di Fabrizio Casari

Si è appena affievolita l’eco delle parole del Presidente Napolitano, che già ci si domanda se il PD accetterà o meno di partecipare all'ammucchiata che propone il Capo dello Stato (ma ci sono pochi dubbi al riguardo). E, nel caso, chi e quanti saranno i possibili franco tiratori nel voto sulla formazione del governo. Ma soprattutto, è evidente come l'eventuale partecipazione ad un governo di larghe intese produrrà inevitabilmente una rottura interna non ricomponibile. Quello che è certo è che il PD esce a pezzi dalla partita per l'elezione del Quirinale e gli applausi che ieri hanno interrotto tranta volte il discorso del Capo dello Stato di fronte alle Camere non hanno certo ricomposto granché, tutt'altro. Più in generale, circa la sorte del partito sono molte le domande senza risposta, vista l’opera di autodisintegrazione che il gruppo dirigente del PD ha messo in atto.

Al netto di ogni possibile interpretazione di quanto emerso in questi giorni, sembra essere arrivata al capolinea una corsa che, nel corso degli anni, si è costantemente caratterizzata come una corsa a non vincere. Infatti, volendo ripercorrere le vicende recenti della storia del PD, si può comodamente verificare come, ad ogni passaggio di fase politica che potesse aprire scenari di un governo a guida progressista, o almeno di centrosinistra, il PD si sia regolarmente sottratto. I due esempi più clamorosi di questa tendenza suicida si possono rintracciare negli ultimi diciotto mesi.

Il primo risale alla fine del 2012, quando con Berlusconi dimessosi da premier a furor di popolo e i sondaggi che davano il PD oltre il 45% dei voti, il gruppo dirigente di Via del Nazareno preferì scegliere la via indicata da Napolitano: governo Monti di unità nazionale e golden share in mano al PDL, visto che aveva comunque la maggioranza dei parlamentari a disposizione.

La storia del governo Monti sappiamo come è andata: il peggior governo della storia repubblicana per gli effetti concreti sullo smantellamento dell’identità socio-economica del Paese. Un governo nominato dalle grandi banche e ciecamente obbediente alla linea del rigore economico della Ue che puntava al drastico ridimensionamento economico dell’Italia in funzione di un rinnovato, ulteriore dominio tedesco sull’Europa.

Criticato dalla sua base elettorale, il PD rispose che il governo Monti era stato il frutto di una emergenza economica non aggirabile e, non potendo rispondere alle obiezioni sul perché questa emergenza non poteva affrontarla il governo a guida PD, magari legittimato dal voto popolare, rispondeva a mezza bocca che una campagna elettorale aveva dei tempi incompatibili con l’urgenza della crisi. Peccato che proprio la Spagna dimostrava invece che così non era.

Preso atto del disastro sociale ed economico prodotto dalla banda di dilettanti accademici allo sbaraglio e convintisi di aver pagato a caro prezzo l’appoggio al governo dei banchieri, oltre che il pessimo abbraccio con il PDL, i dirigenti del PD, almeno pubblicamente, si dicevano convinti che l’appuntamento elettorale sarebbe stato il momento giusto per proporre, con il governo a guida centrosinistra, l’uscita progressiva dalla crisi con misure sociali ed economiche che mettessero in discussione l’impianto turbo-liberista che la crisi aveva determinato e le cui ricette per superarla ne avevano sancito il carattere permanente.

Gli elettori, però, non si sono sentiti affatto rassicurati dalla campagna elettorale al cloroformio di Bersani, il quale poi, con una vittoria solo parziale, ha passato 45 giorni ad inseguire il via libera da parte di Grillo senza però offrire nulla di quanto il M5S chiedeva.

Ma ecco che con il voto per la Presidenza della Repubblica si apre un nuovo scenario: Grillo offre un progetto di cambiamento una volta tanto unitario, proponendo al PD di convergere sul nome di Rodotà per il Colle e, subito dopo, il via libera per la formazione del governo, come il PD chiedeva da 45 giorni. Si poteva quindi attendere un consenso da parte del PD, che in un colpo solo avrebbe potuto portare un uomo di sinistra dal valore ampiamente riconosciuto al Quirinale e un uomo del centro-sinistra a Palazzo Chigi, Bersani o Prodi che fosse. Niente da fare.

