di Antonio Rei

La settimana scorsa abbiamo ricevuto una bella lezione su come si applica il principio di equità nel nostro Paese. E abbiamo avuto conferma che, in materia di stipendi pubblici, a ispirare le norme italiane è piuttosto il vecchio concetto di "due pesi e due misure". Il Consiglio dei ministri ha approvato la proroga del blocco delle buste paga dei dipendenti statali fino al 31 dicembre 2014 e ha annunciato che a settembre ripartirà il confronto con i sindacati sul contratto, ma solo per quanto riguarda la parte normativa.

Venerdì, invece, la Camera ha dato il via libera definitivo al decreto del Fare, che fra i vari interventi prescrive un taglio agli stipendi dei manager pubblici. La misura è contenuta in un emendamento che è stato oggetto di un lungo braccio di ferro fra governo e Parlamento. Nel dettaglio, è prevista una riduzione del 25% per il compenso dei manager che non rientrano nel tetto fissato dal decreto salva-Italia, il quale stabiliva come limite invalicabile il trattamento economico riservato al primo presidente della Corte di Cassazione (circa 300 mila euro).

Guarda caso, nello stesso giorno dell'ok al decreto del Fare, sono stati anche rinnovati i Cda di tre società pubbliche come Anas, Ferrovie dello Stato e Invitalia (l'Agenzia per l'attrazione degli investimenti), i cui manager si sono messi così al riparo da ogni taglio. La nuova norma, infatti, non sarà legge prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e la riduzione dei compensi si applica "limitatamente al primo rinnovo dei consigli di amministrazione" successivo all'entrata in vigore della legge di conversione del decreto o "qualora si sia già provveduto al rinnovo, ai compensi ancora da determinare ovvero da determinare in via definitiva".

Il doppio fronte d'intervento dimostra quanto mai la differente considerazione riservata ai vari anelli di quella catena alimentare che è la pubblica amministrazione. Alle piccole prede si chiedono i soliti sacrifici imposti dalla crisi economica, mentre per i grandi predatori si riesce a trovare il salvacondotto ad hoc.

"Continua l’accanimento contro gli statali” si legge in una nota dell'Unione sindacale di base . I lavoratori pubblici non ci stanno ad essere rosolati a fuoco lento e il 18 ottobre parteciperanno allo sciopero generale convocato dalla Confederazione Usb, scendendo in piazza con rabbia e determinazione. “Di caldo ormai non c’è solo l’autunno, ma l’intero anno". Sono sul piede di guerra i medici, gli insegnanti e perfino i militari del Cocer. 

La situazione, in effetti, non è delle più rosee. Il congelamento del turnover ha determinato 120 mila tagli nel pubblico impiego tra il 2011 e il 2012, mentre le retribuzioni sono calate dello 0,6% lo scorso anno dopo il -0,7% dell’anno precedente. L’inflazione, intanto, è cresciuta del 3%.

"Tutti stanno soffrendo, sia nel settore pubblico sia nel settore privato - ha bacchettato il ministro della Pubblica amministrazione, Gianpiero D'Alia -. Il potere d’acquisto del salario pubblico e del salario privato in questi anni è diminuito parecchio, così come è calato il livello dell’occupazione giovanile. Questi sono due dati che rendono il nostro sistema Paese più debole e su cui dobbiamo intervenire con politiche mirate".

Peccato che, fin qui, l'operazione più mirata sia stata proprio la convocazione di quelle tre assemblee societarie da parte del loro unico azionista, il ministero dell'Economia. Una pratica piuttosto insolita a pochi giorni da Ferragosto e che non si spiega con altre urgenze particolari se non con la volontà di salvare per almeno altri tre anni gli stipendi degli uomini al vertice.

Le loro retribuzioni, in effetti, sono molto superiori a quel famoso limite di 300 mila euro. Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs dal 2006, nel 2011 ha incassato un compenso di 873 mila euro. E non è andata molto peggio ai suoi colleghi di Anas e Invitalia, rispettivamente Pietro Ciucci e Domenico Arcuri: il primo ha guadagnato nell’ultimo triennio una somma vicina ai 700 mila euro l’anno, mentre il secondo nel 2011 ha incassato 792 mila euro, di cui 175 mila euro come emolumento, 361 mila come compenso fisso e 254 mila come compenso variabile.

