ha disperato bisogno dell’immunità parlamentare e dunque non può permettersi di non usufruirne; a questo si aggiunge poi la consapevolezza che lui per primo ha di quale sia il livello qualitativo del suo gruppo dirigente.

Berlusconi è ben conscio di come la messa in sicurezza delle sue aziende, che devono essere tenute al riparo dalle inchieste della magistratura sulle discutibili pratiche con le quali sono nate e cresciute, non può essere affidata a pitonesse, nani e ballerine, cioè quella scombinata combriccola che compone il Circo Barnum che ci ostiniamo a chiamare PDL.

Il PD, al momento, reitera quotidianamente l’indisponibilità ad accettare il baratto tra governo e legalità, ma per esperienza, tra il prima e il poi nel PD c’è sempre qualcosa che s’incunea. Che il governo Letta sopravviva o meno è cosa relativa rispetto al rispetto, una volta tanto, della legge e delle norme. Berlusconi sa però che sulla tenuta della linea intransigente si gioca anche la partita per il Congresso e che non certo tutto il PD ansima per mantenere Letta saldo a Palazzo Chigi.

Per questo tenterà ogni mossa utile a far leva sul “senso di responsabilità” dei soliti noti. Ma è ovvio che il PD debba cercare ovunque al Senato i voti utili a sostituire quelli del PDL. Se li troverà, sia tra i MS5, sia tra eventuali franchi tiratori del PDL, tanto meglio per l’Esecutivo.

La speranza è che il PD non accetti il ricatto e che Grillo sia pronto ad offrire una soluzione politica funzionale al raggiungimento di almeno tre obiettivi: espellere Berlusconi dal consesso parlamentare italiano, trovare un accordo sulla legge elettorale, tornare al voto.

Obbiettivi salutari per il paese, ai quali opporre furbe tattiche speculative comporterebbe un danno irreparabile per il movimento e per l’Italia stessa. Serve, caro Beppe, una prova di elasticità e pragmatismo politico, una dimostrazione concreta dell’arte della semina prima e del raccolto poi. Mai come ora il bene di tutti s’intreccia così perfettamente con quello di ognuno.




di Antonio Rei

La settimana scorsa abbiamo ricevuto una bella lezione su come si applica il principio di equità nel nostro Paese. E abbiamo avuto conferma che, in materia di stipendi pubblici, a ispirare le norme italiane è piuttosto il vecchio concetto di "due pesi e due misure". Il Consiglio dei ministri ha approvato la proroga del blocco delle buste paga dei dipendenti statali fino al 31 dicembre 2014 e ha annunciato che a settembre ripartirà il confronto con i sindacati sul contratto, ma solo per quanto riguarda la parte normativa.

Venerdì, invece, la Camera ha dato il via libera definitivo al decreto del Fare, che fra i vari interventi prescrive un taglio agli stipendi dei manager pubblici. La misura è contenuta in un emendamento che è stato oggetto di un lungo braccio di ferro fra governo e Parlamento. Nel dettaglio, è prevista una riduzione del 25% per il compenso dei manager che non rientrano nel tetto fissato dal decreto salva-Italia, il quale stabiliva come limite invalicabile il trattamento economico riservato al primo presidente della Corte di Cassazione (circa 300 mila euro).

Guarda caso, nello stesso giorno dell'ok al decreto del Fare, sono stati anche rinnovati i Cda di tre società pubbliche come Anas, Ferrovie dello Stato e Invitalia (l'Agenzia per l'attrazione degli investimenti), i cui manager si sono messi così al riparo da ogni taglio. La nuova norma, infatti, non sarà legge prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e la riduzione dei compensi si applica "limitatamente al primo rinnovo dei consigli di amministrazione" successivo all'entrata in vigore della legge di conversione del decreto o "qualora si sia già provveduto al rinnovo, ai compensi ancora da determinare ovvero da determinare in via definitiva".

Il doppio fronte d'intervento dimostra quanto mai la differente considerazione riservata ai vari anelli di quella catena alimentare che è la pubblica amministrazione. Alle piccole prede si chiedono i soliti sacrifici imposti dalla crisi economica, mentre per i grandi predatori si riesce a trovare il salvacondotto ad hoc.