Proprio il governo di coabitazione con Berlusconi e Monti, che  si dicevano convinti esser stato la causa della mancata vittoria elettorale, è tornato ad essere l’orizzonte possibile. Il prezzo pagato è stato la dissoluzione del PD attraverso l’esposizione in pubblico della guerra sotterranea delle correnti. Come già nella DC, peraltro, correnti costituite sulle ambizioni private di personaggi che reclutano intorno a se stessi gruppi di pressione ai quali viene offerta una prospettiva, non sono correnti che rappresentano linee politiche diverse, sbocchi politici e organizzativi antagonisti o anche solo distanti fra loro. Ad impallinare i proposti - Marini come Prodi - è stata l’inedita alleanza tra D’Alema (il vero uomo nero del partito) e Renzi, che hanno deciso di schiantare Bersani insieme ai due candidati.

Il loro incontro fiorentino alla vigilia del voto su Prodi ha avuto proprio questo scopo. Per D’Alema era l’occasione per vendicarsi di Bersani, colpevole di aver rispedito al mittente le offerte di alleanza con Casini e l’addio a Vendola auspicate da D’Alema, per il quale poi il segretario non aveva chiesto a gran voce la deroga per la candidatura. Per Renzi la possibilità di assurgere alla candidatura alla premiership per elezioni rapide con una segretaria del partito schiantata che magari facesse persino bypassare le prossime primarie, che non si sa mai.

Insieme alle ambizioni e alle rivalse personali dei due personaggi, va però aggiunta una considerazione di ordine politico che è alla base dell’inedita alleanza: entrambi sono convinti, da due diversi punti di vista, che il PD vada superato. Ed entrambi ritengono che vada superata l’idea stessa dell’esistenza di un partito che si richiama alla sinistra e che possa, per influenza e dimensione, aspirare a governare il paese. Entrambi ritengono infine che, superata l’era di Berlusconi dalla destra italiana, non ci sono ragioni valide per proporre uno scontro politico elettorale bipolare in un paese diviso in tre o quattro aree nella sua rappresentazione elettorale.

A questa strategia dei sabotatori a fini privati e politici Bersani non ha avuto la capacità di rispondere. Non solo perché non ne è strutturalmente capace, ma anche perché é rimasto prigioniero del progressivo tradimento dei suoi alleati interni. Quanto visto in queste ore non era immaginabile. Nemmeno un giovane studente appena affacciatosi alla politica avrebbe commesso tanti e tanti errori e uno più grave dell’altro. E come spiegare tanta incompetenza da persone oggettivamente competenti?

Si può pensare che sia per paura di governare, per consapevolezza di non avere uomini e programmi all’altezza, ma non convince. Si può dunque ipotizzare come la sindrome dell’unità nazionale, l’idea della grande coalizione, il convincimento che la sinistra non può governare l’Italia sia l’humus culturale e politico del PD. In alternativa, o forse in aggiunta, non resta altro che pensare ad un partito ricattato, che sa di non poter ambire al governo del Paese proprio in considerazione dell’opposizione dei poteri forti e, contemporaneamente, della sua ormai conclamata dipendenza da essi.

La dissoluzione del PD è dunque l’unico atto concretamente politico che il gruppo dirigente di Via del Nazareno si trova davanti, atteso che non sembra avere energie per una sua rifondazione. Il congresso, da convocare rapidamente, dovrebbe separare una volta per tutte la sinistra da chi si oppone alla sinistra. Come ha efficacemente riassunto Pippo Civati, l’anomalia del PD è che, pur essendo un partito si sinistra, è pieno di gente che odia la sinistra.

