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di Carlo Musilli
Comunque vada a finire, non si vede come il Partito Democratico possa trovare una via di scampo. Il governo "di servizio" targato Enrico Letta dovrebbe vedere la luce oggi e ottenere la fiducia del Parlamento lunedì. A quel punto inizierà uno stillicidio che molto probabilmente consoliderà il vantaggio elettorale riacquisito negli ultimi mesi dal centrodestra. E alle prossime elezioni il Paese si consegnerà per la quarta volta nelle mani di Berlusconi.
La missione del nuovo Esecutivo, a prescindere dai giudizi di merito sui singoli provvedimenti, è senz'altro proibitiva. Sarebbe stata difficile anche se Pd e Sel avessero ottenuto da soli la maggioranza assoluta nelle due Camere. Ma ora che nella squadra di Letta si apprestano a entrare personaggi come Angelino Alfano e Mara Carfagna, ogni proposito riformista in senso socialdemocratico acquisisce i contorni della burla. E questo, purtroppo, vale in primo luogo sul piano dell'economia.
L'esempio più eclatante è certamente quello dell'Imu. Fra gli "otto punti" indicati da Berlusconi come condizioni essenziali per la partecipazione al nuovo governo, l'abolizione dell'imposta sulla prima casa e la restituzione delle somme pagate nel 2012 costituiscono certamente il capitolo dal peso specifico maggiore. Si tratta della solita promessa fumosa lanciata nelle fasi finali di campagna elettorale - un'arte in cui il Cavaliere è davvero insuperabile - che oggi i pidiellini non hanno alcun interesse a rinnegare.
Le risorse indicate a suo tempo da Berlusconi per finanziare un'operazione del genere sono più che mai incerte, dal momento che non è possibile calcolare in anticipo e con sicurezza il gettito prodotto da misure come l'accordo con la Svizzera (ammesso che si faccia) e il rincaro fiscale su alcol, tabacchi e vizi vari.
Il centrodestra lo sa benissimo, ma non è questo il punto. Il vero obiettivo è continuare a sbandierare il vecchio vessillo del "meno tasse per tutti". Se poi il nuovo Esecutivo non riuscirà a liberare gli italiani dall'imposta sugli immobili - com'è ampiamente prevedibile - sarà facilissimo far ricadere per intero la colpa sul Pd. Si tratta pur sempre del partito di maggioranza e, agli occhi degli elettori, dovrà assumersi il carico più pesante di responsabilità.
Per cercare un punto d'incontro sull'Imu, gli uomini del Pd si sono già messi al lavoro. Pur sapendo che i desideri della destra sono al momento velleitari, i democratici cercano una via per alleggerire l'imposta, per renderla più progressiva. Negli ultimi tempi si è parlato di alzare le detrazioni da 200 a 500 euro, incrementando al contempo la pressione sulle abitazioni di lusso. Ma non è così semplice, i margini di manovra sono stretti.Soprattutto perché questi non sono affatto gli unici soldi che il nuovo governo dovrà trovare. Oltre alla partita ancora aperta sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione (40 miliardi in due anni), bisognerà coprire anche le "spese indifferibili" dimenticate dai professori, come la Cassa integrazione e le missioni internazionali. Rimarrebbero da finanziare inoltre le detrazioni sulle ristrutturazioni.
Già questo sarebbe sufficiente a rendere necessaria una nuova manovrina nel 2013. Ma non bisogna dimenticare altre due stangate che rischiano di deprimere ulteriormente l'economia italiana, perfino peggio di quanto abbia fatto l'anno scorso la tanto vituperata Imu. Parliamo dell'aumento della terza aliquota Iva dal 21 al 22% (previsto per luglio) e dell'aggravio della tassa sui rifiuti (con il balzello della Tares), che i tecnici sono riusciti solamente a rinviare a fine anno.
