di Rosa Ana De Santis

E’ quasi difficile ritagliare uno spazio di commento alle performances ultime, ma non sorprendenti, dei leghisti. Linguaggio, toni e merito politico delle loro azioni non sono mai state degne di nota per caratura politico-istituzionale, ma il pericolo e il degrado di tanta bassezza ha mosso, come immaginabile, un clamore e un biasimo generale.

Dopo recenti e passate esibizioni di volgarità, l’Oscar va al Vice Presidente del Senato Calderoli che dal palchetto di un comizio aveva candidamente dichiarato che guardare il Ministro Kyenge gli faceva pensare ad un orango.

Questo il siparietto da cinepanettone che è stata rivolto ad un Ministro della Repubblica. Se volevamo avere prove dell’arretratezza culturale italiana nel panorama europeo è bastata l’elezione di un Ministro con la pelle nera a soddisfare la curiosità. Gli insulti, i sospetti e il solo brusio sollevato da questa elezione mostra, ahinoi, tutto il ritardo che grava su questo Paese.

Peggio del peggio è che non solo numerosi compagni di merende abbiano difeso Calderoli, ma che persino il monito lanciato dal Presidente della Repubblica sia stato recepito come il messaggio dell’uomo qualunque. Salvini parla di censura da parte di Napolitano, ignorando peraltro che il Presidente della Repubblica ha espresso un allarme sul clima generale del Paese fatto di intimidazioni di basso profilo in tutte le salse: dalle innumerevoli aggressioni verbali a Kyenge, alle minacce alla Carfagna dopo la sua presa di posizione contro i Cinque Stelle e all’incendio del liceo Socrate, simbolo della lotta alla’omofobia.

Si discute della necessità di togliere l’incarico istituzionale a Calderoli il quale, pur non vantando particolari meriti sul campo se non la sofisticheria del porcellum, mostra di non avere adeguato pedigree umano e culturale. Sembra strano che se ne debba discutere a lungo di fronte ad un episodio tanto eclatante. Basterebbe, anche questa volta, prendere spunto da quello che accade nei paesi culla della cultura politica moderna dove bastano piccoli inciampi a far dimettere le più altre cariche di governo.

L’imbarbarimento della politica che forse proprio nella nascita e crescita dei leghisti ha visto il suo fulgore, trova oggi, con la modalità del colloquio di strada al posto della dialettica politica, il suo trionfo analfabeta e volgare.

Altro che società civile nelle istituzioni: il berlusconismo è stato il brodo comune, culturale - se così si può dire - più che politico, di due generazioni di politici che all’ignoranza sui temi sui quali dovrebbero legiferare, uniscono un’ignoranza ancora più profonda di cultura politica generale e condiscono il tutto con la volgarità che spesso dell’ignoranza è conseguenza inevitabile.

L’appiattimento verso il basso ha trasformato un paese culla del pensiero politico europeo in una stalla dalla quale sono usciti i Borghezio, i Bossi, i Calderoli e gli Scilipoti ed ora a poco serve chiudere le porte. Il berlusconismo ha fatto credere che chiunque potesse entrare in Parlamento, come chiunque potesse diventare artista e vip, come si potesse parlare di secessione con normalità e senza percepire la gravità, il peccato e il reato.

Oggi quando le sfide sul tavolo sono tutte molto urgenti e i fatti spingono sul Palazzo per cambiare il Paese, la presenza di figure di un certo tipo suona grottesco più che pericoloso. Non basta togliere Berlusconi dai meeting internazionali per riqualificare la nostra immagine se poi si permette alla banda degli eredi di Bossi di armare certi teatrini. Mutatis mutandis, sarebbe stato meglio, per ridere e subire meno danni, prendere in prestito quella del maestro Totò. Almeno la sua banda era degli onesti.  


di Fabrizio Casari

Una figura da peracottari autentici quella del governo Letta. Incuranti di ogni convenzione internazionale e ad ogni procedura interna prevista, indifferenti allo status di rifugiato da noi stessi concesso, ignoranti anche nella lettura dell’autenticità di un passaporto, nella vicenda della cattura violenta ed espulsione della signora Shalabayeva - moglie del dissidente kazako Ablyazov - e della sua bambina, siamo riusciti a guadagnare il podio della vergogna.

La signora godeva appunto dello status di rifugiato politico e, in quanto tale, in nessun caso avrebbe dovuto essere arrestata e consegnata alle autorità del paese dal quale fuggiva, dal momento che lo status di rifugiato viene riconosciuto proprio quando si ritiene che sia in atto una persecuzione delle autorità di un paese contro un cittadino.