Difficile, se non impossiile, che il PD rimarrà ciò che è stato fino ad ora. La rivolta della base e il tradimento dei vertici, il venir fuori delle correnti in modo così volgare ha segnato in profondità la sorte del partito e le grandi manovre per i processi di aggregazione centrista sono appena cominciati. Si é in qualche modo chiusa una storia priva d'identità ideale e strategia politica, una sommatoria numerica che non è mai diventata un progetto poitico, atteso che due percorsi sconfitti non ne fanno uno vincitore.

 

di Giovanni Gnazzi

La scelta di un Napolitano-bis è un fatto inedito nella storia della Repubblica. E’ pur vero, però, che poche volte nel corso di questi quasi sessant’anni il sistema italiano ha avuto tanta paura. Lo scenario che si stava configurando, in effetti, rischiava di alterare in profondità la palude del sistema politico e dei suoi lacciuoli. L’elezione al Quirinale di Stefano Rodotà avrebbe prodotto, di per sé e per il Paese, una novità politica di rilievo storico.

Dal momento che nel caso il PD avesse votato per eleggere Rodotà il M5S avrebbe votato la fiducia alla nascita di un governo a guida PD, il contraccolpo politico e istituzionale che si sarebbe determinato avrebbe avuto l’effetto di una deflagrazione per il sistema di potere italiano. La riforma dello stesso, infatti, avrebbe subito un'accellerazione, cominciando proprio dalla riduzione immediata del potere d'interdizione della destra.

C'é poi il fronte delle politiche economiche e il loro riverbero europeo. Un governo che avesse anche solo parzialmente proposto un agenda di modifiche sostanziali nelle politiche per il lavoro e una riforma parziale di quelle fiscali, avrebbe già causato un oggettivo stop alla linea ultra-rigorista tedesca in vigore a Bruxelles. Un governo italiano che avesse puntato con decisione ad un cambio delle politiche di aggiustamento strutturale del debito avrebbe probabilmente innescato un effetto domino su Francia, Spagna, Grecia, Portogallo e Cipro. Si sarebbe forse messo in discussione il dominio assoluto della Germania sull’Europa e questo avrebbe visto il favore degli USA, che vedono le politiche recessive di Bruxelles come freno alla loro ripresa economica.

Non sarebbero mancate le note giaculatorie sui mercati e sull'Italia che rischia di affondare non appena ci si discosta dall'agenda Monti. Ma sono in molti a ritenere che la pur possibile reazione rabbiosa dei fondi speculativi ad una inversione di tendenza nelle politiche di rientro del debito sarebbe stata annullata dal sostegno dei mercati ad un nuovo indirizzo di politica economica che tiri fuori l’Europa del sud dalla recessione. Non perché improvvisamente i mercati siano divenuti attenti agli equilibri socio-economici che puntellano il sistema dell’organizzazione sociale e politica dei paesi, ma perché dalle economie in recessione non è possibile trarre profitti nemmeno con le manovre di Borsa. Solo il recupero della capacità produttiva di un paese e la rigenerazione della domanda interna per far ripartire i consumi, la produzione e con essa anche l'export può determinare una ripresa economica sulla quale, poi, si può operare, tanto industrialmente come finanziariamente.

C’era la possibilità di vedere Rodotà al Quirinale e Bersani a Palazzo Chigi, sarebbe bastato attendere altre votazioni. Il combinato disposto di Quirinale e Palazzo Chigi in mano alla sinistra avrebbe condannato gli sconfitti delle ultime elezioni a rimanere tali per parecchio. Ma un governo a guida PD che oltre ai voti di SEL si fosse dovuto mantenere con quelli determinanti del Movimento 5 Stelle ha decisamente impaurito l’establishment. La scarsa propensione alla mediazione e la decisa tenacia con la quale i grillini dimostrano di voler affondare il coltello del cambiamento nella paralisi del sistema ha spinto il sistema stesso ad una reazione di paura. Il ricorso a Napolitano e la decisione di dare vita ad un governo di unità nazionale, somiglia molto al tentativo di una classe politica sconfitta e priva di prospettive, di mettersi al riparo delle mura del castello dall’alto delle quali pensa di ricacciare indietro le orde del rifiuto e della contestazione.

