di Mariavittoria Orsolato

I francesi lo avevano ventilato poco meno di un anno fa e lo scorso 27 giugno è arrivata la conferma: il tratto ferroviario ad alta velocità tra Torino e Lione, se mai esisterà, non si farà prima del 2050. La Commissione Duron - da Philippe, presidente dell'Agenzia di Finanziamento per le Infrastrutture e i Trasporti  (AFITF) - nel suo ultimo rapporto ha classificato il progetto Tav tra Italia e Francia tra le priorità di secondo livello, rimandando i lavori a data da destinarsi.

A convincere l'amministrazione francese a riconsiderare il suo impegno per la linea Torino-Lione è stata fondamentalmente la mancanza di fondi. In un'intervista a L'Usine Nouvelle, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault ha spiegato come, nello stato attuale di crisi, lo Stato non possa sobbarcarsi più di 250 miliardi di euro di investimenti per costruire infrastrutture nei prossimi 20 anni.

Lo scorso anno il ministro del bilancio Jerome Cahuzac, aveva ordinato alla Commissione  Duron di classificare le linee TGV in base alle priorità e la ghigliottina è razionalmente scesa sulle linee più costose e non ancora iniziate: l'investimento francese per la Torino-Lione ammontava a 12 miliardi di euro e, anche grazie alla strenua resistenza in Valsusa, da entrambi i lati delle Alpi gli scavi non sono ancora cominciati.

Facile dunque accantonare il progetto, soprattutto in seno alle relazioni che vedevano il traffico commerciale sulla tratta crollare verticalmente nell'ultimo decennio - sconfessando le entusiastiche proiezioni all'origine della pianificazione - mentre i costi raddoppiare proporzionalmente. La stessa Corte dei Conti francese, interpellata dal primo ministro sull'opportunità di realizzare il collegamento con l'Italia, scriveva lo scorso 1° agosto: “gli studi (…) non prevedono una saturazione della linea storica prima del 2035, sulla base di una capacità massima di 15 milioni di tonnellate”.

La relazione dei revisori francesi continuava: “Secondo gli studi economici voluti nel febbraio 2011 da Lyon-Turin Ferroviaire (LTF) sul progetto preliminare modificato, il valore attuale netto è negativo in tutti gli scenari”, che siano di crisi o di ripresa. Insomma se una linea ferroviaria si rivela inutile e troppo costosa, il gioco non vale certamente la candela.

Al contrario del nostro governo, infatti, quello francese ha deciso di concentrarsi sulle infrastrutture destinate alla mobilità dei passeggeri - non delle merci - e si è dato dei termini entro cui realizzarle sulla base dell'urgenza, individuando quelle che sarebbero state realizzate da qui al 2030 e quelle a cui pensare tra il 2030 e il 2050.

Se le linee in fase di attuazione sottolineano l'importanza dell'asse nord/sud - le linee TGV in fase di realizzazione collegheranno Parigi al sud della Francia - la Torino-Lione viene relegata tra i progetti a data da destinarsi. Anche perché posizionata sulla direttrice est/ovest, il celeberrimo quanto inconsistente Corridoio 5, abbandonata come ipotesi d'investimento commerciale sia dal Portogallo che dall'Ucraina.

Il problema dei costi e dei conseguenti fondi è in verità comune a tutti i Paesi interessati dal Corridoio 5, l'Italia ha però deciso di affrontarlo a testa bassa, impegnandosi con il governo Monti a finanziare comunque il progetto (ben poco modificato) dell'alta capacità. Anche per l'attuale governo “delle larghe intese” la Tav s'ha da fare a qualsiasi costo: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi, solo due mesi fa, assicurava che la ratifica degli accordi con i cugini d'oltralpe era ormai una formalità e che i lavori sarebbero cominciati “senza ulteriori tentennamenti”.

Ma l'accelerazione caldeggiata dagli irriducibili del SiTav deve ora fare i conti con le conclusioni cui sono arrivate le istituzioni francesi. Entro il prossimo 10 luglio, infatti, la commissione esteri dell’Assemblée Nationale dovrà decidere se approvare, modificare o rifiutare l’intesa con l'Italia - oltralpe, evidentemente, il mantra “ce lo chiede l'Europa” non funziona - e, se queste sono le premesse, è quasi scontato che la Francia verrà meno a quanto promesso fino ad ora e rimanderà ogni decisione sulla Torino-Lione a dopo il 2030, quando il progetto originale compierà 36 anni.

