di Fabrizio Casari

Chi pensava che il PD non era riuscito a vincere le elezioni per pochi voti e per colpa di una legge elettorale assurda, da oggi può consolarsi. Il PD non riesce ad avere la maggioranza degli aventi diritto al voto nemmeno all’interno dei suoi organismi dirigenti, così da non riuscire a cambiare uno Statuto che ormai sembra non piacere più a nessuno.

Davvero triste assistere alla lenta e penosa agonia di un partito che ha nella sua storia lontana il DNA di un modello politico ed organizzativo straordinario e che oggi non riesce nemmeno a convocare la maggior parte del suo gruppo dirigente. Che senso ha scannarsi se non si riesce nemmeno a parlarsi?

Lo scontro interno tra le correnti fatte e quelle in via di formazione in vista del Congresso, ha ormai letteralmente bloccato ogni pur timida capacità di presentarsi con una proposta politica agli elettori e persino ai suoi stessi iscritti e, proprio nel momento nel quale la destra si trova al bivio tra la sua rifondazione e la sua scomparsa, riesce a dare il peggio della sua storia, offrendo al fotofinish del berlusconismo una ciambella di salvataggio.

E’ sempre buona norma non ironizzare e non banalizzare i conflitti politici interni ai partiti, a condizione però che siano il risultato di lacerazioni ideali, scelte programmatiche, ipotesi politiche diverse. Quanto avviene all’interno del Partito Democratico, invece, con tutto questo non ha niente a che vedere. Trattasi esclusivamente di scontro di potere, con un giovanotto che non dice niente ma sa dirlo bene, ansioso di salire sul podio del partito, del paese e della storia;  contro di lui un gruppo dirigente che non pensa ma parla, da lui destinato alla rottamazione e che non ci sta ad abbandonare il campo.

Non c’è nessuna significativa divaricazione politica: l’idea che Renzi ha della sinistra italiana diverge solo per alcuni aspetti di dettaglio da quella dei vari Violante, D’Alema, Veltroni ed ex associati. La differenza - quando c’è - attiene solo ad una impostazione più o meno laica del costume, più liberale o più cattolico-papalina dell’impianto giuridico che determina i diritti individuali. In alcuni casi possono apparire sulla scena reminescenze di teorie socialdemocratiche, ma sono mal comprese e peggio recitate.

Tutti costoro ritengono inutile, superata nella sostanza, l’idea di una sinistra come motore della trasformazione sociale, politica e culturale. Chiusi nel baule prima i principi della rivoluzione bolscevica, poi anche quelli della Rivoluzione francese, quindi per inerzia anche quelli della socialdemocrazia europea, tutti ritengono che la supremazia del mercato sull’organizzazione socioeconomica del paese non sia discutibile, tutt’al più emendabile.

E abbandonate anche le tesi europeiste del Manifesto di Ventotene, ritengono altresì che il disegno europeo non debba essere un progetto unitario ed inclusivo su base continentale, alternativo all’unipolarismo statunitense, bensì la fine del modello renano e l’applicazione di un modello economico dogmatico e sconfitto dalla storia recente. Nuotando a favor di corrente, ripropongono un disegno monetarista indigeribile e fallimentare che resti comunque saldamente in mano delle lobbies finanziarie internazionali.

Risale alla Bolognina l’ultimo - pur se sbagliato  - tentativo di analisi politica profonda dei mutamenti storici, sociali e politici in forza dei quali un partito di governo dovrebbe aggiornare proposte e linea politica. Dal 1991, con lo scioglimento del PCI e la nascita del PDS in quel di Rimini, il maggior partito della sinistra italiana non ha mai prodotto un’analisi approfondita sia dei mali della società italiana che delle contraddizioni stridenti del modello di governance internazionale affidata agli Usa. Si è evitato anche un ragionamento serio sull’ingovernabilità delle contraddizioni profonde insite ed esplicite del modello finanziario imperante, che distrugge il lavoro e riduce al minimo gli ammortizzatori sociali, un tempo cerniera di riequilibrio di fronte alle sperequazioni che pure un modello economico inclusivo inevitabilmente produceva.

