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di Carlo Musilli
"Noi ci stacchiamo e facciamo dei gruppi autonomi, poi però andiamo insieme alle elezioni". L'idea circolava da tempo nella mente del vicepremier Angelino Alfano ed è riecheggiata dozzine di volte nei vertici a ripetizione di Palazzo Grazioli. Da ieri, però, è realtà. Al Convegno nazionale del Pdl, Silvio Berlusconi ha sancito la rinascita di Forza Italia. L'ex Delfino, invece, ha annunciato la costituzione del "Nuovo centrodestra".
La separazione ha come prima conseguenza quella di blindare l'Esecutivo di Enrico Letta. I governativi di Alfano contano 37 teste al Senato: quanto basta per garantire la tenuta ad libitum dell'Esecutivo (il problema non si pone alla Camera, dove il Pd ha da solo la maggioranza assoluta grazie all'assurdità del Porcellum). La decadenza del Cavaliere, dunque, non farà alcuna differenza.
A ben vedere, il divorzio di ieri è stato l'esito inevitabile d'interessi contrapposti. Il vicepremier aveva avanzato due richieste per entrare in Forza Italia: primarie per l'assegnazione di tutte le cariche (fatta salva la leadership divina di Berlusconi) e soprattutto fedeltà al governo almeno fino al 2015. Condizioni inaccettabili per il Cavaliere, abituato da sempre a disporre del partito come di una proprietà privata e deciso al ribaltone dopo l'espulsione da Palazzo Madama.
Ma chi ha vinto, alla fin della tenzone? I maggiori benefici spettano certamente ad Alfano, che conserva la poltrona di vicepremier e di ministro degli Interni, rilanciandosi come leader di una formazione governativa che non deve più trattare con gli odiati falchi. Gli alfaniani, invece, non solo si tengono ben stretta la poltrona attuale, ma hanno anche una speranza in più per la prossima legislatura: senza la scissione, quasi certamente Verdini e chi per lui avrebbero fatto di tutto per evitare di ricandidarli.
Dal punto di vista di Berlusconi, invece, quella registrata ieri è senz'altro una sconfitta. Il Capo assoluto sta diventando una figura sempre più marginale nel panorama politico: fra poche settimane non solo perderà lo status di senatore, ma si ritroverà anche ad essere il leader morale e finanziario di un partito d'opposizione. A conti fatti, la separazione è stata la prima tappa ufficiale di un percorso avviato ormai da tempo, che segna la progressiva riduzione della quota di potere nelle mani del Cavaliere. Una discesa lenta ma continua che l'ex premier ha poche chance di arrestare, considerando che nei prossimi mesi dovrà affrontare tutti i processi che lo riguardano senza poter contare sull'immunità parlamentare e senza il diritto di ricandidarsi.
Tutto questo però non significa che da oggi si apra una fase di rinnovamento nel centrodestra italiano. I cambiamenti in atto rispondono solamente a logiche di convenienza interna e non hanno nulla a che vedere con la politica intesa come applicazione d'idee al servizio del Paese.
Quando si tornerà alle urne - Berlusconi lo ha lasciato intendere chiaramente nel suo lungo discorso di ieri - le due metà appena divise correranno insieme, consapevoli di non poter fare altrimenti. Qualsiasi cosa accada, il Cavaliere rimane l'unico front-man della destra: l'unico in grado di sedurre gli italiani con le solite favole fiscali, l'unico ad avere le risorse finanziarie per garantire la fedeltà di un'accolita che da anni lavora soltanto per tutelare gli interessi del Capo.
Fino ad oggi Alfano e i suoi hanno fatto parte della truppa ed è inconcepibile che oggi possano proporre un'alternativa minimamente credibile. Come gli altri, non hanno mai avuto un progetto politico, e immaginare che ora possano crearne uno ex novo è semplicemente utopico. Davanti a loro, tuttavia, sia apre una nuova possibilità: quella di raccattare per strada ciò che resta della moribonda Scelta civica (in primo luogo il ministro Mauro) e degli altri democristiani in cerca d'autore.