Facciamo un po' di conti. Il governo "di servizio" dovrà mettere insieme un miliardo di euro per la cig in deroga, due miliardi per evitare l'aumento dell'Iva (che diventano quattro dal 2014), un miliardo per cancellare la Tares e altri quattro per abolire l'Imu sulla prima casa (restituire quella già pagata è un'altra storia: La Russa propone di distribuire Btp a pioggia). Negli ultimi mesi di stallo assoluto ci hanno fatto credere che tutto questo sia possibile senza una nuova manovra. Anzi, lo stesso Letta continua a parlare anche di sgravi alle imprese per favorire le assunzioni di giovani e di nuove risorse per le piccole e medie imprese, il nostro cuore produttivo. Con quali soldi, Presidente?
E' evidente che tutti questi obiettivi sarebbero auspicabili, ma è altrettanto ovvio che non possono essere conseguiti rimanendo nel solco degli accordi europei che abbiamo sottoscritto. Bisognerebbe negoziare con Bruxelles un allentamento del cappio. Letta lo sa, dice di volerlo fare e per questo ha già incassato l'arrogante reprimenda di Wolgang Schaeuble, semi-onnipotente ministro tedesco dell'Economia. Riaprire la trattativa con l'Europa sarebbe sacrosanto, ma per un compito del genere avremmo bisogno di un governo quanto mai forte, coeso, sicuro della meta che intende raggiungere. Quello che stiamo creando è invece un Esecutivo zeppo di persone che hanno passato gli ultimi anni a detestarsi fra loro. E a guidarlo è un partito sull'orlo dell'esplosione.
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di Carlo Musilli
Dopo i diamanti e la Tanzania, mancava solamente un sobrio yacht da due milioni e mezzo per completare il quadretto. E' questo l'ultimo tocco di classe attribuito a Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord arrestato ieri dalla Guardia di Finanza. Pare che l'obiettivo dell'acquisto fosse il diletto di Riccardo Bossi, figlio dell'ex imperatore padano Umberto. Un pensierino comprato con fondi pubblici destinati al Carroccio.
L'ennesimo, grottesco dettaglio di colore emerge dalle carte dell'inchiesta sui conti del partito coordinata dalla procura di Milano. Belsito - ora nel carcere milanese di San Vittore - è finito in manette con una discreta sfilza di accuse: associazione a delinquere, truffa aggravata, appropriazione indebita e riciclaggio. Secondo i pm, aveva creato un "comitato d’affari" che era "in grado di influenzare le decisioni di istituzioni e grandi imprese pubbliche e private", tra cui Fincantieri (di cui lo stesso Belsito era vicepresidente), sempre alla ricerca di business e protezioni politiche.
A fine ottobre la richiesta di custodia cautelare è arrivata sul tavolo del gip Gianfranco Criscione, che dopo sei mesi ha firmato l'ordinanza. Stando a quanto si legge nel testo, la figura dell'ex tesoriere leghista sarebbe molto simile a quella di un cassiere di famiglia. Ma non solo. Il dettaglio più interessante è che Belsito avrebbe continuato allegramente nelle sue attività pseudo-amministrative anche dopo aver smesso di essere membro del partito.
Nel testo si fa riferimento a una nota di polizia giudiziaria dello scorso ottobre da cui si deduce che l’espulsione dell'ex tesoriere dalla Lega avrebbe "tutt’altro che interrotto il criminoso e criminogeno rapporto tra il medesimo Belsito e Girardelli, da ultimo incentrato sulle questioni relative a uno yacht". E qui veniamo al regalino "del valore di 2,5 milioni di euro che Riccardo Bossi, figlio di Umberto Bossi, avrebbe a suo tempo acquistato avvalendosi di un prestanome grazie a un’ulteriore appropriazione indebita di Belsito". E' un peccato che Roberto Maroni non abbia portato anche la morigerata barchetta a Pontida, come invece ha fatto con i diamanti, sventolati con somma eleganza davanti alla severa adunata celtica.Ma l'allegro contabile del cerchio magico non è solo. Anzi, gode di ottima compagnia. Insieme a lui sono state arrestate anche altre due persone: Stefano Bonet (per gli amici, "l'ammiraglio"), ovvero l’imprenditore veneto degli investimenti in Tanzania, e Romolo Girardelli, il presunto segugio sempre a caccia di business redditizi. Una quarta persona è ancora ricercata e a quanto pare si trova all’estero. Si tratta di Stefano Lombardelli, considerato "soggetto in grado di agevolare e procurare la conclusione di affari con le imprese dai quali ricavare proventi illeciti".