Il che ha permesso e permette la coesistenza nello stesso conglomerato di tutto e il contrario di tutto, di un arcobaleno di storie, posizioni politiche ed identità ideologiche che, come una maionese impazzita, nello stare insieme in funzione di un progetto esclusivamente governista hanno prodotto un partito privo di senso, anche di quello del ridicolo.

Di fronte all’assoluta incapacità di osare pensare e proporre, di rileggere in controluce la società italiana, il PD si candida ormai solo ad amministrare la cosa pubblica con persone diverse, non con idee diverse. Non ha nulla da obiettare sulle ricette amare e fallimentari intraprese dai governi Monti e Letta, rispettivamente sostenuti e partecipati, e limita a qualche esternazione di Fassina le ipotetiche misure diverse delle quali si farebbe portatore.

Il che non toglie che la vittoria di Renzi archivierebbe per sempre quanto resta dell’identità di sinistra ospite del PD, ma si tratterebbe solo della formalizzazione di un progetto di nuovo partito centrista a vocazione progressista come è già oggi. Dunque nessuna particolare novità, semmai solo maggiore efficienza nel comunicare.

Forse proprio perché cresciuto all’ombra della berlusconizzazione della società italiana, il PD sembra averne subito il contagio nell’idea della funzione storica di un partito. Mentre l’Italia precipita verso il basso, mentre il lavoro muore, il welfare scompare, la stessa idea di paese crolla, così come la destra si è asserragliata nel castello a difesa delle aziende del suo capo, il PD non trova di meglio che discutere da sei mesi delle postille del suo statuto, del nominalismo ipocrita delle sue cariche, delle rese dei conti interni e dei suoi veleni di palazzo.

Incapace di un colpo di reni in avanti, non in grado di ritornare a parlare al paese e ai suoi elettori, ha nelle sue misere vicende interne l’unico obiettivo della sua azione politica quotidiana.

Ma se la disputa congressuale sarà anche dirimente per i ruoli e gli stipendi dei suoi protagonisti, all’Italia questo PD non serve più. E’ persino dannoso oltre che inutile, perché dona di riflesso alla destra, magari involontario, una luce che altrimenti non avrebbe. Porta infatti al voto milioni di elettori di destra più spaventati per una eventuale vittoria del PD che convinti dalla bontà del progetto berlusconiano.

E’ arrivato quindi il momento di staccare la spina. Quando un partito è diviso in correnti di potere prive di contenuto, è ora di prendere atto di un fallimento politico. Il Partito Democratico, semplicemente, non c’è più.

Per quanto con dolore, dovrebbero prenderne atto militanti ed elettori visto che i dirigenti, abbarbicati al potere e al denaro, alla fama e ai privilegi che ne caratterizzano lo stile di vita, si guardano bene dall’ammettere il loro fallimento.

E di fronte alla fine di Berlusconi, alla crisi di una destra che ha tutte le caratteristiche per divenire terminale, il PD - che negli ultimi venti anni altro non è stato se non una opposizione (blanda) al berlusconismo, comunque un ostacolo per il tentativo di trasformare il paese in una holding della famiglia dei rifatti e dei misfatti, è ora divenuto un elemento inutile nel panorama politico italiano, persino dannoso sotto certi aspetti.

E’ dannoso anche perché drena le residue, romantiche illusioni di chi da una vita intera in quella storia, nonostante tutte le inversioni a 360 gradi succedutesi, in qualche modo si è riconosciuto, convinto che, in fondo, l’identità della sinistra non poteva essere scomparsa del tutto.

Il panorama politico della sinistra è oggi rappresentato da SEL e dal Movimento 5 Stelle, nonostante la prima sia decisamente al di sotto delle necessità e quest’ultimo rifiuti di essere catalogato a sinistra, benché ne occupi lo spazio. Ma almeno il M5S è vivo: non è all’altezza di quello che servirebbe, ma è vivo.

E’ nato proprio grazie ad una sinistra sterile, non in grado di assolvere il compito storico di cui ci sarebbe così tremendamente bisogno, scomparsa sotto i piedi di chi, ossessionato dal suo ego celebrato nei salotti e privo di senso della storia, ha deciso di schiacciarla sotto i suoi piedi nel bel mezzo dell’indifferenza generale.