Per questo ci si affida ad un Presidente quasi novantenne, che avrà con tutta evidenza difficoltà di vario genere a terminare il suo mandato. Ma l’importante era fermare il pericolo ora, alle porte di Bisanzio. L’idea che il programma possa essere quello indicato dai saggi indica con chiarezza cos’ha in testa Napolitano: un piano di riassetto finanziario che veda il proseguimento delle politiche del governo Monti; una riforma della giustizia destinata a garantire il capo della destra italiana per il quale, eventualmente, è pronta la nomina di senatore a vita e, con essa, l’immunità richiesta; una politica estera a sostegno delle avventure militari statunitensi; una riforma della politica che produca cambiamenti insignificanti e che garantisca la sopravvivenza dei partiti e della loro stock option sull’Italia.

Per questo Napolitano torna in campo, facendo finta di non averne voglia. E per questo non è passato Rodotà e non sarebbe passato nemmeno Zagrebelsky. Perché un Presidente della Repubblica che, leale alle prerogative costituzionali, avesse avuto le mani libere nella scelta circa il far proseguire o no la vita della legislatura di fronte all’empasse politico, spaventava. Con eventuali nuove elezioni l’area critica anti-sistema potrebbe seppellire definitivamente - o comunque rendere infinitamente problematico il suo recupero - l’establishment politico, già falcidiato dall’ultimo voto popolare. Qui sta la corsa sotto l’ala protettiva di Napolitano. Il garante dell’establishment è lui; con lui l’Italia non imboccherà il processo di riforme politiche ed economiche destinate a cambiare il Paese. La casta tira un sospiro di sollievo, gli italiani no.

di Rosa Ana De Santis

Sono arrivati persino nella tv rassicurante della domenica pomeriggio della Rai i nuovi poveri. Ex commercianti, padri separati, persone giovani che sono costrette ad andare alla Caritas per un pasto caldo e per un letto. Storie normali che proprio per questo tratto non eccezionale battono il tempo di un tempo che è cambiato. Un milione di famiglie non vive attraverso il reddito da lavoro: un numero allarmante e doppio rispetto alle stime del 2007.

E’ l’Istat a raccontare questa Italia del 2012 che è fuori dal mercato e dall’occupazione e che vive di entrate saltuarie o di misere pensioni. In questa quota ci saranno sicuramente dei privilegiati che possono contare su varie rendite, ma non sono certamente loro la quota significativa di questa ferita profonda della società italiana che conta un  aumento del ben 32%.

Anche per questo la sconfitta e l’implosione di quello che doveva essere il partito di riferimento della sinistra fa ancora più male e assume connotati più gravi. Sono 955 mila i nuclei familiari in queste condizioni e, soprattutto perché senza concrete vie di uscita, diventano un esercito, una mina vagante, un rischio anche per la tenuta democratica del Paese.

La politica, ovviamente, non fa una piega. Aver individuato in Napolitano, grande protettore del governo Monti e dominus del prossimo governissimo, l’unica soluzione possibile alla profonda crisi politico-istituzionale significa non aver individuato nel lavoro e nella crescita le priorità assolute per salvare il paese dal tracollo, non aver colto l’urgenza del cambiamento, ma l’aver avallato il metodo della continuità con il rigore e la finanza in cima alla lista della spesa nazionale.

E’ questo forse quell’elettorato esasperato che ha espresso la protesta votando Grillo il quale per ora, nonostante qualche inciampo da eccesso di entusiasmo, riesce a governare l’ebollizione di un popolo vessato e impoverito dove i poveri non sono più i disagiati e gli emarginati di anni fa, ma normalissimi cittadini senza lavoro, con figli a carico, e una casa che non riescono più a pagare e una spesa alimentare da Italia post bellica.

E se è la Caritas, come è, ad occuparsi di costoro è evidente che il welfare non tiene più. Del resto agli esodati non sono state date opzioni, il sistema della cassa integrazione non regge e i servizi pubblici assistenziali non arrivano a soddisfare la domanda. Il combinato di questi elementi con la restaurazione al governo fa dell’Italia una pentola a pressione come mai nella storia degli ultimi anni.