Se per il movimento NoTav, questa può essere considerata sicuramente come una vittoria, dall'altro  lato amareggia leggere i numeri riguardanti la questione Alta velocità che la Procura di Torino ha reso noti nelle scorse settimane: 123 i fascicoli e 707 gli indagati negli ultimi tre anni per diversi episodi legati alla vicenda della Tav, centinaia i fascicoli aperti contro ignoti.

I reati contestati sono principalmente di danneggiamento, violenza e resistenza a pubblico ufficiale ma nei giorni scorsi sono arrivati anche avvisi di garanzia per stalking. Il reato solitamente connesso al femminicidio è stato applicato a quattro attivisti NoTav, tra cui Lele Rizzo di Askatasuna e l'avvocato Pierpaolo Pittavino, accusati di aver minacciato un operaio impiegato in una delle ditte presenti al  (non)cantiere di Chiomonte.

In Italia le istituzioni tutte, dal Parlamento alla polizia fino alla magistratura, sono evidentemente impegnate ad avvallare ad ogni costo - anche minacciando di applicare la legge Reale - il progetto della Torino-Lione. Ora che la Francia pare fare un passo indietro quali saranno le “ragioni imprescindibili” che motiveranno la realizzazione della ferrovia? Di una linea ad alta velocità Torino-Bardonecchia il Paese non ha certo bisogno, la Valsusa meno che mai.


di Fabrizio Casari

Dopo oltre ventisei mesi di dibattimento, 50 sedute e sette ore di camera di consiglio, il verdetto è durissimo: condanna a sette anni per concussione (in costrizione) e prostituzione minorile, interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale durante tutto il tempo previsto dalla pena. La sentenza emessa dalla quarta sezione del tribunale di Milano nei confronti di Silvio Berlusconi è entrata come un treno in corsa nella galleria del sistema politico italiano.

Assurda, dicono i peones berlusconiani, giusta ribadiscono dal M5S e altri. Certo è pesantissima, superando persino le richieste dei pm. Alla fine di un dibattimento nel quale ogni trucco difensivo è stato messo in atto, la Corte ha evidentemente deciso di fidarsi molto delle intercettazioni e molto meno delle dichiarazioni ad orologeria che hanno contraddistinto le testimonianze delle olgettine.

Sono state centinaia le dichiarazioni dei suoi dipendenti a vario titolo allocati che hanno gridato di tutto e di più: dal “colpo di stato” “all’assurdità”, dalla “sentenza già scritta” a “sentenza vergognosa”, mentre la linea che la difesa ha ribadito è sostanzialmente racchiudibile nella mancata imparzialità del Tribunale di Milano. Una conferma alla richiesta sempre reiterata di “legittima suspicione”, argomentata con una presunta incompatibilità ambientale tra la Procura di Milano e l’imputato. In realtà la “legittima suspicione” è sostenibile solo di fronte ad una situazione socio-ambientale compromessa, mentre è meno credibile un’ipotetica ostilità di una Procura e di una magistratura giudicante di un’intera circoscrizione verso un singolo imputato.

I reati per i quali Silvio Berlusconi è stato ritenuto responsabili sono gravissimi nella sostanza e penosi esteticamente; nemmeno nell’ultima delle repubblica delle banane un premier avrebbe avuto i comportamenti pubblici e privati, la sovrapposizione grave e continuata tra i suoi pessimi gusti personali e l’autorità delle sue cariche istituzionali come è avvenuto in Italia.

Del dispositivo della sentenza, però, la parte più densa di ripercussioni sullo scenario politico italiano si riferisce all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Partirà ora il ricorso e, fino a sentenza definitiva, l’imputato Berlusconi sarà comunque innocente avendo solo contro di lui una sentenza di primo grado, ma le implicazioni politiche e giuridiche sono incontestabili.

E non ci si può dimenticare poi che i sette anni di ieri si sommano ai quattro anni ai quali è stato condannato per il processo per i diritti Mediaset oltre alle altre vicende processuali già note. La sentenza di Milano è destinata a ripercuotersi pesantemente sulla durata del governo Letta. Non è un caso che Cicchitto, uno dei pochi che insieme ad una scarsa dose di vergogna dispone comunque di sufficiente cultura politica, ha denunciato la sentenza come un atto da “tribunale speciale” destinato a destabilizzare la politica italiana e lo stesso governo delle larghe intese.