Quello che abbiamo davanti non è un gran bel panorama e la prossima volta, per decidere chi votare, ci toccherà dotarci di robuste lenti a specchio, che almeno ci obblighino ad una reazione, rimandandoci addosso l’immagine della nostra impotenza.


di Silvia Mari

L’elezione di Papa Bergoglio rappresenta senza dubbio la quintessenza di una spinta spirituale che ha permesso ad una Chiesa travolta dagli scandali di risollevarsi. Un sonoro schiaffo per le Istituzioni secolari che, al cospetto di un potere per principio conservatore e aldilà della storia, una rivoluzione tanto profonda non osano nemmeno sognarla. Francesco è un papa di rottura. Di rottura nelle pagine della storia perché è papa insieme ad un altro papa, Benedetto XVI.

Di rottura nei simboli, per la sua storia di vocazione e per il Sud del mondo da cui proviene. Rivoluzione per il suo linguaggio: semplice e senza orpelli come le sue visite ufficiali, diretto e “scandaloso”, politico ma non secondo lo stile Wojtyla, il cui impegno era una non dichiarata militanza volta a scardinare il comunismo.

La Repubblica di ieri apriva con la lunga lettera in cui Papa Francesco rispondeva ad Eugenio Scalfari che aveva scritto interrogandosi sulla posizione della Chiesa verso i non credenti, sulla figura del Gesù storico, sul significato del peccato. Dubbi di fede che incontrano ansia di ricerca e forse di consolazione umanissima e nello stesso tempo esigente.

Il Papa ha risposto con una lettera aperta, che arriva al cuore delle questioni. Non ha il ritmo di un documento papale classico, non analizza in termini squisitamente teoretici i dubbi, non ha la solennità dell’Enciclica. E’ la lettera di un uomo che parte dal suo incontro privato con Gesù, che ancora la sua vocazione alla famiglia della Chiesa Cattolica e che riconosce il primato della coscienza. Primato che riguarda tutti: credenti e agnostici. Dio perdona chi segue la propria coscienza, afferma Francesco, chiudendo così ogni spiraglio per chi ritiene che questa sia solo una e nessun’altra.

E’ da qui che parte la possibilità concreta di un tratto di strada comune. Anche per questo Papa Francesco è una novità assoluta. E’ dalle pagine di un quotidiano che annuncia l’urgenza di tornare a suggellare, sul piano del ragionamento e non solo del fare, l’alleanza anche con chi non crede. Ribadisce il legame profondo con il popolo di Israele e il primato dell’arbitrio, anche quando porta al male assoluto come è stato nella tragedia dell’olocausto. E’ li che Dio “salva” la sua bontà e il suo potere ab-solutus.

In prima fila nel denunciare gli scopi immondi della nuova possibile guerra in Medio Oriente, schiera il Vaticano sul fronte pacifista senza mezzi termini, senza l’ambiguità ecumenica vista in precedenti occasioni. Alza la voce, che arriva chiara e forte alle orecchie degli Stranamore vestiti da giustizieri, indicando responsabilità e follia dell’aggressione occidentale alla Siria.

Ma non punta il dito solo sui governi altrui: allo stesso Vaticano ricorda, con tono severo e senza esitazioni, che non esiste il mestiere del religioso o della religiosa, ma esiste la missione. E propone un organo di vigilanza sulle finanze dello Stato vaticano.

Ed infine è il papa che torna a Lampedusa su un’utilitaria qualunque e che chiede ai conventi vuoti di diventare luoghi di accoglienza per i rifugiati e non musei della solitudine e dei patrimoni. Sarà lui a decidere di far pagare l’IMU a quei beni del Vaticano che hanno destinazione d’uso commerciale? Più probabile questo di tanto altro.