Qualcuno, sempre meno a dire il vero, investe speranza nel congresso futuro del PD, qualcuno dovrà fare i conti con la matematica politica, che assegna ancora al vecchio Cavaliere perdente un ruolo vincente o, per lo meno, un primato importante. Qualcuno (ancora troppo pochi) è pronto alla piazza della protesta.

E mentre si prepara il governo del Presidente viene in mente che forse per una volta nella storia italiana è la Chiesa ad aver capito, prima dello stato laico, quanto fosse urgente una svolta per non bruciare definitivamente il futuro della Casa di Dio e la fede dei suoi credenti. Questo mentre l’Italia non ha saputo fare altro che richiamare un presidente emerito indietro e un club di ragionieri per rispondere all’Europa e sempre meno e meno bene al bisogno di speranza o peggio ancora alla rabbia della disperazione targata Italia.

di Fabrizio Casari

Il PD non c’è più. Il Colle si è rivelato ostacolo non superabile. Tra decisioni incomprensibili e indigeribili, in una alternanza folle tra la ricerca del consenso del PDL e il suo opposto nel giro di ventiquattro ore, tra franchi tiratori e rifiuto francamente impossibile da comprendere della ricerca di una convergenza con il M5S, è andato in scena negli ultimi tre giorni il suicidio del PD a reti unificate. In poche ore l’assenza di una linea politica, sommata all’imperizia totale di manovra, è riuscita a bruciare prima i suoi fondatori, poi i suoi candidati, quindi il suo presidente e segretario generale. Non si ha memoria, nella storia politica del Paese, di una siffatta, rovinosa debacle. Solo la DC di Martinazzoli riuscì a sciogliersi con un fax, ma in quel caso si trattava di un partito ormai morto e quel fax era più che altro il suo certificato di avvenuto decesso.

Quello che è venuto al pettine è il nodo più importante: l’incapacità di trasformare storie diverse, ambizioni diverse, percorsi persino distanti e antagonisti in un unico progetto politico. E’ insieme il fallimento strutturale del PD ma,  contemporaneamente, l’unico elemento di chiarificazione politica nelle convulsioni di questi giorni sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Dopo essere riusciti a perdere l’opportunità di governare, subendo il diktat di Napolitano e dei mercati e aprendo la porta alla tragedia del governo Monti, il PD era riuscito a perdere anche elezioni che potevano esser vinte e, infine, da maggioranza possibile è riuscito a diventare minoranza certa e frastagliata nel voto per il prossimo presidente della Repubblica. Franchi tiratori e imperizia politica, confusione tattica e assenza di un disegno strategico, sono stati il combinato disposto di tutti i limiti strutturali di un partito senza identità e ricco di ambiziosi, aspiranti leader.

La resurrezione dei vizi peggiori è stata evidente: il correntismo all’interno e la disponibilità all’inciucio all’esterno, si sono dispiegati senza nemmeno la capacità di ascoltare quanto si urla da fuori. Non solo dalla volontà popolare che dalle urne spinge fortemente verso il cambiamento, ma persino verso la sua base militante, che pure veniva accreditata di grande peso all’indomani delle primarie che avevano scelto Bersani.

Mai, nella pur breve storia del PD, i militanti erano stati costretti ad occupare le loro sedi per obbligare il gruppo dirigente ad ascoltarli, perché mai, come ora, così profondo e violento è lo scollamento tra vertice e base. Quest’ultima, che sul territorio tentava di tenere in piedi ciò che non può starvi e che ha contato uno a uno i milioni di voti venuti meno, assistendo impotente al consenso spostatosi verso Grillo, si sono sentiti orfani del loro partito, anche solo di quello che gli sembrava esserlo e magari non sentivano più così loro fino in fondo.

Un atto d’amore, forse l’ultimo, quello dei giovani del PD. Una protesta da sinistra cui i media hanno tentato d’infilare la camicia dei renziani. Così non era. Chi si è avvicinato a parlare con chi occupava ha potuto rendersi conto di come fossero tutt’altro che vicini al sindaco di Firenze.