In questo stesso "sistema contaminato di malaffare, a cui si alimentavano poteri istituzionali, politici ed economici" - come si legge ancora nell'ordinanza di custodia cautelare - rientrano anche operazioni per tentare di coinvolgere banche come Mps, oltre agli affari milionari di Fincantieri e alle mire di Bonet sulla gestione di una fetta del potere sanitario in capo al Vaticano.
Nell'ambito dell'inchiesta che l'anno scorso ha prodotto la rivoluzione maroniana delle ramazze all'interno del Carroccio, il Senatùr è indagato per truffa ai danni dello Stato, mentre i suoi due figli, Renzo (il mitico "Trota") e Riccardo, sono accusati di appropriazione indebita. Tuttavia, questo filone delle indagini (ribattezzato "The Family") dovrebbe essere chiuso a breve.
Nelle scorse settimane era emerso che - secondo gli inquirenti - l'ammontare dei fondi pubblici spesi in modo sospetto si aggirerebbe intorno ai 19 milioni di euro. A quanto pare, il Carroccio si ritiene parte lesa in tutta questa vicenda e, in caso di processo, si costituirà parte civile.
Eppure, stando ancora a quanto scrive il gip, Bonet e Girardelli parlano in una conversazione intercettata di un "incontro" che il primo avrebbe dovuto tenere "con Maroni, Castelli e Calderoli come di un'opportunità per rilanciare l'attività andando oltre Belsito". Un appuntamento che i due avrebbero cercato di organizzare nel marzo 2012, quando Bossi stava per capitolare. L'obiettivo era accaparrarsi l'eredità dei rapporti dell'ex tesoriere con la Lega. Perché, come spiega eloquentemente Girardelli nelle intercettazioni, "qua ciascuno pensa alla pancia sua".
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di Fabrizio Casari
Si è appena affievolita l’eco delle parole del Presidente Napolitano, che già ci si domanda se il PD accetterà o meno di partecipare all'ammucchiata che propone il Capo dello Stato (ma ci sono pochi dubbi al riguardo). E, nel caso, chi e quanti saranno i possibili franco tiratori nel voto sulla formazione del governo. Ma soprattutto, è evidente come l'eventuale partecipazione ad un governo di larghe intese produrrà inevitabilmente una rottura interna non ricomponibile. Quello che è certo è che il PD esce a pezzi dalla partita per l'elezione del Quirinale e gli applausi che ieri hanno interrotto tranta volte il discorso del Capo dello Stato di fronte alle Camere non hanno certo ricomposto granché, tutt'altro. Più in generale, circa la sorte del partito sono molte le domande senza risposta, vista l’opera di autodisintegrazione che il gruppo dirigente del PD ha messo in atto.
Al netto di ogni possibile interpretazione di quanto emerso in questi giorni, sembra essere arrivata al capolinea una corsa che, nel corso degli anni, si è costantemente caratterizzata come una corsa a non vincere. Infatti, volendo ripercorrere le vicende recenti della storia del PD, si può comodamente verificare come, ad ogni passaggio di fase politica che potesse aprire scenari di un governo a guida progressista, o almeno di centrosinistra, il PD si sia regolarmente sottratto. I due esempi più clamorosi di questa tendenza suicida si possono rintracciare negli ultimi diciotto mesi.