Certo è che una rivoluzione copernicana è già iniziata nel mondo della Chiesa e a guardarla bene, proprio attraverso la semplicità attraverso cui Papa Francesco la comunica al mondo, basta pensare alla vicenda del rischio di guerra in Siria, non c’è il trionfo di una scoperta, un salto verso il futuro mascherato di chissà quale progressismo, ma un coraggioso ritorno alla nascita, al Vangelo. L’unico luogo in cui è scritto cosa significhi essere cristiani e cattolici e come si rischi, nessuno escluso, di non esserlo più o di non esserlo mai stati sul serio.

di Carlo Musilli

Sembrano dei soldati che, sul campo di battaglia, pretendono di minacciare il nemico puntandogli in faccia una pistola ad acqua. Mano a mano che si avvicina la data di scadenza del loro generale (il 9 settembre inizierà a lavorare la Giunta per le elezioni del Senato, chiamata a decidere sulla decadenza di Silvio Berlusconi), colonnelli e luogotenenti del Pdl fanno la voce sempre più grossa. All'inizio erano incerti, ora invece ostentano aggressività: se il Pd voterà per l'espulsione del Cavaliere dal Parlamento, il governo Letta cadrà. Sì, ma... Poi?

Al di là del mero ricatto - ultima freccia rimasta nella faretra -, non si vede proprio quale vantaggio possa trarre la destra dal ribaltone. I pericoli cui si esporrebbe, invece, sono chiarissimi. Insomma, se fosse una partita a poker, sarebbe un bluff facile da leggere. Tanto è vero che nemmeno il Partito democratico, stavolta, sembra esserci cascato.

Passiamo in rassegna qualche indizio che suggerisce la pista della simulazione. Innanzitutto, il piano meramente legislativo. Se l'Esecutivo cadesse a breve, la tanto vituperata Imu tornerebbe a infestare i sogni di tutti. E' vero, in qualche modo tornerà comunque con la "service tax": il problema è che resusciterebbe il vecchio acronimo, perché la copertura finanziaria necessaria ad abolire la seconda rata dovrà essere indicata con la legge di stabilità, in agenda per metà ottobre. E poi la famosa "service tax" è ancora tutta da concepire.

Ora, è verosimile che il Pdl si renda responsabile di una simile marcia indietro? Dopo l'infinita campagna mediatica anti-Imu e gli squilli di tromba seguiti alla sua abolizione, davvero la destra vuole reintrodurla, facendo scontare ai contribuenti-elettori le grane giudiziarie di Berlusconi? Sarebbe davvero complesso indorare una pillola del genere.

Passiamo ora alle ragioni personali di Berlusconi. Ciò che più interessa al Cavaliere è rimanere in Senato il più a lungo possibile, in modo da affrontare gli altri processi in cui è coinvolto forte dell'immunità parlamentare. E' del tutto evidente che, una volta sciolte le Camere, decadrebbe immediatamente dalla carica, come tutti i membri del Parlamento. Ma a differenza dei colleghi, lui, in forza della legge Severino - approvata l'anno scorso con i voti decisivi del Pdl - non potrebbe ricandidarsi. Un bell'autogol, no?

Com'è ovvio, poi, la decisione di sciogliere le Camere non spetta ai pidiellini, ma al Capo dello Stato. E al momento della rielezione Giorgio Napolitano ha lasciato chiaramente intendere che farà di tutto per non riportare gli italiani al voto prima della riforma elettorale. Ha perfino messo sul tavolo la minaccia delle dimissioni.

Se quindi fosse impossibile far nascere un Letta-bis con i voti dei transfughi pidiellini e grillini - opzione remota, numeri alla mano - il Presidente della Repubblica potrebbe mantenere la promessa e abbandonare il Colle. A quel punto la priorità sarebbe eleggere il suo successore e la destra non avrebbe i numeri per mercanteggiare: un eventuale (e probabile) asse Pd-M5S porterebbe certamente al Quirinale un nemico giurato del Cavaliere, che si tratti di Stefano Rodotà o di Romano Prodi.

A conti fatti, dunque, la prospettiva migliore per Berlusconi è che il Pdl rimanga al governo. La questione della "agibilità politica" è evidentemente pretestuosa per un partito tenuto insieme solo e soltanto dalla figura del capo carismatico. L'attività pseudo-politica dei pidiellini si è sempre risolta nell'obbedire al padrone per tutelare i suoi interessi, in primo luogo finanziari. Non conoscendo altri orizzonti, proseguiranno certamente su questa strada, anche se gli ordini dovessero arrivare da un extraparlamentare che sta scontando il proprio debito con la giustizia italiana.