"Continua l’accanimento contro gli statali” si legge in una nota dell'Unione sindacale di base . I lavoratori pubblici non ci stanno ad essere rosolati a fuoco lento e il 18 ottobre parteciperanno allo sciopero generale convocato dalla Confederazione Usb, scendendo in piazza con rabbia e determinazione. “Di caldo ormai non c’è solo l’autunno, ma l’intero anno". Sono sul piede di guerra i medici, gli insegnanti e perfino i militari del Cocer. 

La situazione, in effetti, non è delle più rosee. Il congelamento del turnover ha determinato 120 mila tagli nel pubblico impiego tra il 2011 e il 2012, mentre le retribuzioni sono calate dello 0,6% lo scorso anno dopo il -0,7% dell’anno precedente. L’inflazione, intanto, è cresciuta del 3%.

"Tutti stanno soffrendo, sia nel settore pubblico sia nel settore privato - ha bacchettato il ministro della Pubblica amministrazione, Gianpiero D'Alia -. Il potere d’acquisto del salario pubblico e del salario privato in questi anni è diminuito parecchio, così come è calato il livello dell’occupazione giovanile. Questi sono due dati che rendono il nostro sistema Paese più debole e su cui dobbiamo intervenire con politiche mirate".

Peccato che, fin qui, l'operazione più mirata sia stata proprio la convocazione di quelle tre assemblee societarie da parte del loro unico azionista, il ministero dell'Economia. Una pratica piuttosto insolita a pochi giorni da Ferragosto e che non si spiega con altre urgenze particolari se non con la volontà di salvare per almeno altri tre anni gli stipendi degli uomini al vertice.

Le loro retribuzioni, in effetti, sono molto superiori a quel famoso limite di 300 mila euro. Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs dal 2006, nel 2011 ha incassato un compenso di 873 mila euro. E non è andata molto peggio ai suoi colleghi di Anas e Invitalia, rispettivamente Pietro Ciucci e Domenico Arcuri: il primo ha guadagnato nell’ultimo triennio una somma vicina ai 700 mila euro l’anno, mentre il secondo nel 2011 ha incassato 792 mila euro, di cui 175 mila euro come emolumento, 361 mila come compenso fisso e 254 mila come compenso variabile.

Viene da sperare che questi tre signori investano il loro denaro a piene mani per far girare un po' l'economia italiana. Perché è difficile chiederlo ai loro dipendenti.

di Carlo Musilli

Dai domiciliari del padrone al domicilio dei sudditi il passo è breve. In Italia può succedere che un condannato in via definitiva per frode fiscale (non evasione, frode) cerchi d'imporre al governo una nuova politica fiscale. E così facendo sposti i riflettori dai propri guai giudiziari a quell'unico argomento che da vent'anni gli consente di accalappiare milioni di voti: "Meno tasse per tutti".

Venerdì Silvio Berlusconi si è scagliato lancia in resta contro l'Imu. In una nota dai toni epici ha parlato di "battaglia per la libertà" (di chi e da cosa, non è dato sapere), ripetendo ancora una volta che non esiste margine di trattativa: l'imposta sulla prima casa va abolita per tutti. Punto e basta.   

Il Cavaliere fa la voce grossa, ma al momento non è nella posizione di spaventare qualcuno, né d'imporre alcunché. Il dato politico più significativo di quella nota è quello che Berlusconi non ha scritto. A ben vedere, manca qualsiasi riferimento alla possibilità di aprire una crisi governo.

L'ex premier ha in mano una pistola scarica e lo sa benissimo. Se rompesse le larghe intese, correrebbe il rischio di ritrovarsi Romano Prodi al Quirinale. Di sicuro Giorgio Napolitano non convocherebbe nuove elezioni ora, con il Porcellum ancora in vita. Piuttosto che sciogliere le Camere prima della riforma elettorale, il Capo dello Stato si dimetterebbe, come ha lasciato intendere più volte negli ultimi mesi. E a quel punto il professore bolognese tornerebbe in cima alla lista dei papabili per il Colle.