Il teatrino che ci aspetta è proprio questo: la proposta (ingannevole) di un nuovo polo destrorso più rispettabile e "moderato" di quello berlusconiano, capace di ottenere una minima considerazione nel Ppe. Un'operazione di facciata che - in linea teorica - potrebbe perfino ampliare il bacino elettorale del centrodestra, accalappiando i destrofili disgustati dal costume di Berlusconi e dei vari fantocci in stile Santanchè.
E' solo un gioco delle parti che non sfiora nemmeno da lontano l'interesse del Paese. Il risultato, per giunta, sarà del tutto paradossale, o forse tragicomico. Da oggi ci ritroviamo con due partiti dominanti nella destra italiana: uno al governo insieme al centrosinistra, uno all'opposizione. Uno fa le leggi, uno le combatte. Uno è europeista, l'altro è antieuropeista. Uno frequenta Palazzo Chigi, l'altro Palazzo Grazioli. Ma quando si tratterà di riandare al voto, miracolosamente, torneranno a sommare i propri voti. E chissà quale faccia indosseranno per l'occasione.
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di Carlo Musilli
Ci sono due segni rossi sul calendario di Angelino Alfano. Le date precise ancora non si conoscono, ma i periodi sì: la fine di novembre, quando l’Aula del Senato si esprimerà sulla decadenza di Silvio Berlusconi, e l’inizio di dicembre (probabilmente l’8, stesso giorno delle primarie Pd), quando il Consiglio nazionale del suo partito si riunirà per ridare ufficialmente vita a Forza Italia.
Sono scadenze decisive per le colombe pidielline capitanate dal vicepremier, che sembra voler aspettare le mosse altrui prima di scegliere una strada chiara per il futuro del centrodestra. Difficile spiegare altrimenti la clamorosa retromarcia di questa settimana: “I sottoscritti consiglieri nazionali si riconoscono nella leadership di Silvio Berlusconi, ovviamente a cominciare da me - ha detto Alfano -. Questo sarebbe il primo rigo di ogni documento che io dovessi sottoscrivere”.
Parole volte a prendere tempo, più che a sancire una riconciliazione minimamente credibile con il Cavaliere e l’entourage dei falchi. Basti pensare che, appena venerdì scorso - dopo l’azzeramento delle cariche annunciato dal Capo -, Alfano diceva di prepararsi a una scissione “che è ormai nei fatti”, ventilando l’ipotesi di una separazione incruenta: le colombe nel Pdl, i falchi in Forza Italia. Sigle diverse, ma pronte ad allearsi quando si tornerà a parlare di elezioni. Per aderire in blocco alla riedizione del vecchio partito, invece, l'ex delfino poneva una serie di condizioni: per sé chiedeva la riconferma a segretario con pieni poteri (e su questo pareva che Berlusconi fosse disponibile), mentre per il Governo chiedeva garanzia di stabilità almeno fino al 2015.
Proprio questo è il punto dolente. Ieri Berlusconi ha ribadito che il voto sulla sua decadenza da senatore è una questione “non aggirabile” se si vuole mantenere in piedi l’Esecutivo. L’espressione è volutamente ambigua: il Cavaliere sa che la sua espulsione dal Parlamento è quasi certa, ma teme che se provasse ad aprire una crisi si ritroverebbe nello stesso vicolo cieco del 2 ottobre. All’epoca fu costretto da Alfano a votare la fiducia, esibendosi in un’umiliante piroetta dell’ultimo minuto.
Se i rapporti di forza all’interno del partito non cambieranno in queste settimane, Berlusconi non avrà i numeri per far cadere Letta e un eventuale strappo finale con la componente filogovernativa del suo partito sarebbe un clamoroso autogol. Il Governo andrebbe avanti e il Cavaliere otterrebbe il solo risultato di ritrovarsi in una posizione politica ancora più marginale. Non solo fuori dal Parlamento, ma anche alla guida di un Partito d’opposizione.
D'altra parte, che le colombe abbiano la forza di realizzare uno scenario del genere è tutto da dimostrare. Gli ostacoli sono tanti, probabilmente troppi. Per dirne una, c’è da considerare il quadro finanziario: rinunciare alla generosità delle casse berlusconiane non è cosa da tutti i giorni. E’ vero, esistono fonti di finanziamento alternative, ma sono certamente meno sicure e meno munifiche, senza contare che l'organizzazione richiede tempo. Per questo Alfano cerca in ogni modo di procrastinare la resa dei conti finale.