Berlusconi rimarrà quindi a capo della destra, qualsiasi cosa accada. Ma se davvero vuole continuare ad esercitare un peso politico di qualche rilievo, gli conviene che il governo Letta sopravviva. Altrimenti rischia di affrontare le prossime sentenze come sta facendo oggi con il voto della Giunta. Armato solo di pistola ad acqua. 

di Carlo Musilli

Caro contribuente, forse non lo sapevi, ma la tua casa è un servizio comunale. Un “service”, in English. Però non farti illusioni: rimane una proprietà privata su cui continuerai a pagare il mutuo o l’affitto, oltre alle tasse. Solo il vituperato acronimo “Imu” andava tolto di mezzo. E, dopo il bianchetto, una bella freccia ha spostato l’intero pacchetto sotto un’altra voce. Una nuova creatura un po’ confusa, eterogenea, dal nome inquietante: in prima battuta l'avevano chiamata Taser, poi (santo Google) si sono accorti dell'omonimia con le pistole elettriche usate per stordire i manigoldi e hanno fatto marcia indietro.

Acronimi imbarazzanti a parte, si tratta della “service tax” (sempre in English) che nascerà l’anno prossimo e comprenderà una serie di prelievi per vari “servizi” comunali: dalla Tares sui rifiuti alla tanto odiata imposta sulla casa (anche la prima).

Vari colonnelli delle larghe intese si sono sperticati in manifestazioni di giubilo per l’abolizione dell'Imu - cancellata del tutto per il 2013 su abitazione principale, terreni e fabbricati agricoli -, eppure la "tax" partorita dal governo è ancora un oggetto del mistero per molti, troppi aspetti. A cominciare dalle famigerate coperture: per pagare la cancellazione della prima rata i soldi ci sono, ma per il saldo di dicembre ancora no.

Le fonti di finanziamento saranno messe a punto solo nelle prossime settimane e otterranno il via libera presumibilmente a metà ottobre, con la legge di stabilità. Il solito rinvio non ha mancato d’insospettire Bruxelles, al punto che il commissario agli Affari economici Olli Rehn si è affrettato a tirarci le orecchie: “I miei uffici controlleranno il decreto, l’Italia garantisca la copertura”. Con altrettanta fretta il premier Enrico Letta ha rassicurato l'Europa: “L’Italia rispetterà il limite del rapporto deficit-Pil al 3%”.

Dal governo sono arrivate anche altre due promesse. Primo: per finanziare l’intervento sull’Imu non saranno alzate altre tasse. Anzi, si cercherà perfino di evitare il rincaro automatico della terza aliquota Iva, che senza ulteriori interventi salirà dal 21 al 22% a partire dal primo ottobre. La squadra è talmente compatta su questo punto che Stefano Fassina si è lasciato andare al seguente vaticinio: il rincaro Iva è ormai inevitabile - ha scritto sull'Huffington Post il viceministro dell'Economia -, viste le risorse sottratte all’azione del governo dall’operazione Imu.

L'ultima promessa riguarda i soldi che dovremo scucire l'anno prossimo: la misteriosa "tax" sarà meno cara della somma di Tares e Imu. Ora, a quanto si è capito, il nuovo prelievo potrà tener conto della metratura delle abitazioni, e questo è l'aspetto più positivo, perché dovrebbe aumentare la progressività dell'imposta.

Tuttavia non significa affatto che alla fine il conto sarà meno caro, almeno non per tutti. Secondo l'ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco (Pd), ad esempio, "pagheranno di più gli affittuari (ceti popolari e giovani)" e "alla fine l'onere differenziale si scaricherà sui ceti medi". In ogni caso, si farà sempre in tempo incolpare i sindaci, visto che la nuova tassa sarà di loro competenza.

In uno slancio che ricorda quello del bambino nella favola del “Re nudo”, ieri Fassina ha ricordato anche un’ovvietà che in queste ore tutti fingono d’ignorare: “E’ stata abolita l'Imu, non la tassazione sulla prima casa”. Dopo tutto quello che abbiamo detto sembra una precisazione lapalissiana, ma a leggere le dichiarazioni trionfanti del Pdl si cambia idea.