Viene da sperare che questi tre signori investano il loro denaro a piene mani per far girare un po' l'economia italiana. Perché è difficile chiederlo ai loro dipendenti.

di Carlo Musilli

Dai domiciliari del padrone al domicilio dei sudditi il passo è breve. In Italia può succedere che un condannato in via definitiva per frode fiscale (non evasione, frode) cerchi d'imporre al governo una nuova politica fiscale. E così facendo sposti i riflettori dai propri guai giudiziari a quell'unico argomento che da vent'anni gli consente di accalappiare milioni di voti: "Meno tasse per tutti".

Venerdì Silvio Berlusconi si è scagliato lancia in resta contro l'Imu. In una nota dai toni epici ha parlato di "battaglia per la libertà" (di chi e da cosa, non è dato sapere), ripetendo ancora una volta che non esiste margine di trattativa: l'imposta sulla prima casa va abolita per tutti. Punto e basta.   

Il Cavaliere fa la voce grossa, ma al momento non è nella posizione di spaventare qualcuno, né d'imporre alcunché. Il dato politico più significativo di quella nota è quello che Berlusconi non ha scritto. A ben vedere, manca qualsiasi riferimento alla possibilità di aprire una crisi governo.

L'ex premier ha in mano una pistola scarica e lo sa benissimo. Se rompesse le larghe intese, correrebbe il rischio di ritrovarsi Romano Prodi al Quirinale. Di sicuro Giorgio Napolitano non convocherebbe nuove elezioni ora, con il Porcellum ancora in vita. Piuttosto che sciogliere le Camere prima della riforma elettorale, il Capo dello Stato si dimetterebbe, come ha lasciato intendere più volte negli ultimi mesi. E a quel punto il professore bolognese tornerebbe in cima alla lista dei papabili per il Colle.

Ecco spiegato per quale motivo Enrico Letta continua a ripetere sornione sempre la stessa frase: "Il governo è più saldo di quanto non sostengano i nostri detrattori". A proteggerlo c'è la minaccia di Napolitano.

E tutto questo con buona pace dei falchi Pdl, che - meno lungimiranti del loro padrone - continuano a premere per far saltare l'Esecutivo. L'ultima occasione, a onor del vero, sembrava davvero ghiotta. A offrirla su un piatto d'argento ci aveva pensato il Tesoro, autore di un ponderoso documento in cui si analizzano nove possibili strade per modificare la tassazione sulla casa. L'ipotesi di abolire completamente il prelievo sull'abitazione principale è considerata la peggiore: sarebbe iniqua a livello sociale (perché converrebbe di più ai ricchi) e metterebbe a rischio i conti (servirebbero subito quattro miliardi).

Quale migliore assist per i pidiellini insofferenti alle larghe intese? Avrebbero potuto uccidere il governo con un alibi perfetto, facendo perfino ricadere la colpa sul Pd. Ma la voce del padrone ha segnato il limite da non valicare: sparare contro l'Imu va bene, far saltare Letta no. E alla fine tutto si è smorzato nella calma olimpica del Premier, che in perfetto stile democristiano continua a rinviare tutti i dossier più delicati a giorni che immagina migliori.

Ma allora che senso ha davvero questo circo estivo sull'Imu? Dopo il piantarello in via del Plebiscito di fronte a una folla di figuranti spesati e muniti di cartelli preconfezionati, la polemica sull'imposta municipale unica è l'ultima arma rimasta a Berlusconi.

Il solo modo per farsi sentire, per esercitare una qualche pressione in vista di un salvacondotto che gli consenta di schivare i domiciliari o i servizi sociali. Intanto, il mese prossimo a Palazzo Madama si voterà per la sua decadenza da senatore. E già ricominciano a sventolare le bandiere di Forza Italia, già il volto di Marina è diventato a tutti più familiare.

D'altra parte, se forse si rivelerà inutile sul piano politico, la bagarre intorno all'Imu garantirà al Cavaliere e ai suoi un ritorno elettorale più che certo. Il tutto, naturalmente, è fondato su una serie di bugie a cui gli italiani saranno disposti a credere, ingolositi dalla prospettiva (illusoria) di pagare meno tasse.

La prima bugia è che l'abolizione completa dell'imposta sulla prima casa sia alla base dell'accordo di governo con il Pd. Epifani se n'è accorto: "Berlusconi sbaglia - ha detto il segretario democratico all'Unità -. Nel discorso programmatico che ha ricevuto la fiducia del Parlamento, Letta ha detto: "Superare l'attuale sistema di tassazione della prima casa e dare tempo a governo e Parlamento di elaborare una riforma che dia ossigeno alle famiglie, soprattutto a quelle meno abbienti'". Quindi non a tutti.