Quali saranno i temi e i tempi sui quali il governo Letta dovrà misurarsi con la rottura del PDL è però presto per dirlo. I senatori che hanno abbandonato il M5S ed altri che potrebbero farlo nei prossimi giorni, determineranno un equilibrio di forze al Senato diverso da quello nel quale è nato il governo delle larghe intese e non è impossibile ipotizzare che, nel caso il PDL dovesse uscire dalla compagine governativa, nuove maggioranze potrebbero comporre un nuovo governo.

Berlusconi, che vede più lungo dei suoi caporali, ha ovviamente reagito alla sentenza affermando la sua volontà di “non cedere”, ma non c’è dubbio che dopo la scontata fine di ogni ipotesi quirinalizia, per lui la sentenza significa l’abbandono definitivo di ogni ipotesi di elezione a senatore a vita. Napolitano si è così tolto dall’imbarazzo. Anche nell’ipotesi (difficile) che il secondo grado di giudizio possa vedere un ribaltamento completo della sentenza di ieri, passeranno anni nei quali sarà politicamente e giuridicamente impossibile anche solo pensare alla nomina di senatore a vita.

Nomina che corrispondeva da un lato all’ambizione politica e dall’altro ( e soprattutto) all’intenzione di guadagnarsi una sorte di amnistia di fatto che chiudesse definitivamente ogni percorso della giustizia italiana verso di lui. Sembra chiudersi invece il cerchio: le donne hanno rappresentato l’ossessione del suo ego malato e tre donne lo hanno ripiombato nella realtà. Sette ore di camera di consiglio lo hanno trasformato da aspirante statista a condannato a vita.


di Rosa Ana De Santis

Il linguaggio della politica, che ormai da quasi venti anni ha subito un progressivo svilimento di toni e contenuti, nell’ultimo periodo ha offerto una misera rappresentazione dell’oscena volgarità che tanti uomini e donne di partito non hanno più vergogna di esibire. Voci da stadio, da tifoserie inferocite, discorsi da bar. Ultimo, in ordine di tempo, l’immancabile Borghezio, sospeso dal gruppo Europa della Libertà e della Democrazia, per gli ultimi insulti al Ministro dello Sport, Josefa Idem. “Puttane” questo il termine con cui appella un Ministro della Repubblica e i suoi avversari politici: uomini o donne che siano.

Sempre lui si era unito al coro degli insulti razzisti dagli inizi dell’incarico del Ministro per la Cooperazione, Cecilie Kyenge, quando aveva annunciato la proposta di legge sullo ius solis. E sempre contro di lei era addirittura arrivato  dalla pagina facebook, in una battuta di rabbia - come ha provato a difendersi Dolores Velandro consigliera della Lega a Padova - una frase shock del tipo “Nessuno che stupri la Kyenge?”, come a voler rammentare che gli stupri avvengano solo per mano degli stranieri. La Lega Nord non è al corrente, evidentementi, dei numeri del femminicidio, che vedono mariti e fidanzati italiani doc carnefici delle loro donne: stupratori, stalker e killer spesso mandati in carcere con pene ridicole, altro che immigrati irregolari.

In Italia, doloroso riconoscerlo, avere un Ministro con la pelle nera, scatena reazioni xenofobe a tutti i livelli e senza pudore, dentro le stesse aule istituzionali o davanti alla stampa. Siamo messi proprio così, mentre andiamo a Berlino a raccontare di essere “molto europei”. Sono arrivati a darle dell’ “ebete” per aver detto che gli stranieri immigrati rappresentano una risorsa per l’Italia. E’ nata addirittura una simpatica disquisizione etimologica sul significato di ebete in dialetto veronese attraverso cui il segretario della sezione locale, Marco Pavan, ha provato penosamente a salvare la faccia di un partito ormai sempre più sovrapponibile a un manipolo di beoni da osteria.