E’ emersa con chiarezza, in queste ore, una differenza di aspettative tra la base elettorale e la stessa militanza e la linea politica manovriera ed inciucista del suo gruppo dirigente. E’ emersa, in buona sostanza, la scollatura tra i vertici del PD e il suo elettorato, decisamente orientato più a sinistra di quanto non lo siano i suoi dirigenti e certamente più sensibile al vento del cambiamento e alla riforma della politica rispetto alla volontà di arroccamento della casta, al pervicace reiterarsi dei peggiori riti della politica politicante ai quali invece il gruppo dirigente del PD non ha saputo né voluto rinunciare.

Emblematico di tutto ciò l’inspiegabile rifiuto di votare Stefano Rodotà. Un giurista di valore assoluto, di notevole esperienza politica e istituzionale come di riconosciuta indipendenza, apprezzato dal popolo di sinistra e rispettato anche dagli avversari. Un profilo che si adatterebbe al meglio alle caratteristiche necessarie per un Presidente della Repubblica davanti ad una fase, come quella che ci attende, nella quale proprio la centralità della Carta Costituzionale dovrà rappresentare il timone fermo con il quale indirizzare la navigazione del sistema politico verso la sua riforma.

Quel che resta del PD, non può e non deve perdere l’occasione di aprire la porta al rinnovamento e alla riconnessione sentimentale con il proprio popolo, aprendo una stagione di collaborazione non tanto con il M5S in quanto aggregato politico, ma con quei 27 milioni di italiani che si sono mobilitati, vincendo, sui temi dei beni comuni e sul recupero della sovranità popolare contro il mercatismo becero truccato da liberalità.

In queste ore prende corpo l’ipotesi della Cancellieri. L’attuale Ministro dell’Interno, persona per bene e competente, rappresenta però la riproposizione delle larghe intese, in uno scenario che vede la destra, minoritaria in Parlamento, capace di determinare una scelta che risulterà la meno dolorosa possibile per i suoi interessi. La Cancellieri rappresenta un ulteriore, tragico passaggio, del sopravvento dei presunti tecnici sulla politica.

Sembra ci siano una parte dei parlamentari del PD che sarebbero disposti a votarla e, probabilmente, si tratta di coloro i quali hanno già pronti il giubbotto salvagente che li porterà dalla nave incagliata del PD verso la barca ridipinta del Grande Centro di Monti e Casini. Sarebbe un errore drammatico e ci auguriamo che una siffatta votazione resti tra le speculazioni politico-giornalistiche, volendo ipotizzare per la scelta politica di riaggregazione del Grande Centro un percorso alla luce del sole che determini, pubblicamente, la separazione definitiva da un matrimonio che non s’aveva da fare.

Ma resta comunque in piedi l’anima maggioritaria di quello che fu il PD e che è ora chiamata a dimostrare quale futuro intende prefigurare. Aprire a Rodotà significherebbe inviare un messaggio forte di autocritica e di utile, per quanto tardiva, comprensione di quanto l’Italia del lavoro e dei diritti si attende da chi dovrebbe rappresentarli. Rodotà sarebbe la scelta giusta se solo si volesse indicare per i prossimi sette anni una guida giuridica e politica fedele alla Carta Costituzionale, indisponibile a forzature e sovrapposizioni tra Costituzione e riforma strisciante della stessa. L’Italia, del resto, proprio nella prossima fase politica, contrassegnata da crisi economica, politica e sociale, più che in passato avrebbe bisogno di un Colle che fosse strumento primo e decisivo di garanzia per l’ordine costituzionale.