Il primo risale alla fine del 2012, quando con Berlusconi dimessosi da premier a furor di popolo e i sondaggi che davano il PD oltre il 45% dei voti, il gruppo dirigente di Via del Nazareno preferì scegliere la via indicata da Napolitano: governo Monti di unità nazionale e golden share in mano al PDL, visto che aveva comunque la maggioranza dei parlamentari a disposizione.
La storia del governo Monti sappiamo come è andata: il peggior governo della storia repubblicana per gli effetti concreti sullo smantellamento dell’identità socio-economica del Paese. Un governo nominato dalle grandi banche e ciecamente obbediente alla linea del rigore economico della Ue che puntava al drastico ridimensionamento economico dell’Italia in funzione di un rinnovato, ulteriore dominio tedesco sull’Europa.
Criticato dalla sua base elettorale, il PD rispose che il governo Monti era stato il frutto di una emergenza economica non aggirabile e, non potendo rispondere alle obiezioni sul perché questa emergenza non poteva affrontarla il governo a guida PD, magari legittimato dal voto popolare, rispondeva a mezza bocca che una campagna elettorale aveva dei tempi incompatibili con l’urgenza della crisi. Peccato che proprio la Spagna dimostrava invece che così non era.Preso atto del disastro sociale ed economico prodotto dalla banda di dilettanti accademici allo sbaraglio e convintisi di aver pagato a caro prezzo l’appoggio al governo dei banchieri, oltre che il pessimo abbraccio con il PDL, i dirigenti del PD, almeno pubblicamente, si dicevano convinti che l’appuntamento elettorale sarebbe stato il momento giusto per proporre, con il governo a guida centrosinistra, l’uscita progressiva dalla crisi con misure sociali ed economiche che mettessero in discussione l’impianto turbo-liberista che la crisi aveva determinato e le cui ricette per superarla ne avevano sancito il carattere permanente.
Gli elettori, però, non si sono sentiti affatto rassicurati dalla campagna elettorale al cloroformio di Bersani, il quale poi, con una vittoria solo parziale, ha passato 45 giorni ad inseguire il via libera da parte di Grillo senza però offrire nulla di quanto il M5S chiedeva.
Ma ecco che con il voto per la Presidenza della Repubblica si apre un nuovo scenario: Grillo offre un progetto di cambiamento una volta tanto unitario, proponendo al PD di convergere sul nome di Rodotà per il Colle e, subito dopo, il via libera per la formazione del governo, come il PD chiedeva da 45 giorni. Si poteva quindi attendere un consenso da parte del PD, che in un colpo solo avrebbe potuto portare un uomo di sinistra dal valore ampiamente riconosciuto al Quirinale e un uomo del centro-sinistra a Palazzo Chigi, Bersani o Prodi che fosse. Niente da fare.
Proprio il governo di coabitazione con Berlusconi e Monti, che si dicevano convinti esser stato la causa della mancata vittoria elettorale, è tornato ad essere l’orizzonte possibile. Il prezzo pagato è stato la dissoluzione del PD attraverso l’esposizione in pubblico della guerra sotterranea delle correnti. Come già nella DC, peraltro, correnti costituite sulle ambizioni private di personaggi che reclutano intorno a se stessi gruppi di pressione ai quali viene offerta una prospettiva, non sono correnti che rappresentano linee politiche diverse, sbocchi politici e organizzativi antagonisti o anche solo distanti fra loro. Ad impallinare i proposti - Marini come Prodi - è stata l’inedita alleanza tra D’Alema (il vero uomo nero del partito) e Renzi, che hanno deciso di schiantare Bersani insieme ai due candidati.