Ecco spiegato per quale motivo Enrico Letta continua a ripetere sornione sempre la stessa frase: "Il governo è più saldo di quanto non sostengano i nostri detrattori". A proteggerlo c'è la minaccia di Napolitano.

E tutto questo con buona pace dei falchi Pdl, che - meno lungimiranti del loro padrone - continuano a premere per far saltare l'Esecutivo. L'ultima occasione, a onor del vero, sembrava davvero ghiotta. A offrirla su un piatto d'argento ci aveva pensato il Tesoro, autore di un ponderoso documento in cui si analizzano nove possibili strade per modificare la tassazione sulla casa. L'ipotesi di abolire completamente il prelievo sull'abitazione principale è considerata la peggiore: sarebbe iniqua a livello sociale (perché converrebbe di più ai ricchi) e metterebbe a rischio i conti (servirebbero subito quattro miliardi).

Quale migliore assist per i pidiellini insofferenti alle larghe intese? Avrebbero potuto uccidere il governo con un alibi perfetto, facendo perfino ricadere la colpa sul Pd. Ma la voce del padrone ha segnato il limite da non valicare: sparare contro l'Imu va bene, far saltare Letta no. E alla fine tutto si è smorzato nella calma olimpica del Premier, che in perfetto stile democristiano continua a rinviare tutti i dossier più delicati a giorni che immagina migliori.

Ma allora che senso ha davvero questo circo estivo sull'Imu? Dopo il piantarello in via del Plebiscito di fronte a una folla di figuranti spesati e muniti di cartelli preconfezionati, la polemica sull'imposta municipale unica è l'ultima arma rimasta a Berlusconi.

Il solo modo per farsi sentire, per esercitare una qualche pressione in vista di un salvacondotto che gli consenta di schivare i domiciliari o i servizi sociali. Intanto, il mese prossimo a Palazzo Madama si voterà per la sua decadenza da senatore. E già ricominciano a sventolare le bandiere di Forza Italia, già il volto di Marina è diventato a tutti più familiare.

D'altra parte, se forse si rivelerà inutile sul piano politico, la bagarre intorno all'Imu garantirà al Cavaliere e ai suoi un ritorno elettorale più che certo. Il tutto, naturalmente, è fondato su una serie di bugie a cui gli italiani saranno disposti a credere, ingolositi dalla prospettiva (illusoria) di pagare meno tasse.

La prima bugia è che l'abolizione completa dell'imposta sulla prima casa sia alla base dell'accordo di governo con il Pd. Epifani se n'è accorto: "Berlusconi sbaglia - ha detto il segretario democratico all'Unità -. Nel discorso programmatico che ha ricevuto la fiducia del Parlamento, Letta ha detto: "Superare l'attuale sistema di tassazione della prima casa e dare tempo a governo e Parlamento di elaborare una riforma che dia ossigeno alle famiglie, soprattutto a quelle meno abbienti'". Quindi non a tutti.

La seconda bugia, ormai divenuta strutturale, è che il Pdl sia da sempre il nemico più agguerrito della tassazione sulla casa. Vale la pena di ricordare che l'Imu non ci è stata imposta dall'esercito prussiano, né dalle truppe di Napoleone. E' stata introdotta con il decreto Salva-Italia del dicembre 2011, ovvero il primo provvedimento in assoluto del governo Monti, varato con i voti decisivi del Pdl, che all’epoca era l’unico partito numericamente indispensabile alla maggioranza. Quando si è votato per istituire dell'Imu, i rapporti fra il Cavaliere e Monti erano ancora idilliaci.

E in quei giorni l'opinione di Berlusconi sull'imposta era ben diversa: “Monti ha fatto intendere che porterà la tassazione degli immobili in linea con la media europea, mentre ora è al di sotto - aveva detto in un'intervista al Corriere della Sera del 20 novembre 2011 -. È possibile che questo comporti l'introduzione di un'imposta simile all'Ici, da noi già prevista con il federalismo, ma completamente diversa rispetto alla precedente impostazione già nella nostra riforma. Dunque una continuità di linea con il nostro governo, con un probabile anticipo dei tempi rispetto al 2014 che noi avevamo previsto”. Forse aveva previsto anche che l'Imu gli sarebbe servita per andare a pesca di voti e di favori.


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