Nello stesso tempo il PD, votando Rodotà, ha l’ultima occasione di autoriformarsi, di mettere in pista i presupposti del suo superamento in avanti, verso un nuovo soggetto politico che ponga sulla scena l’ineludibile necessità di una forza che rappresenti il mondo del lavoro, dei diritti civili e dell’inclusione sociale. Una forza di sinistra senza se e senza ma. Ci sono due modi di uscire di scena: con una disfatta o con un passo indietro utile a farne due in avanti. Scegliere la Cancellieri sarebbe coerente con il primo, votare Rodotà sarebbe invece l’atto di nascita del secondo. Votare Rodotà oggi, è l’unico modo di prefigurare un partito domani.

di Fabrizio Casari

Governissimo, larghe intese, grosse koalition, chiamatelo pure come preferite e come fantasia suggerisce, ma a detta del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sarebbe questa la via maestra per la soluzione della crisi politica e istituzionale italiana. Nel suo ultimo intervento, l’inquilino del Colle, cercando di far leva sulla nostalgia berlingueriana residua nel partito di Via del Nazareno, propone un collegamento tra la situazione attuale e quella del 1976, quando - afferma Napolitano - c’era chi governava e chi consentiva di governare. Un paragone storico decisamente fuori luogo, quello del Presidente, che volutamente o involontariamente non coglie le differenze enormi di fase storica, protagonisti politici e situazione istituzionale.

Il compromesso storico era, in origine, una discutibile ma inedita tesi sulla necessità d’incontro tra due delle tre grandi famiglie del pensiero politico europeo: quella socialista e quella cattolica. Giusta o sbagliata che fosse, l’analisi partiva della necessità di superare lo stallo politico con il quale governo e opposizione erano cristallizzate, essendo l’Italia soggetto decisivo dello scontro internazionale tra i blocchi ed il PCI prima ed esclusiva vittima del cosiddetto “fattore K”: così definì Alberto Ronchey sulle colonne del Corriere della Sera l’ostracismo palese e occulto dei poteri forti italiani ed internazionali in chiave anticomunista.

Prendendo spunto dall’esperienza cilena di Salvador Allende e del suo governo di Unidad Popular, soffocato nel sangue dal golpe di Pinochet nel settembre del 1973, Enrico Berlinguer, memore della lezione togliattiana sulla società italiana che non poteva vedere una maggioranza elettorale assoluta per la sinistra, ansioso di porre fine alla strategia della tensione e alla stagione dei golpe striscianti, che avevano aperto in Italia la possibilità di un processo di militarizzazione del conflitto socio-politico con potenziali uscite imprevedibili e pericolose, proponeva alla Democrazia Cristiana un compromesso storico che rinsaldasse il Patto Costituzionale ereditato dalla fase costituente e, sotto la spinta delle organizzazioni popolari e dei sindacati, aggiornasse in senso progressista il nuovo patto sociale, fornendo così un livello di governabilità e stabilità politica al paese.

Non è certo in poche righe che può essere affrontato il tema, ricco di richiami ideologici e politici, oltre che storici, che un’analisi compiuta dovrebbe mettere in campo. Ma quello che si può dire è che se il tentativo appariva ingenuo allora, visto che gli USA non volevano minimamente negoziare la loro posizione di proconsoli dell’impero e mai avrebbero mollato un paese così straordinariamente importante sotto il profilo geopolitico (la morte di Moro, tra molte altre cose, ne definì l’impraticabilità) oggi appare addirittura improponibile per una serie di considerazioni.

In primo luogo non c’è il PCI, che pur dall’opposizione cambiò l’organizzazione sociale e culturale del paese, (si pensi allo Statuto dei lavoratori, alla riforma della scuola e a quella sanitaria, al voto ai diciottenni, ai diritti civili e molto altro ancora). Ora, purtroppo, c’è un PD che obbedisce a Berlino, vittima del vuoto pneumatico politico ed ideale frutto di un partito nato in laboratorio da un esperimento sbagliato, che ha messo in condominio forzato i resti di due sconfitte pensando di trasformarli in una vittoria.

In secondo luogo non c’è la DC, partito interclassista, di potere, capace tuttavia di una sua laicità sul terreno della governabilità (mai, nemmeno con la maggioranza assoluta, ad esempio, la DC pensò all’equiparazione tra scuola pubblica e privata). In terzo luogo, il compromesso storico rappresentava comunque un’idea d’incontro tra due mondi e due culture con elementi comuni (la solidarietà sociale, l’ordine costituzionale e democratico) che oggi sarebbero decisamente orfani.