Il loro incontro fiorentino alla vigilia del voto su Prodi ha avuto proprio questo scopo. Per D’Alema era l’occasione per vendicarsi di Bersani, colpevole di aver rispedito al mittente le offerte di alleanza con Casini e l’addio a Vendola auspicate da D’Alema, per il quale poi il segretario non aveva chiesto a gran voce la deroga per la candidatura. Per Renzi la possibilità di assurgere alla candidatura alla premiership per elezioni rapide con una segretaria del partito schiantata che magari facesse persino bypassare le prossime primarie, che non si sa mai.Insieme alle ambizioni e alle rivalse personali dei due personaggi, va però aggiunta una considerazione di ordine politico che è alla base dell’inedita alleanza: entrambi sono convinti, da due diversi punti di vista, che il PD vada superato. Ed entrambi ritengono che vada superata l’idea stessa dell’esistenza di un partito che si richiama alla sinistra e che possa, per influenza e dimensione, aspirare a governare il paese. Entrambi ritengono infine che, superata l’era di Berlusconi dalla destra italiana, non ci sono ragioni valide per proporre uno scontro politico elettorale bipolare in un paese diviso in tre o quattro aree nella sua rappresentazione elettorale.
A questa strategia dei sabotatori a fini privati e politici Bersani non ha avuto la capacità di rispondere. Non solo perché non ne è strutturalmente capace, ma anche perché é rimasto prigioniero del progressivo tradimento dei suoi alleati interni. Quanto visto in queste ore non era immaginabile. Nemmeno un giovane studente appena affacciatosi alla politica avrebbe commesso tanti e tanti errori e uno più grave dell’altro. E come spiegare tanta incompetenza da persone oggettivamente competenti?
Si può pensare che sia per paura di governare, per consapevolezza di non avere uomini e programmi all’altezza, ma non convince. Si può dunque ipotizzare come la sindrome dell’unità nazionale, l’idea della grande coalizione, il convincimento che la sinistra non può governare l’Italia sia l’humus culturale e politico del PD. In alternativa, o forse in aggiunta, non resta altro che pensare ad un partito ricattato, che sa di non poter ambire al governo del Paese proprio in considerazione dell’opposizione dei poteri forti e, contemporaneamente, della sua ormai conclamata dipendenza da essi.
La dissoluzione del PD è dunque l’unico atto concretamente politico che il gruppo dirigente di Via del Nazareno si trova davanti, atteso che non sembra avere energie per una sua rifondazione. Il congresso, da convocare rapidamente, dovrebbe separare una volta per tutte la sinistra da chi si oppone alla sinistra. Come ha efficacemente riassunto Pippo Civati, l’anomalia del PD è che, pur essendo un partito si sinistra, è pieno di gente che odia la sinistra.
Difficile, se non impossiile, che il PD rimarrà ciò che è stato fino ad ora. La rivolta della base e il tradimento dei vertici, il venir fuori delle correnti in modo così volgare ha segnato in profondità la sorte del partito e le grandi manovre per i processi di aggregazione centrista sono appena cominciati. Si é in qualche modo chiusa una storia priva d'identità ideale e strategia politica, una sommatoria numerica che non è mai diventata un progetto poitico, atteso che due percorsi sconfitti non ne fanno uno vincitore.
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di Giovanni Gnazzi
La scelta di un Napolitano-bis è un fatto inedito nella storia della Repubblica. E’ pur vero, però, che poche volte nel corso di questi quasi sessant’anni il sistema italiano ha avuto tanta paura. Lo scenario che si stava configurando, in effetti, rischiava di alterare in profondità la palude del sistema politico e dei suoi lacciuoli. L’elezione al Quirinale di Stefano Rodotà avrebbe prodotto, di per sé e per il Paese, una novità politica di rilievo storico.
Dal momento che nel caso il PD avesse votato per eleggere Rodotà il M5S avrebbe votato la fiducia alla nascita di un governo a guida PD, il contraccolpo politico e istituzionale che si sarebbe determinato avrebbe avuto l’effetto di una deflagrazione per il sistema di potere italiano. La riforma dello stesso, infatti, avrebbe subito un'accellerazione, cominciando proprio dalla riduzione immediata del potere d'interdizione della destra.