E’ormai diventata un’emergenza democratica vera e propria, troppo sottovalutata, quella di un partito che insulta un Ministro del governo e si fa portavoce delle più basse  e meschine sotto idee razziste. Non che la storia della Lega sia nota per pensiero di spessore e raffinata diplomazia, ma mai si era arrivati al coro dell’insulto tanto volgare nei riguardi di un Ministro che ha la colpa di non essere bianca e di rappresentare tutto quello che il Carroccio non vuole: un Paese di seconde generazioni e multiculturale.

La parabola dell’orrore razzista aveva visto un altro pregiato esemplare nel post di una candidata leghista di Monza che sulla tragedia del canale di Sicilia e degli immigrati sopravvissuti aggrappati alle gabbie dei tonni aveva scritto quanto fosse un danno per gli italiani onnivori e vegetariani privarsi dei tonni piuttosto che salvare le vite dei migranti.

Anche questa volta il segretario della Lega Nord di Monza ha preso successivamente le distanze, ma la ferocia di certe troppe affermazioni è diventata a tutti gli effetti un leit motiv purtroppo prevedibile e tollerato. Una nota stonata con gli appelli di accoglienza che sono arrivati dal presidente Napolitano e dalla Boldrini alla vigilia della giornata del rifugiato.

Se la questione è quella della legalità basta ricordare ai Borghezio di occasione che sono i padroncini italiani a voler mantenere gli stranieri in clandestinità garantendo la sopravvivenza di un autentico sistema di capolarato che non fa eccezione al Nord del Tevere, anzi. Succede in Franciacorta e sulle colline di Brescia per la vendemmia. Succede che gli stranieri lavorino mesi e mesi per leggere in busta paga di qualche giornata, succede che la paura alimenti un sistema di bieco sfruttamento che fa guadagnare soltanto i padroncini nazionali in una modalità che non era certamente quello che intendeva il Ministro Kyenge quando parlava di risorsa per la nostra economia.

Ma se la Lega vanta un glorioso primato di xenofobia, il vento del razzismo, come sempre accade nei periodi di crisi e come la storia insegna, non risparmia proprio nessuno. E’ stata infatti Caterina Marini, consigliera di Prato del PD, a scrivere su facebook ”Extracomunitari ladri dovete morire subito”. La frase, a seguito di un momento di rabbia personale, è stata subito cancellata, ma il PD sta maturando l’idea di espellerla.

La zona di Prato vive una conflittualità altissima con il lavoro straniero della comunità cinese, che ha ucciso di competizione sleale e illegale il tessile su cui la provincia viveva ed è come tante altre zone italiane spremuta dalla crisi con l’inevitabile odio sociale tra poveri che si chiama razzismo e xenofobia. Ma è doveroso alzare il livello di guardia quando sono figure politiche, partiti e istituzioni a tutti i livelli, e non la gente comune, a diventare il megafono di sentimenti di pancia pericolosi e bassi.

L’emergenza reale è questo abbassamento della politica all’ordinarietà popolare e le parole, come teorizzava Habermas, sono fatti. Fatti che insegnano che la politica, aldilà dei colori, non sa più guidare, istruire, assegnare un progetto alle azioni del giorno. Non sa più aggiungere un orizzonte al provvedimento di turno. E’ questa fine dell’idea a consegnare, specialmente le persone più semplici, all’illusione che l’odio per la differenza sia la cura della propria miseria.

di Fabrizio Casari

L’ultima a ricevere il regio-decreto di espulsione è stata Adele Gambaro, senatrice, colpevole di aver detto ciò che pensa e non ciò che gli è permesso dire. Espulsa da un ridicolo referendum via web che ha fatto seguito ad una ancor più ridicola riunione dei parlamentari del M5S che sembrano non riuscire a fermare la tendenza al grottesco. Di espulsione in espulsione, di scissione in scissione, ciò che fu assoluta novità politica delle ultime elezioni sta progressivamente diventando una vicenda tragicomica.

Autoavvitatosi su se stesso, il M5S continua da mesi ad offrire uno spettacolo penoso sotto il profilo delle più elementari norme di democrazia interna. Sanzioni verso chi pensa, espulsioni verso chi parla, gogna mediatica per chi addirittura “dissente”. Il loro capo, Beppe Grillo, minaccia, grida, insulta e accenna a presunti ritiri del simbolo; somiglia ormai sempre più al “Caro leader” Kim-Il-Sung in versione 2.0 e i meccanismi di discussione interna al movimento appaiono sempre più come copie del modello nordcoreano.