Secondo gli adepti del Cavaliere, il segretario sconfessato vuole arrivare al Consiglio nazionale del partito con Berlusconi già decaduto. A quel punto la conta dei voti - da effettuare su una compagine ben più ampia rispetto a quella dei soli parlamentari - potrebbe dargli definitivamente ragione (le modifiche statutarie richiedono una maggioranza dei due terzi) e consegnargli le redini del partito, limitando per la prima volta in via ufficiale lo spazio di manovra del Capo.
Ecco per quale ragione Berlusconi cerca fino all’ultimo di non lasciare andare Alfano ed è arrivato ad offrirgli non solo la segreteria, ma anche la vicepresidenza di Forza Italia. Il Cavaliere chiede all’ex Delfino di rinunciare alla poltrona da vicepremier. Alfano, invece, vorrebbe che il suo mentore si rassegnasse alla decadenza senza mettere a rischio la tenuta del Governo. Le loro posizioni sono inconciliabili, ma entrambi sanno benissimo di avere bisogno l’uno dell’altro. Per questo, se alla fine si firmerà divorzio, sarà quasi certamente consensuale.
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di Carlo Musilli
Quando la strada finisce e davanti c'è il vuoto, le alternative sono tre: tirare fuori le ali e volare, fare un altro passo e cadere, oppure tornare indietro. Non è una scelta semplice quella che deve prendere Angelino Alfano. Lui lo sa e cerca di guadagnare tempo. Il conto alla rovescia però sta scadendo, perché Silvio Berlusconi ha deciso di accelerare il processo che porta alla rinascita di Forza Italia.
L'azzeramento delle cariche è già deciso: tutti i poteri della rediviva Fi si concentrano nelle mani del Cavaliere. Una mossa che soddisfa la corrente guidata da Raffaele Fitto, alfiere degli oppositori all'ascesa del vicepremier.
Ieri Alfano ha cercato fino all'ultimo di convincere Berlusconi a prodursi nell'ennesimo ripensamento. Dopo aver fallito, ha disertato la riunione dell'Ufficio di presidenza pidiellino, la stessa che per tutto il giorno aveva cercato di far cancellare, e si è riunito con i suoi per discutere le contromosse. Sembrerebbe un segnale di rottura, la definitiva scissione fra "governativi" e "lealisti", ma Alfano ha voluto interpretarla a suo modo: “Il mio contributo all'unità del nostro movimento politico, che mai ostacolerò per ragioni attinenti i miei ruoli personali – ha scritto –, è di non partecipare, come faranno altri, all'Ufficio di presidenza che deve proporre decisioni che il Consiglio nazionale dovrà assumere. Il tempo che ci separa dal Consiglio nazionale consentirà a Berlusconi di lavorare per ottenere l'unità”.
Insomma, la sua assenza alla riunione sarebbe stata un "contributo all'unità del partito". Sembra davvero un paradosso, ma a ben vedere le parole più significative della nota sono altre: è quel "come faranno altri" a dare la misura della spaccatura che divide i pidiellini. Alla riunione di ieri, ad esempio, non era presente nemmeno il capogruppo al Senato, Renato Schifani, anche lui impegnato a "lavorare per l’unità del partito". Stesso discorso per Giovanardi e Formigoni.
Divisi nei fatti, uniti a parole, tutti concordi nel tenere bassa la voce, almeno per il momento. L'atto finale dello spettacolo andrà inscena proprio in quel "Consiglio nazionale" evocato da Alfano, che potrebbe svolgersi l'8 dicembre (lo stesso giorno delle primarie del Pd). In quell'occasione il Pdl si riunirà in massa e si potrà fare la conta per stabilire il vincitore.
In verità la scissione sembra inevitabile, avendo Alfano detto e ripetuto che non intende far parte di una nuova formazione fatta di "estremisti" ostili al governo Letta. Ma dalla teoria alla pratica il passo non è breve. I "governativi" sono a un bivio decisivo. Dopo la ricostituzione di Forza Italia, potrebbero scegliere di formare gruppi parlamentari autonomi per dare stabilità all'Esecutivo e conservare la poltrona.