La seconda bugia, ormai divenuta strutturale, è che il Pdl sia da sempre il nemico più agguerrito della tassazione sulla casa. Vale la pena di ricordare che l'Imu non ci è stata imposta dall'esercito prussiano, né dalle truppe di Napoleone. E' stata introdotta con il decreto Salva-Italia del dicembre 2011, ovvero il primo provvedimento in assoluto del governo Monti, varato con i voti decisivi del Pdl, che all’epoca era l’unico partito numericamente indispensabile alla maggioranza. Quando si è votato per istituire dell'Imu, i rapporti fra il Cavaliere e Monti erano ancora idilliaci.

E in quei giorni l'opinione di Berlusconi sull'imposta era ben diversa: “Monti ha fatto intendere che porterà la tassazione degli immobili in linea con la media europea, mentre ora è al di sotto - aveva detto in un'intervista al Corriere della Sera del 20 novembre 2011 -. È possibile che questo comporti l'introduzione di un'imposta simile all'Ici, da noi già prevista con il federalismo, ma completamente diversa rispetto alla precedente impostazione già nella nostra riforma. Dunque una continuità di linea con il nostro governo, con un probabile anticipo dei tempi rispetto al 2014 che noi avevamo previsto”. Forse aveva previsto anche che l'Imu gli sarebbe servita per andare a pesca di voti e di favori.

di Rosa Ana De Santis

La condanna di Silvio Berlusconi ha fatto il giro dei media europei e il fenomeno del nostro Paese messo sotto scacco su vari fronti da questa sentenza, rappresenta senza dubbio e nostro malgrado un caso paradigmatico culturale prima che politico. Non stupisce la manifestazione di domenica pomeriggio davanti a Palazzo Grazioli dei supporter di Silvio, perché nel manifesto politico del PDL non c’è mai stata traccia di un progetto politico a prescindere dal leader carismatico, ma la venerazione di un uomo di successo e l’inno alla furbizia degli affari facili, non importa il come.

Chi ha votato finora il Cavaliere non lo ha fatto certo per esprimere un’idea politica, ma  per desiderio di omologazione al mito dell’uomo scaltro, sopra le legge, che può tutto in nome del successo economico e finanziario. Quindi i pidiellini sono fan e non elettori di una mozione politica. Ci sono poi coloro che siedono in Parlamento, che governano il Paese in questa miscela posticcia di paratecnici e parapolitici i quali, irresponsabilmente, come Bondi, parlano di guerra civile, si scagliano contro la magistratura avallando un conflitto tra le Istituzioni che farebbe resuscitare Montesquieu dal lontano XVIII secolo.

In qualsiasi altro Paese europeo questo bistrattamento dei pilastri della democrazia non avrebbe avuto luogo, non pubblicamente almeno, non in faccia alla nazione, non riducendo le Istituzioni a cori di stadio per le strade: una modalità che se è indecorosa per i Cinque Stelle, non lo è di meno (anzi è più grottesca ancora) se riguarda le signore Santanchè di turno.

Non va meglio per un governo che vuole stare in piedi a tutti i costi spartendo leggi e provvedimenti con gli adepti innamorati del proprio leader evasore e condannato. Come può il PD pensare di sopravvivere a questo patto con il diavolo, l’ennesimo, è un’incognita o forse l’overture di una Caporetto annunciata e solo rimandata a dopo l’estate.

L’emergenza economica in cui versa l’Italia non può sperare di trovare ricette in un Parlamento che non sceglierà più, è evidente, la strada delle intese - ammesso che l’abbia fatto finora - ma quella del braccio di ferro come estrema infinita arringa in nome di Silvio. Il PD avrebbe dovuto anticipare Berlusconi,invece di confidare in una sua esagerazione eversiva. Il cavaliere, che è maestro di tattica, ha invece restituito tutta la responsabilità al governicchio di Letta che ora rischia di essere messo sotto scacco da un Pdl che chiederà di riscuotere la sua agenda di governo e di cannibalizzare tutte le riforme per fare resuscitare Berlusconi il terzo giorno con tutti gli onori del caso e della legge".

Ancora una volta è il Cavaliere il protagonista di un caso che oltre le Alpi desta stupore. Lì dove i ministri si dimettono per poco e niente, quasi in un eccesso zelo calvinista. Lì dove il fresco caso Kyenge fa indignare e sconvolge come un rigurgito di passato remoto che quasi ovunque è stato superato e non tollerato nelle stanze delle Istituzioni.