C'é poi il fronte delle politiche economiche e il loro riverbero europeo. Un governo che avesse anche solo parzialmente proposto un agenda di modifiche sostanziali nelle politiche per il lavoro e una riforma parziale di quelle fiscali, avrebbe già causato un oggettivo stop alla linea ultra-rigorista tedesca in vigore a Bruxelles. Un governo italiano che avesse puntato con decisione ad un cambio delle politiche di aggiustamento strutturale del debito avrebbe probabilmente innescato un effetto domino su Francia, Spagna, Grecia, Portogallo e Cipro. Si sarebbe forse messo in discussione il dominio assoluto della Germania sull’Europa e questo avrebbe visto il favore degli USA, che vedono le politiche recessive di Bruxelles come freno alla loro ripresa economica.
Non sarebbero mancate le note giaculatorie sui mercati e sull'Italia che rischia di affondare non appena ci si discosta dall'agenda Monti. Ma sono in molti a ritenere che la pur possibile reazione rabbiosa dei fondi speculativi ad una inversione di tendenza nelle politiche di rientro del debito sarebbe stata annullata dal sostegno dei mercati ad un nuovo indirizzo di politica economica che tiri fuori l’Europa del sud dalla recessione. Non perché improvvisamente i mercati siano divenuti attenti agli equilibri socio-economici che puntellano il sistema dell’organizzazione sociale e politica dei paesi, ma perché dalle economie in recessione non è possibile trarre profitti nemmeno con le manovre di Borsa. Solo il recupero della capacità produttiva di un paese e la rigenerazione della domanda interna per far ripartire i consumi, la produzione e con essa anche l'export può determinare una ripresa economica sulla quale, poi, si può operare, tanto industrialmente come finanziariamente.
C’era la possibilità di vedere Rodotà al Quirinale e Bersani a Palazzo Chigi, sarebbe bastato attendere altre votazioni. Il combinato disposto di Quirinale e Palazzo Chigi in mano alla sinistra avrebbe condannato gli sconfitti delle ultime elezioni a rimanere tali per parecchio. Ma un governo a guida PD che oltre ai voti di SEL si fosse dovuto mantenere con quelli determinanti del Movimento 5 Stelle ha decisamente impaurito l’establishment. La scarsa propensione alla mediazione e la decisa tenacia con la quale i grillini dimostrano di voler affondare il coltello del cambiamento nella paralisi del sistema ha spinto il sistema stesso ad una reazione di paura. Il ricorso a Napolitano e la decisione di dare vita ad un governo di unità nazionale, somiglia molto al tentativo di una classe politica sconfitta e priva di prospettive, di mettersi al riparo delle mura del castello dall’alto delle quali pensa di ricacciare indietro le orde del rifiuto e della contestazione.Per questo ci si affida ad un Presidente quasi novantenne, che avrà con tutta evidenza difficoltà di vario genere a terminare il suo mandato. Ma l’importante era fermare il pericolo ora, alle porte di Bisanzio. L’idea che il programma possa essere quello indicato dai saggi indica con chiarezza cos’ha in testa Napolitano: un piano di riassetto finanziario che veda il proseguimento delle politiche del governo Monti; una riforma della giustizia destinata a garantire il capo della destra italiana per il quale, eventualmente, è pronta la nomina di senatore a vita e, con essa, l’immunità richiesta; una politica estera a sostegno delle avventure militari statunitensi; una riforma della politica che produca cambiamenti insignificanti e che garantisca la sopravvivenza dei partiti e della loro stock option sull’Italia.