I numeri al Senato dovrebbero bastare (alla Camera non serve fare i conti: grazie al Porcellum il Pd ha già la maggioranza assoluta). A inizio ottobre, infatti, quando Berlusconi sembrava sul punto di votare contro la fiducia al Governo – proposito poi abortito con un ripensamento dell’ultimo minuto –, il Premier aveva chiarito che l’eventuale strappo del Cavaliere non avrebbe comunque portato alla caduta del Governo.
Tuttavia, se gli alfaniani decideranno di rompere, lo faranno nella consapevolezza che c’è una scadenza elettorale molto vicina, ovvero le europee, in cui dovranno dimostrare di avere non solo un’identità politica (finora non pervenuta), ma anche un dignitoso seguito popolare. Avranno la responsabilità di creare una destra capace di esistere e sopravvivere fuori dall'orbita berlusconiana: una destra davvero "moderata", in grado di proporsi come alternativa agli “estremisti”di Forza Italia e agli ex fascisti già confluiti in Fratelli d’Italia. Una destra degna di reclamare la propria appartenenza al Partito popolare europeo.
Le colombe pidielline hanno spalle abbastanza larghe per sostenere un peso del genere? Probabilmente no, e non è affatto detto che gli convenga. Oltre a tutte le difficoltà politiche, non va dimenticato il versante finanziario: comunque vada a finire, le chiavi della cassaforte resteranno in mano al Capo di sempre. Insomma, l’ombrello berlusconiano non sarà eterno, lo sanno tutti, ma abbandonarlo ora vorrebbe dire lanciarsi nel vuoto.
La scappatoia esiste: Alfano e i suoi potrebbero abbassare la testa, accettare l’azzeramento imposto dall’alto e continuare ad libitum lo scontro interno. Berlusconi gradirebbe questa prospettiva, e per convincere i "governativi" ha assicurato che Forza Italia continuerà a sostenere l'Esecutivo. D'altra parte, nemmeno i suoi margini di manovra sono ampi.
Il Cavaliere è stretto nella morsa dei guai giudiziari: da una parte la condanna definitiva per il caso Mediaset, l'interdizione biennale dai pubblici uffici, l'imminente decadenza dal Senato e la conseguente perdita dell'immunità parlamentare; dall'altra il rinvio a giudizio da parte della Procura di Napoli per il caso De Gregorio, che sostiene di essere stato corrotto con tre milioni di euro per passare dall'Idv al Pdl e far cadere così l'ultimo governo Prodi.
L'intero scenario compromette gravemente le prospettive politiche di Berlusconi. E non solo perché non potrà ricandidarsi. Allo stato attuale, molte domande restano senza risposta: se, dopo la decadenza del Cavaliere, i falchi riuscissero nell'impresa (improbabile) d'imporre il ritorno alle urne, a chi verrà affidato il compito di portare avanti la campagna elettorale? Chi sarà il candidato premier? Non certo Alfano, a meno di clamorose piroette dell'ultimo minuto.
Comunque vada a finire, una riconciliazione convincente del centrodestra non sembra praticabile. La parte governativa del Pdl cova un desidero di ribellione, ma per il momento non è in grado di fare il passo decisivo, né è sicura di volerlo. Berlusconi se n'è accorto, per questo ha deciso di sfilare all'ex delfino la poltrona di segretario. Comunque vada a finire, il Cavaliere conferma l'unico assioma della sua storia politica: chiunque lavori in Parlamento senza avere come unica stella polare gli interessi del Capo, è un nemico del partito. Perché il Capo è il partito, e il partito è il Capo.
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di Rosa Ana De Santis
Solo quest’anno sono 1.608 i bambini arrivati sull’isola, di questi 1.297 senza familiari. I più piccoli accompagnati dalle famiglie o dalle sole madri, molti gli adolescenti soli. Quasi 3.000 si trovano a Siracusa non in strutture adeguatamente attrezzate per l’accoglienza di questi casi. C’è Save The Children a monitorare tutte le fasi dell’accoglienza e a lanciare l’allarme del sovraffollamento e della penuria di misure specifiche per i bambini, specialmente per quelli sbarcati senza più nessuno.