"Una promessa realizzata - ha scritto Silvio Berlusconi in una nota -. Un punto cardinale pratico e simbolico del programma che abbiamo voluto come scelta qualificante negli accordi che hanno portato alla formazione del governo di larghe intese".

Ancora più ispirato il vicepremier Angelino Alfano: "I tg e i giornali porteranno nelle case degli italiani una bellissima notizia: dovevano pagare una tassa e non la pagheranno. E' una misura fatta nel modo giusto, è tax free". Ma è anche "still a tax", visto che alla fine la tassa rimane...

Al Pdl, evidentemente, interessava soltanto cancellare l'Imu in quanto tale. Farla rientrare dalla finestra sotto mentite spoglie non è un problema: avevamo promesso di abolire l'Imu e lo abbiamo fatto, che volete ancora?

Su questo simpatico gioco delle tre carte si misura tutta l'importanza del decreto varato mercoledì dal Consiglio dei ministri. Se in termini economici il suo contenuto è discutibile e incerto, sotto l'aspetto politico è l'esito migliore possibile per entrambi i litiganti: i pidiellini cantano vittoria davanti agli elettori, mentre il Pd riesce nell’intento di non fornire agli alleati-avversari un buon pretesto per incrinare la maggioranza e allo stesso tempo mette in cantiere una tassa-Frankenstein apparentemente sostenibile. Rimane da capire se all'inizio l'abbiano chiamata come una pistola per darci un consiglio.









di Fabrizio Casari

E’ un ricatto. Non ci sono motivi politico-lessicali per definire in maniera diversa la richiesta berlusconiana al PD di rinviare - magari astenendosi dal voto in giunta - la procedura di decadimento dall’incarico di senatore del condannato Silvio Berlusconi. Preso atto dell’impraticabilità della grazia presidenziale, dal momento che pendono sul cavaliere di Arcore altri cinque processi, la guerriglia che l’armata Brancaleone sferra contro il Paese si è concentrata sull’assalto all’unico polo strategico sul quale può avere ancora parola determinante: la sorte del governo.

Dunque, come Don Vito Corleone, Berlusconi propone un'offerta che non si può rifiutare e “suggerisce” al centrosinistra di sottrarsi al voto favorevole in giunta e permettere così al governo di sopravvivere, anche se al prezzo di uno strappo costituzionale tra potere legislativo e giudiziario che lacererebbe il già fragilissimo tessuto costituzionale italiano.

Tralasciando gli house organ famigli, impegnati a definire la riunione di giunta come fosse linizio di Armageddon, gli italiani che hanno sempre votato a destra, stando ai sondaggi, rimarrebbero convinti che la presenza di Berlusconi alla guida del PDL vada garantita.

Qui non c’è solo quella idiosincrasìa tutta italiana della corsa a salire sul carro del vincitore, quella dimensione stracciona del sistema valoriale condiviso che vede nella italica furbizia un modello di vita e nell’aggiramento delle norme il solo modo di sentirsi liberi. C’è proprio il convincimento che la caduta del capo sia l’inizio della fine di una destra che solo sul fatto che egli lo sia trova un minimo di accordo tra le bande che la compongono.

Dal punto di vista politico appare assurda la richiesta di approfondimento in sede di giunta del Decreto Severino, in forza del quale il capo del centrodestra non può più esercitare il ruolo di parlamentare; un simile iter consentirebbe né più né meno stabilire che l’erogazione delle pene previste dalle violazioni dei codici non sono più compito della magistratura ma, nel caso di un parlamentare, diventano materia a discrezione dei colleghi.

Sarebbe un vero e proprio golpe istituzionale che azzererebbe la divisione dei poteri prevista dalla costituzione e sancirebbe, sul piano dell’ordinamento politico, la similitudine tra le istituzioni della repubblica e la fattoria degli animali di Orwell, dove, com’è noto, tutti gli animali sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri.