Grillo ormai sembra in preda dei suoi istinti isterici; non riesce più a parlare ma solo a urlare e, nel pieno di una crisi da ego ipertrofico, indice referendum su se stesso e invoca il pubblico ludibrio a chi osa criticarlo. In un rovesciamento folle del primato tra il primario e il secondario, può divenire capogruppo la “cittadina” Lombardi che scopre nascoste virtù nel fascismo ma non può rimanere nel gruppo chi ritiene che sia Grillo a sbagliare. E’ probabile del resto che un modello di organizzazione che prevede il Capo e gli adepti, non possa avere diverso delinearsi e quello dei partiti personali è ormai un virus diffuso che vede nella dialettica politica e nella democrazia interna le sue prime vittime.

Grillo, bisogna ammetterlo, si è trovato assolutamente spiazzato dai risultati elettorali, che mai avrebbe previsto nella portata quantitativa poi verificatasi. L’assoluta incapacità politica, miscelata con un senso d’onnipotenza, è stata la combinazione fatale che gli ha fatto perdere la rotta insieme alla ragione.

Una flotta di eletti senza capo né coda, in molti casi privi di ogni cultura politica e istituzionale, si sono trovati alle prese con problemi enormi nel processo di trasformazione dalle urla e dai luoghi comuni in proposte politiche concrete e il loro guru, come uno Schettino qualunque, li ha portati a rovesciarsi su un fianco. La diaria e i rimborsi, lo streaming (ma solo per gli altri), i denari di cui non si parla e le liti da cortile interne per un po’ di visibilità hanno sostituito proposte e azioni che avrebbero dovuto rappresentare la nuova politica.

Si deve però precisare, per chiarezza, che quando si parla di “grillini” s’incorre in errore: i grillini non esistono, esistono Grillo e Casaleggio. Sono loro che decidono, loro che dispongono, loro che designano e loro che ammoniscono e sanzionano. Esistono, e sono numerosi e degni di assoluto rispetto, gli elettori del M5S, ma non il M5S.

La storiella dell’uno che vale uno è roba per web-gonzi. Come quella della trasparenza nelle decisioni, che propone in diretta web le riunioni con gli altri partiti, ma nulla fa sapere delle riunioni interne, soprattutto quando sono indette per dare luogo a rese dei conti. Il che non toglie valore ad alcune delle loro proposte né riduce il peso degli errori e delle castronerie già abbondanti; semplicemente dà a Grillo quel che è di Grillo.

In qualche modo, l’involuzione rapida del “grillismo” non è una sorpresa assoluta; in fondo, del ventennio berlusconiano Grillo è un prodotto, per quanto s’immaginava un percorso diverso. Solo dopo questo ventennio di ubriacatura totale delle coscienze, di azzeramento pressocchè definitivo della dignità di nazione, della nostra stessa storia, ha potuto affermarsi un modello di partito personale a struttura proprietaria, amministrato come un’azienda e concepito come una protesi degli interessi del padrone.

Con la distruzione delle identità popolari è venuta meno l’idea di partito come intellettuale collettivo, come comunità di uguali e come luogo di studio e di militanza, di elaborazione, di analisi e proposte destinate ad un progetto politico e ideale. Quell’idea della politica è stata azzerata dall’ingresso sulla scena di miliardi e televisioni, di guitti e capocomici, di ribaltonisti di professione, revisionisti a tempo pieno e affaristi dal fiuto sviluppato e dalle potenti mascelle.

Nella crisi del M5S sembra di rivedere la storia di fenomeni come L’Uomo Qualunque, nel primo dopoguerra, e il più recente Patto Segni, meteore del gioco politico in poco tempo esplose e poi implose, fagocitate dal sistema e suicidatesi grazie agli errori dei suoi capi.

Un cupio dissolvi che però, nel caso del M5S, lascia l’amaro in bocca a chi ha creduto potesse essere l’inizio di una nuova storia. Ormai le accuse di complotto, le minacce via web e le espulsioni non fanno nemmeno più notizia, sono entrate a pieno titolo nel dizionario penoso del ceto politico, sancendo così la definitiva normalizzazione di ciò che si riteneva diverso dal resto.