La proposta di legge avanzata su questa materia, che prevede punti di accoglienza specifici per i bambini e la costituzione di un fondo nazionale ad hoc, di procedure di identificazione più puntuali per ora è ferma in Parlamento.
Sono moltissimi i giovanissimi che arrivano dalla Siria magari dopo esser stati in carcere, i più piccoli invece di solito sono eritrei e arrivano con le loro mamme. Più che orfani si tratti di figli che hanno deciso il viaggio della speranza proprio per aiutare i loro cari rimasti nel paese d’origine.
Quando arrivano nei centri per rifugiati o di accoglienza, molti rifiutano di essere identificati per proseguire il viaggio in altri paesi europei, molti altri vengono presi in carico, anche se non adottabili, in attesa di trovare una sistemazione o più spesso di finire invisibili e clandestini nel Paese. La verità è che quest’accoglienza disorganizzata e massiccia non consente di adottare misure selettive e dignitose per consentire a questi minori, che prima di tutti dovrebbero essere tutelati, di proseguire un percorso di inserimento adeguatamente assistito nel Paese di accoglienza, che sia l’Italia o altra meta europea.
Ad oggi possiamo dire che l’approdo dei bambini è stato gestito e affrontato in modo omogeneo a quelli degli adulti per mancanza di mezzi economici o più verosimilmente per l’assenza di una politica a monte che sapesse gestire l’odissea ininterrotta dei barconi non più come un’emergenza sporadica. Chissà se la task force del governo porterà in questo senza dei miglioramenti significativi.
Un passo fondamentale sarebbe proprio quello di individuare un percorso mirato per i minori, con un fondo proprio, degli operatori competenti e dei percorsi specifici di accoglienza.
Un bambino prima di tutti gli altri non può ritrovarsi in un centro di espulsione qualunque, somigliante ad un carcere e con condizioni igienico-sanitarie disperate e in un clima di detenzione. Non dovrebbe trovarvi posto nessuno, ma i bambini meno che mai.
Si potrebbe pensare a degli affidamenti temporanei presso le molte famiglie che fanno richiesta o all’inserimento presso case famiglia. Dall’Europa stanno arrivando altri due milioni di euro proprio per il piano Italia accoglienza, dopo averne ricevuti 200 negli ultimi due anni.
Forse, dato che siamo in linea con altri paesi europei e soffrendo di più solo gli sbarchi per le ovvie ragioni geografiche, sarebbe caso di controllare voce per voce la lista della spesa: le competenze, gli sprechi e le mafie di chi ha manovrato questi soldi della solidarietà, il business sporco dei centri di accoglienza temporanea, che offrono lager al prezzo per lo Stato di hotel a cinque stelle.
Sospinto e ingigantito dall’emergenza dei migranti, non è difficile intuire che il problema numero uno è ancora una volta al di qua di Lampedusa.
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di Carlo Musilli
La legge sarà pure uguale per tutti, ma l’autodifesa non lo è di sicuro. In Italia, un comune mortale che viene perseguito ha a disposizione tre gradi di giudizio per discolparsi. Un Silvio Berlusconi, invece, può moltiplicare quei gradi a suo piacimento, quantomeno negli occhi e nelle orecchie della gente comune. Sorvoliamo sulla telenovela in giunta al Senato e sui ricorsi vari ed eventuali alla Consulta, a Bruxelles, a Lussemburgo e a Paperopoli. Lasciamo stare le sedi del potere ufficiale e accendiamo la tv.
Da qualche tempo a questa parte le reti Mediaset ci propongono con regolarità ipnotica diversi spot autoreferenziali. Nel migliore dei casi si possono definire autocelebrativi - ai limiti dell’agiografia -, ma la verità è che si tratta in primo luogo di caroselli pensati per ripulire l’immagine dell'azienda e del Cavaliere, lordata dalla condanna definitiva per frode fiscale al termine del processo sulla compravendita dei diritti Mediaset. Una vicenda che, dobbiamo ricordarlo, non riguarda direttamente il gruppo editoriale di Cologno Monzese: il presidente Fedele Confalonieri è stato assolto e l’azienda non è stata condannata. Per ricollegare quei filmati al destino del Capo, tuttavia, non serve proprio Sherlock Holmes.