Alla prossima visita di Obama il nostro governo spiegherà come mai un Calderoli sia rimasto degno di essere Vice Presidente del Senato della Repubblica, come mai il capo di un partito xenofobo sia accolto nelle sedi istituzionali e come mai si cerchi disperatamente di tenere insieme un governo fatto con i seguaci di un condannato. Come si possa benedire questo scempio istituzionale e lanciare parole sulla legalità, sul valore dell’Europa che ci costa lacrime e sangue e molto ancora.

Certo è che ancora una volta, all’apice della sua sconfitta, Berlusconi non muore ma fa morire i suoi avversari, mettendone in luce l’inconsistenza e la paura. E mentre il PDL non ha nulla da ricostruire perché l’illegalità non è mai stata percepita come impedimento alla dignità dell’istituzione (dalla corruzione alla prostituzione), il Pd ha tutto da rifare e la partita va ben oltre la prossima tornata elettorale. Si tratta dell’Italia, alla deriva dell’Europa.


di Fabrizio Casari

Adesso è legittimo dirlo: Berlusconi è un evasore fiscale. Nulla che già non si sapesse, ma la sentenza della Corte di Cassazione chiude con ogni, pur giusta, forma di garantismo lessicale. Per alcuni è motivo di grande soddisfazione, per i suoi tifosi di disperazione. Ma quanto deciso ieri nel Palazzaccio ha certamente scritto la parola fine non solo sulla vicenda della truffa al fisco, quanto con un utilizzo della giustizia a fini privati che nell’ultimo ventennio ha caratterizzato l’impianto legislativo. Leggi ad personam, guerriglie procedurali, utilizzo del potere mediatico e politico per sottrarsi al giudizio dei tribunali, non sono stati sufficienti.

Si attende ora il ricorso a Strasburgo, dove la Corte Europea di Giustizia riceverà presto le carte difensive degli avvocati dell’ex-premier. Non ha però nessuna chance di vittoria il ricorso, dal momento che la Corte Europea di Giustizia può intervenire solo ove ritenesse violato il diritto ad un equo processo, il che sarebbe davvero paradossale. Con la condanna definitiva di ieri, invece, si chiude per sempre l’illusione da parte di Berlusconi e dei suoi dipendenti diretti ed indiretti di far passare alla storia come statista il Cavaliere di Arcore. Trova conferma, semmai, la tesi di chi ha ritenuto e ritiene come tutto il suo percorso imprenditoriale e politico si sia determinato all’ombra di una continua illegalità. E adesso? Quali scenari si aprono sul piano politico?

La destra, asserragliata al capezzale del suo conducator, ribadisce come la vita del governo non sia in pericolo e lo stesso atteggiamento sembra risiedere del PD. La sentenza della Corte di Cassazione è del resto un capolavoro di abilità nel miscelare il sostegno alle precedenti sentenze di Assise e Appello ma garantendo comunque la stabilità politica annullando l’aspetto più politicamente indigeribile per il PDL e, di conseguenza, per il governo. Il dispositivo della Suprema Corte, infatti, conferma la condanna emessa dalla Corte D’Appello contro Berlusconi ma annulla la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, rinviando ad una nuova sezione della Corte D’Appello la determinazione di un nuovo giudizio. Questo, ovviamente, permetterà successivamente l’ennesimo ricorso alla stessa Cassazione. Dunque un nuovo processo.

Il respiro di sollievo più profondo alla lettura della sentenza è stato quello della coppia Letta-Napolitano. Il loro governo, creatura prodotta in laboratorio e la cui sopravvivenza riproduce costantemente un equivoco politico e persino lessicale, è salvo. Il PD potrà continuare a governare con il PDL e quest’ultimo continuerà a dirigere il governo con un sapiente gioco di ricatti e ultimatum. Perché è del tutto evidente che a Via del Nazareno l’imbarazzo resterà comunque alto, dal momento che un dato è incontestabile: il partito con cui si governa è proprietà di un condannato per via definitiva.

Sul piano politico, comunque, è iniziata la crisi terminale della destra italiana. Priva di valori europei, carente di cultura illuministica e liberale, del tutto assenti riferimenti culturali, appare comunque allo sbando, dal momento che è un aggregato eterogeneo tenuto insieme solo dalla devozione al leader e padrone. La sua uscita di scena non sarà immediata, ma da stasera le pur prevedibili dichiarazioni di combattimento, avranno un retrogusto diverso da prima. Le grida manzoniane non riusciranno a coprire paure, incertezze e dubbi, la nuova trinità di una destra da ora in cerca di un nuova identità per sopravvivere.

di Fabrizio Casari

Caronte è ormai alle spalle, ma l’emergenza italiana non è finita. A sentire le dichiarazioni degli esponenti della destra, tra oggi e domani l’Italia sarà sospesa tra Armageddon e il diluvio universale. Si può infatti collocare in questo range di cataclismi globali la sentenza che emetterà la Corte di Cassazione a sentire i commenti dei berluscones. Non avrà conseguenze sul governo, rispondono da Palazzo Chigi gli uomini del Premier Letta.