Per chi, pur senza votarlo, aveva intravisto però nel Movimento 5 Stelle una possibilità di recupero dal basso delle ragioni per un nuovo impegno politico, che aveva trovato nell’idea orizzontale dell’organizzazione politica un modo per superare i sepolcri imbiancati delle consorterie di partito, è l’ennesima, cocente delusione. Li si voleva vedere all’opera, si voleva toccare con mano la praticabilità dell’utopia, l’irruzione gentile del male di vivere nelle segrete del privilegio.

Sì, la speranza è che il teatro dell’assurdo veda rapidamente la fine, che le energie migliori di questo percorso possano trovare un luogo libero da dove ripartire, ma la delusione è grande. Il rischio è che di fronte a tanto sprezzo del ridicolo qualcuno possa riassegnare, di converso, una qualche credibilità ai partiti attuali, così da delineare il danno oltre che la beffa. Ci si aspettava la fine di Berlusconi e grazie a manovrette alla Mastella ce lo troviamo al governo; ci si aspettava la cacciata del partito dei manager e ce li ritroviamo al governo anch’essi, benché trombati. Ci aspettavamo il governo del cambiamento e ci troviamo davanti alla realtà che non cambia, ci aspettavamo che il Movimento ci portasse allo scontro, salvo scoprire che si arena sugli scontrini. Andiamo avanti. Sarà per la prossima volta.

di Fabrizio Casari

Un sedici a zero è punteggio per il quale, normalmente, non servirebbero commenti. La forza dei numeri, come quella dei fatti, risiede nell’oggettività e mal si adatta a tentativi di piegarli verso un’interpretazione o un'altra. Ma la debacle del centrodestra e il trionfo del centrosinistra nelle amministrative necessitano comunque di alcune osservazioni a margine, se non altro per capire cause e riflessi si un voto che sembra così distinto e distante da quello delle politiche di tre mesi addietro.

Particolarmente significativa la vittoria di Ignazio Marino a Roma, che ha doppiato il sindaco uscente Ale-danno, mettendo così fine ad una amministrazione capitolina rivelatasi la peggiore nella storia della città. Ma complessivamente la vittoria del centrosinistra ha assunto forma di valanga. Un centrosinistra che sembra ritrovare una parte del suo elettorato e, spesso, si mobilita sul piano locale, cioè nelle occasioni di relazioni di prossimità maggiore tra elettore ed eletto.

Molti dei candidati del PD - Marino soprattutto - sono poi decisamente più progressisti e laici del profilo medio dei dirigenti nazionali del proprio partito e propongono accordi politici a sinistra invece che l’inciucio con il PDL. Se il PD però ritenesse che la vittoria dei suoi candidati segni l’inversione di tendenza e in qualche modo attenui dibattito e scontro congressuale, commetterebbe un marchiano errore di valutazione.

La destra, invece, si dimostra un contenitore vuoto. Oltre alla scarsa presentabilità di alcuni candidati, trova nell’assenza del suo leader dalla competizione l’assenza tout-court di affascinamento politico. Berlusconi, infatti, è l’unico a poter ingaggiare una competizione elettorale con capacità di proporre magari il nulla ma comunicandolo benissimo; le sue campagne, infatti, pur se sostenute da bocche di fuoco impressionanti della propaganda, si giovano comunque della sua capacità indiscussa sul terreno della comunicazione-marketing. Senza Berlusconi che la guida, la destra italiana è una marmaglia di capi bastone e picciotti senza spessore, che si mordono vicendevolmente per accaparrarsi la maggior quota possibile di bottino, ma risultano privi di qualunque capacità di seduzione. Evocano mazzette più che sogni.

Del resto, in vista del “rompete le righe”, gli ex-AN si sono costruiti il partitino domestico, il PDL è ormai tavolo sotto il quale si consumano le diverse rese dei conti e la Lega, pure impegnata nella guerra interna tra Bossi e Maroni, paga il malgoverno di questo ventennio nelle città del Nord. Il venir meno fisiologico prima che politico, della ledership di Berlusconi, se oggi lo si misura con la debacle elettorale a livello amministrativo, più avanti lo si verificherà nell’impossibilità di mantenersi come progetto unitario. L’uscita di scena di Berlusconi, infatti, porterà ai mille rivoli della destra, conseguenza inevitabile della miscela ideologica contenuta e controllata solo dalla difesa degli interessi del capo che, vincendo, garantiva tutti.