E oggi? Al posto del PCI, partito serio, con una dimensione identitaria, culturale e politica di spessore assoluto con cui la società italiana e il mondo del lavoro s’identificava, c’è il PD. Del PD abbiamo detto spesso: privo di qualunque identità ideale e di progetto politico, unione contronatura di filosofie diverse e senza spessore, appare come una sorta di ottimizzatore amministrativo più che come soggetto di una trasformazione. Alle soglie di una sua crisi profonda, la cui esplosione distruggerà il progetto fallimentare sul quale si era costruito, non sembra nelle condizioni di proporre una leadership politica al paese.

E ciò che fu la DC? Il posto della Democrazia Cristiana di quegli anni verrebbe preso da un partito-azienda di proprietà di uno degli uomini peggiori della storia italiana. Il PDL, miscela di avanzi fascisti, democristiani e pseudo-socialisti, non ha né la statura ideale, né il rigore etico, né tantomeno la decenza di una linea politica popolare che potrebbe consentire a qualunque forza democratica anche solo una breve stagione di collaborazione. Il partito che ha disprezzato il Parlamento e le istituzioni riducendo il paese ad una sorta di postribolo, praticando ad ogni dove ruberie e sequestri di legalità a favore degli interessi del suo capo e della cricca che lo accompagna, non può, in nessun caso, avere udienza presso una stagione che si vuole di rinnovamento.

Quale grande disegno riformatore della società italiana si assegna al PDL? L’ansia di co-governare con il PD è dettata unicamente da un obiettivo: garantire una sostanziale amnistia per il suo boss, non più in grado di scriversi leggi ad hoc per farla franca e salvaguardare l’immenso reticolato di potere che nel corso di un ventennio ha costruito e che l’ha tenuto in piedi. Per il primo aspetto l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica è vitale: è infatti il Capo dello Stato che ha la facoltà di firmare un decreto di nomina a Senatore a vita, garantendogli così l’immunità per sempre. Ma in attesa di vedere come andrà la partita per il Quirinale - e non è detto che si possa essere ottimisti a Palazzo Grazioli - l’urgenza immediata è fermare la legge sull’ineleggibilità, che potrebbe domani impedire il salvacondotto per Berlusconi. In aggiunta, il co-governo stopperebbe la legge anticorruzione, che ove passasse trasformerebbe una buona parte del PDL in una potenziale colonia penale.

E dunque perché mai il PD dovrebbe scegliere di suicidarsi alleandosi con il PDL? Il PD non ha stravinto le elezioni proprio in ragione del suo appoggio al governo Monti, cui ha versato sangue e credibilità (ormai impossibili da recuperare se non con lo scioglimento dell’inutile, dannosa avventura e la ripartenza con ben altro profilo politico e ben diversi riferimenti culturali). Qualunque ipotesi di accordicchio con il PDL farebbe implodere quel che resta del partito.

Il tentativo di Napolitano si scontra con la realtà, con una analisi anche minima del quadro complessivo ma, come già per la nomina del governo Monti, il Presidente ritiene che il suo partito debba essere l’agnello sacrificale per le sue opinioni. Ma perché oltre ad aver arrostito a fuoco lento Bersani, Napolitano pensa di poter far evaporare del tutto il suo partito, che da un’operazione comune con Berlusconi ne ricaverebbe la sua riduzione al 10-15% dei voti e ne assegnerebbe, come d’incanto, 40% a Beppe Grillo?

Lo scenario post-elettorale dovrebbe aver lasciato chiaro a tutti, Quirinale compreso, come la rottura della connessione sentimentale tra elettori e partiti politici sia ormai difficile da ricucire. Riproporre un governissimo solo per far contenti i poteri forti in attesa di sguinzagliare nomine e fondi, significa non aver compreso nulla della crisi italiana. Significa voler procedere imperterriti e a velocità folle sul viale del tramonto, al cui termine c’è solo una scogliera. Con il Movimento 5 stelle unico ad essere dotato di deltaplano.


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