Sarà, ma l’impressione è che in qualche modo verrà pronunciata la madre di tutte le sentenze; non solo per il merito del dispositivo ma anche per ribadire l’effettiva autonomia di giudizio della magistratura, la sua sostanziale indifferenza, nel sentenziare, al contesto politico.

I magistrati della Corte di Cassazione, che al più tardi mercoledì emetteranno la sentenza per l’affaire Mediaset, avranno tre strade davanti a loro. La prima è quella di condannare il padrone del PDL (per effetto della condanna a Milano, scatterebbe l’interdizione dai pubblici uffici). La seconda è quella di accogliere solo in parte i ricorsi, e qui davvero le ipotesi possono essere diverse. La terza è quella di disporre - su richiesta della difesa - un rinvio.

La prima strada porterebbe dritta all’incompatibilità immediata e all’ineleggibilità futura di Berlusconi, con tutto ciò che ne consegue per lui, per il suo partito e la destra italiana in generale, per il quadro politico complessivamente inteso. La terza aprirebbe invece una nuova battaglia giudiziaria che sposterebbe nel tempo la sentenza definitiva. Il che permetterebbe al PDL di tirare un sospiro di sollievo, gli darebbe il tempo di decidere cosa fare nel prossimo futuro e rimandare così il post-berlusconi. Andrebbe tutto sommato bene anche per il PD, che si sentirebbe legittimato a poter continuare a convivere al governo con il PDL.

Vedremo cosa decideranno i giudici dell’Alta Corte; non ci sentiremmo di scommettere sulla conferma della condanna, ma non sembra comunque automatico, anche nel caso l'ex-premier fosse condannato, un riverbero diretto ed immediato sul governo da parte di Berlusconi. Perché una volta condannato, aldilà della minaccia di rifiutare i benefici di legge e andare in carcere (una balla per alzare la tensione e premere sulla Corte) la partita da giocare per Berlusconi sarebbe solo quella di una amnistia nella quale infilarsi, provvedimento che solo un governo in carica potrebbe varare. Dunque il governo Letta non cadrà per mano del PDL, al netto delle sceneggiate isteriche che nani e pitonesse possano imbastire per il circo in diretta televisiva.

La Presidente Boldrini ha ripetuto anche ieri come governo e giustizia siano terreni diversi e non sovrapponibili; ha perfettamente ragione ma il messaggio sembra trovare orecchie attente solo a destra. Il PD, invece, ad una eventuale condanna dell’ex-premier non potrebbe restare indifferente. Pur alle prese con la guerra intestina di correnti che con qualche pudore chiamano “scontro sulle regole”, il PD non potrebbe continuare a far vivere il governo con il PDL.

Un generico quanto appropriato sussulto di decenza democratica (elemento sepolto all’atto di nascita del governo) prevede che non ci si possa attribuire il ruolo di bastione della democrazia e contemporaneamente governare insieme ad un partito di proprietà di un condannato ed inibito alla pubblica attività politica. E inoltre, sullo sfondo pesa il prossimo Congresso del PD: a nessuna delle correnti è concesso di non chiedere l’immediata rottura con il PDL in caso di condanna a Berlusconi. E nessuno potrebbe infischiarsene nel mezzo dello scontro congressuale. Chi sostenesse la praticabilità di far vivere il governo anche con una condanna della Cassazione a Berlusconi, chiuderebbe per sempre ogni possibilità di presentarsi di fronte a iscritti ed elettori del PD.

Dunque Letta avrà una sola strada: recarsi al Quirinale e mettere in mano a Re Giorgio le sorti del suo governo. Nel generale convincimento che non sarebbero possibili maggioranze alternative, il presidente-monarca (ormai nemmeno più nominabile anche per i parlamentari) avrà due strade: rimandarlo  alle Camere per vedere se il suo modello può essere salvato comunque (facendo così implodere definitivamente il PD) oppure, con la scusa che la riforma elettorale non è stata approvata, tentare di assegnare l’incarico per un nuovo governo tecnico. Un vecchio film dal finale tragico per il quale abbiamo già pagato un biglietto salato.


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