C’è poi da registrare il risultato non certo brillante del Movimento Cinque Stelle. Vittima del suo isolamento e della teoria sull’equidistanza nelle responsabilità del malgoverno tra destra e sinistra, in ogni elezione a doppio turno i voti che ottiene al primo non risultano spendibili per il secondo.

Perché il rifiuto di realizzare accordi di governo anche a livello locale con il centrosinistra (pure in certe aree molto meno lontano da ciò che le urla isteriche di Grillo provano a nascondere) privano il M5S di spazio di agibilità politica, ne minano nel profondo il valore d’uso.

E’ una dote, quella elettorale del M5S, non capitalizzabile perché non spendibile; un voto a perdere dove i grillini non hanno possibilità di vittoria diretta, cioè nella maggior parte dei casi. Di conseguenza, il primo partito italiano per numero di voti diventa anche il più inutile in un panorama politico frammentato dove l’impraticabilità della relazione con gli altri partiti non rende possibile nessuna alleanza.

C’è da dire che è ben comprensibile la volontà di non costruire relazioni ed alleanze: passare da una maggioranza relativa teorica e numerica, ad una maggioranza assoluta politica e programmatica, comporta la sfida del governo. E governare significa sporcarsi le mani, passare dalle urla ai ragionamenti, dall’ipotetico al praticabile, dalla suggestione alla viabilità delle idee; tutto cambia. Un vaffanculo non è un programma e a volte, oltre che un grido liberatorio, si trasforma in un boomerang.

Il centrosinistra rialza la testa grazie al combinato disposto di due fattori: la maggiore e migliore presentabilità dei candidati pressocchè ovunque e un’astensione altissima, che notoriamente investe il ventre molle dell’elettorato, quello cosiddetto d’opinione, che spesso è meno ingaggiato politicamente in forma diretta. Le ragioni dell’ormai massiccio disertare delle urne sono diverse e il fenomeno, che non si affacia per la prima volta ma che risulta ricorrente negli ultimi anni, ha spiegazioni contingenti e politiche.

Intanto va detto che strutturalmente, le elezioni con doppio turno, quale che sia la posta in palio, vedono sempre alla seconda tornata un numero fisiologicamente minore di elettori che tornano a votare: quello di recarsi al seggio, in fondo, non è tra i divertimenti più ambiti. A questo si aggiunge però un altro elemento che è politico: nel secondo turno, una quota significativa di elettori deve votare per il candidato che appare meno lontano, non per il più vicino. Per gli elettori i cui partiti non sono arrivati al secondo turno, la preferenza in sede di ballottaggio più che un voto convinto risulta un voto al “meno peggio” e non a quello che si vorrebbe votare.

Ma l’aspetto più generale che riguarda la disaffezione crescente dal voto è certamente rappresentato dall’incrinatura ormai conclamata nella relazione tra rappresentanti e rappresentati, su cui si sostanzia il principio della delega in democrazia. I partiti non sono più né l’intellettuale collettivo di gramsciana memoria, né la comunità di uomini e donne animate da un progetto di società condiviso; sono sempre di più lontani non solo da idealità ma persino dal senso comune, risultano sempre più incapaci di connettersi sentimentalmente con lo stesso proprio elettorato e vengono percepiti come circoli chiusi riservati a cricche interne, impermeabili alle istanze della popolazione.

La strada per riaprire il dialogo tra elettori e partiti nel centrosinistra potrebbe essere tracciata anche dalla crisi di progetto a medio termine della destra italiana. Scoprire la sinistra diffusa, quella che indice referendum sui beni comuni, si batte nelle realtà locali contro lo scempio del territorio, i progetti faraonici, l’aumento delle spese militari e il recupero del lavoro quale asse centrale del patto sociale, sempre meno riesce ad entrare nelle sedi del PD e poco entra anche in quelle di SEL.

Sarebbe bene che si aprissero meglio tutti per far entrare aria nuova, che sfuggissero alla logica dei fedelissimi. La contaminazione con l’esterno è la sola via di rinascita, un percorso obbligato per trasformare una vittoria contingente in una di prospettiva. Quelle con il popolo della sinistra sarebbero le larghe intese da perseguire.


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