Per questo Napolitano torna in campo, facendo finta di non averne voglia. E per questo non è passato Rodotà e non sarebbe passato nemmeno Zagrebelsky. Perché un Presidente della Repubblica che, leale alle prerogative costituzionali, avesse avuto le mani libere nella scelta circa il far proseguire o no la vita della legislatura di fronte all’empasse politico, spaventava. Con eventuali nuove elezioni l’area critica anti-sistema potrebbe seppellire definitivamente - o comunque rendere infinitamente problematico il suo recupero - l’establishment politico, già falcidiato dall’ultimo voto popolare. Qui sta la corsa sotto l’ala protettiva di Napolitano. Il garante dell’establishment è lui; con lui l’Italia non imboccherà il processo di riforme politiche ed economiche destinate a cambiare il Paese. La casta tira un sospiro di sollievo, gli italiani no.
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di Rosa Ana De Santis
Sono arrivati persino nella tv rassicurante della domenica pomeriggio della Rai i nuovi poveri. Ex commercianti, padri separati, persone giovani che sono costrette ad andare alla Caritas per un pasto caldo e per un letto. Storie normali che proprio per questo tratto non eccezionale battono il tempo di un tempo che è cambiato. Un milione di famiglie non vive attraverso il reddito da lavoro: un numero allarmante e doppio rispetto alle stime del 2007.
E’ l’Istat a raccontare questa Italia del 2012 che è fuori dal mercato e dall’occupazione e che vive di entrate saltuarie o di misere pensioni. In questa quota ci saranno sicuramente dei privilegiati che possono contare su varie rendite, ma non sono certamente loro la quota significativa di questa ferita profonda della società italiana che conta un aumento del ben 32%.
Anche per questo la sconfitta e l’implosione di quello che doveva essere il partito di riferimento della sinistra fa ancora più male e assume connotati più gravi. Sono 955 mila i nuclei familiari in queste condizioni e, soprattutto perché senza concrete vie di uscita, diventano un esercito, una mina vagante, un rischio anche per la tenuta democratica del Paese.
La politica, ovviamente, non fa una piega. Aver individuato in Napolitano, grande protettore del governo Monti e dominus del prossimo governissimo, l’unica soluzione possibile alla profonda crisi politico-istituzionale significa non aver individuato nel lavoro e nella crescita le priorità assolute per salvare il paese dal tracollo, non aver colto l’urgenza del cambiamento, ma l’aver avallato il metodo della continuità con il rigore e la finanza in cima alla lista della spesa nazionale.E’ questo forse quell’elettorato esasperato che ha espresso la protesta votando Grillo il quale per ora, nonostante qualche inciampo da eccesso di entusiasmo, riesce a governare l’ebollizione di un popolo vessato e impoverito dove i poveri non sono più i disagiati e gli emarginati di anni fa, ma normalissimi cittadini senza lavoro, con figli a carico, e una casa che non riescono più a pagare e una spesa alimentare da Italia post bellica.
E se è la Caritas, come è, ad occuparsi di costoro è evidente che il welfare non tiene più. Del resto agli esodati non sono state date opzioni, il sistema della cassa integrazione non regge e i servizi pubblici assistenziali non arrivano a soddisfare la domanda. Il combinato di questi elementi con la restaurazione al governo fa dell’Italia una pentola a pressione come mai nella storia degli ultimi anni.
Qualcuno, sempre meno a dire il vero, investe speranza nel congresso futuro del PD, qualcuno dovrà fare i conti con la matematica politica, che assegna ancora al vecchio Cavaliere perdente un ruolo vincente o, per lo meno, un primato importante. Qualcuno (ancora troppo pochi) è pronto alla piazza della protesta.
E mentre si prepara il governo del Presidente viene in mente che forse per una volta nella storia italiana è la Chiesa ad aver capito, prima dello stato laico, quanto fosse urgente una svolta per non bruciare definitivamente il futuro della Casa di Dio e la fede dei suoi credenti. Questo mentre l’Italia non ha saputo fare altro che richiamare un presidente emerito indietro e un club di ragionieri per rispondere all’Europa e sempre meno e meno bene al bisogno di speranza o peggio ancora alla rabbia della disperazione targata Italia.