Ogni elemento degli spot contribuisce a creare un’atmosfera di rassicurante tepore domestico: i colori caldi, la voce suadente fuoricampo, l’eleganza, la pacatezza e lo zelo degli impiegati al lavoro. E, com’è ovvio, la retorica verbale studiata fin nel dettaglio più insignificante.
Una delle opere recita così: “Qui non incassiamo finanziamenti pubblici. Qui non siamo colossi americani. Qui contiamo solo sulle nostre forze. E qui ogni mattina arrivano migliaia di persone che cercano di fare il massimo per regalarti una televisione moderna, vivace e completa. Undici reti gratuite e centinaia di programmi in onda ogni giorno, anche su internet, che non ti costano niente. Niente. Nemmeno un bollettino postale. Così, giusto per ricordarlo”.
Notevole l’anafora iniziale, con la ripetizione epica dell’avverbio di luogo. Parole fastidiose come “pagare” e “tasse” sono accuratamente evitate. Il “Noi” a poco a poco abbraccia il “Tu”, ed è un po’ come addormentarsi fra le braccia calde e sicure di Gerry Scotti. Quanto ai contenuti, fin dalla prima esegesi emergono frecciate tutt’altro che sottili nei confronti dei concorrenti: “Noi” non chiediamo un euro allo Stato, né a chi ci guarda. Mica come la Rai e Sky (in realtà la concorrente berlusconiana della tv satellitare sarebbe Mediaset Premium, che si paga eccome, ma questo forse è meglio non ricordarlo).
L’Uomo-sul-divano potrebbe obiettare: "Se Berlusconi froda il Fisco, forse sarebbe preferibile che Mediaset incassasse finanziamenti pubblici (anche se non le spettano), trattandosi di un’attività regolamentata ancorché controversa". Ma le meningi del Biscione hanno pensato anche a questo. Ed ecco che, come a leggere nel pensiero del malfidato divanoide, un secondo spot ci suggerisce che i giudici del Tribunale di Milano, della Corte d’Appello e della Cassazione devono essersi per forza sbagliati nei confronti del Cavaliere.
Nell’attacco c’è il dramma della Storia e l’orgoglio dell’Individuo: “Abbiamo iniziato da zero. Ora siamo uno dei principali gruppi televisivi europei, 130 mila piccoli azionisti credono in noi e noi giorno dopo giorno abbiamo ripagato la loro fiducia con 4,9 miliardi di euro di dividendi”.
Buon per gli azionisti. In effetti, il titolo Mediaset è uno dei più speculativi a Piazza Affari e – chissà perché – in tempi di crisi politica viene trattato dagli investitori come un termometro della stabilità italiana. Nell’ultimo anno le azioni del Biscione hanno guadagnato qualcosa come il 128,5%.
Ma andiamo avanti con lo spot, perché le vere chicche arrivano solo nella seconda parte: “Anche lo Stato ha tratto benefici dal nostro lavoro: in totale circa nove miliardi di euro versati nelle casse pubbliche. E non abbiamo mai spostato sedi all’estero. I nostri posti di lavoro sono in Italia e le tasse le paghiamo tutte qui, in Italia”. Ancora una volta ce lo dicono “così, giusto per ricordarlo”. Mica per insinuare qualcosa, sia chiaro.
L’Uomo-sul-divano sa in fondo al cuore che quella voce fuori campo è sua amica. A dimostrargli quanto il mondo del Biscione sia vicino al suo ci pensano i protagonisti di un altro spot: camionista, cuoca, presunto stagista, tecnico delle luci. Tutti lo guardano negli occhi e sentenziano gaudenti: "Io lavoro in televisione". Prima che l'Uomo-sul-divano abbia il tempo di replicare, arriva la solita, paterna voce fuoricampo: "Con noi collaborano (non "per noi lavorano", ndr) più di 20mila persone. E anche nei momenti difficili come questo, il lavoro si crea solo con il lavoro. E noi vogliamo continuare a farlo. Così, giusto per ricordarlo". Stavolta la chiosa è impreziosita financo dalla rima.
Insomma, "the Italian dream" è a Cologno Monzese. Ma l'Uomo-sul-divano farà bene a ricordare che - in caso di condanna penale - dovrà scontare la pena. E agli occhi di tutti sarà solo un uomo colpevole.