La scalcinata destra italiana, gigantesco prodotto di una commistione affaristica tra eletti e proprietario, si misura con il senso stesso della sua esistenza, quello cioè di rappresentare un aggregato a difesa degli interessi privati di Silvio Berlusconi. Poco si capisce come mai alcune anime belle del centrosinistra si stupiscano di ciò, indicando la strada della rifondazione del PDL senza il cavaliere.

Sarebbe stato possibile per qualunque partito della storia della Repubblica, ma non per il PDL, giacché esso non rappresenta - né mai ha rappresentato - un progetto politico e non ha mai prodotto una classe dirigente alla quale chiedere d’interpretarlo.

La destra berlusconiana è stata ed è tuttora un gigantesco collegio di difesa delle avventure finanziarie del cavaliere, uno scudo per la sua immunità e la benzina per i suoi motori industrili e finanziari, strumento che, in parallelo con la politica, ha permesso l'espandersi dell'impero.

Mettere in discussione la Legge Severino, da loro convintamente votata, argomentando l’illegittimità della retroattività nell’applicazione delle norme, non deve stupire più di tanto. Quello della retroattività è certamente un elemento che presenta dubbi di costituzionalità, ma fintanto che non è toccato a Berlusconi la destra non l’ha - guarda caso - mai posto all’attenzione, men che mai ha proposto una legge che la abolisse. Ora però, la legge di colpo non va più bene. E dov’è la novità?

Allo stesso modo hanno sferrato attacchi durissimi contro il rigore europeo dopo aver loro firmato il fiscal compact e l’impegno di pareggio dei conti pubblici. Non serve, dunque, cercare coerenza; non c’è mai stata, mai ci sarà, dal momento che l’idea che il padrone della destra ha è che tutto si possa dire e smentire, fare e disfare, se funzionale al processo di consolidamento del suo potere politico e finanziario.

Nel merito, infatti, la decadenza da senatore e una prossima non candidabilità di Berlusconi per effetto della sentenza definitiva di condanna, non impedirebbe al cavaliere di dirigere comunque, pur restando fuori dalle istituzioni, il suo balocco. Il problema è che in vista dei prossimi processi Berlusconi ha disperato bisogno dell’immunità parlamentare e dunque non può permettersi di non usufruirne; a questo si aggiunge poi la consapevolezza che lui per primo ha di quale sia il livello qualitativo del suo gruppo dirigente.

Berlusconi è ben conscio di come la messa in sicurezza delle sue aziende, che devono essere tenute al riparo dalle inchieste della magistratura sulle discutibili pratiche con le quali sono nate e cresciute, non può essere affidata a pitonesse, nani e ballerine, cioè quella scombinata combriccola che compone il Circo Barnum che ci ostiniamo a chiamare PDL.

Il PD, al momento, reitera quotidianamente l’indisponibilità ad accettare il baratto tra governo e legalità, ma per esperienza, tra il prima e il poi nel PD c’è sempre qualcosa che s’incunea. Che il governo Letta sopravviva o meno è cosa relativa rispetto al rispetto, una volta tanto, della legge e delle norme. Berlusconi sa però che sulla tenuta della linea intransigente si gioca anche la partita per il Congresso e che non certo tutto il PD ansima per mantenere Letta saldo a Palazzo Chigi.

Per questo tenterà ogni mossa utile a far leva sul “senso di responsabilità” dei soliti noti. Ma è ovvio che il PD debba cercare ovunque al Senato i voti utili a sostituire quelli del PDL. Se li troverà, sia tra i MS5, sia tra eventuali franchi tiratori del PDL, tanto meglio per l’Esecutivo.

La speranza è che il PD non accetti il ricatto e che Grillo sia pronto ad offrire una soluzione politica funzionale al raggiungimento di almeno tre obiettivi: espellere Berlusconi dal consesso parlamentare italiano, trovare un accordo sulla legge elettorale, tornare al voto.

Obbiettivi salutari per il paese, ai quali opporre furbe tattiche speculative comporterebbe un danno irreparabile per il movimento e per l’Italia stessa. Serve, caro Beppe, una prova di elasticità e pragmatismo politico, una dimostrazione concreta dell’arte della semina prima e del raccolto poi. Mai come ora il bene di tutti s’intreccia così perfettamente con quello di ognuno.





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