Ma l’Italia è l’Italietta del governicchio; prima concede asilo, poi deporta, quindi quando ormai è troppo tardi, ci ripensa. Nemmeno al Circo Barnum. Imbattibili quando si tratta di cedere sovranità nazionale, i nostri governicchi sono mal posizionati persino nella triste classifica della servitù; almeno i paesi dell’Est europeo, per compiere il loro sporco lavoro, pretendono che la richiesta giunga dagli Stati Uniti; per noi è sufficiente che ce lo ordini il Kazakistan.

I personaggi coinvolti nella figuraccia sono diversi: dal Ministro dell’Interno Alfano alla Ministro degli Esteri Bonino, il fior fiore del governicchio Letta si è contraddistinto in negativo. L’imperizia è quella che può ben essere assegnata alla “sora Emma”, che smentisce qualunque responsabilità diretta nella vicenda tramite un comunicato della Farnesina che poteva avere come titolo “lo scaricabarile”.

Un comunicato che tenta di addossare ogni responsabilità ad Alfano ma dove, per cercare di porre rimedio alla propria imperizia, prima si recrimina sulla mancanza di informazioni relativa alla richiesta ricevuta, poi però si ricorda che relativamente alla comunicazione con gli altri membri competenti dell’Esecutivo, Emma Bonino aveva informato personalmente, il 2 giugno, durante la Festa della Repubblica, il titolare dell'Interno, Angelino Alfano e il presidente del Consiglio Enrico Letta, raccomandando a entrambi di seguire il caso.

Se quindi la Farnesina ha scoperto solo a pasticcio consumato che la signora disponeva di status di rifugiata, ci troviamo a metà strada tra la tragedia e la farsa.

Strano comunque che l’instancabile paladina dei diritti umani si sia limitata a ricordare agli altri di occuparsi della vicenda; ci saremmo aspettati ben altra pressione sul suo governo per un caso come questo, prima e dopo l'epilogo della vicenda. In fondo, si fosse trattato di uno dei mille scioperi della fame di Pannella avrebbe fatto ferro e fuoco; stavolta invece deve aver indossato la grisaglia istituzionale di marca e avrà avuto difficoltà nel muoversi. La richiesta di rilascio della signora, invece, é di pochi giorni orsono.

Per quanto invece riguarda Alfano, si deve ricordare che è, nostro malgrado, il titolare del dicastero da cui ogni operazione di polizia dipende e dove la notizia dell’operazione era già nota dal 28 Maggio scorso, quando l’ambasciatore kazako pose il problema della rendition della moglie del dissidente nel colloquio con Giuseppe Procaccini, Capo di Gabinetto di Alfano.

Dunque, o Procaccini ha tenuto la cosa per sé senza informare il Ministro (il che sarebbe gravissimo) o il Ministro sapeva e ha dato il suo assenso, visti anche i deliziosi rapporti che intercorrono tra Berlusconi e il presidente kazako Nazarbayev. E appare francamente ignobile tentare di scaricare tutto sulla questura di Roma.

Risulta infatti difficile credere che un questore si prenda la responsabilità di una operazione di polizia con implicazioni che si riverberano non solo sul Ministro dell’Interno, ma anche su quello della Giustizia e quello degli Esteri senza avere il via libera dalle massime autorità politiche del Viminale.

Visto anche quanto successo nel caso del rapimento di Abu Omar da parte dei nostri servizi segreti, sarebbe davvero strano che qualcuno, senza l’autorità politica necessaria, possa disporre un’operazione di sequestro di una famiglia e di consegna della stessa in mani straniere. Anche solo la giustificazione amministrativa di un simile operativo sconsigia decisioni prive del necessario sostegno politico, figuriamoci quando investono un problema politico irto di possibili conseguenze.

In difesa del vicepresidente del Consiglio, oltre al solito Cicchitto, che ormai vede minacce al governo in ogni dove, è intervenuto anche il capogruppo del Pdl in commissione Giustizia della Camera, Enrico Costa: "La correttezza di Angelino Alfano è al di sopra di ogni sospetto. Da Guardasigilli nella scorsa legislatura, da ministro dell'Interno in questa, la sua azione ha dimostrato un grande senso dello Stato". Di quello kazako, sicuramente.



di Mariavittoria Orsolato

I francesi lo avevano ventilato poco meno di un anno fa e lo scorso 27 giugno è arrivata la conferma: il tratto ferroviario ad alta velocità tra Torino e Lione, se mai esisterà, non si farà prima del 2050. La Commissione Duron - da Philippe, presidente dell'Agenzia di Finanziamento per le Infrastrutture e i Trasporti  (AFITF) - nel suo ultimo rapporto ha classificato il progetto Tav tra Italia e Francia tra le priorità di secondo livello, rimandando i lavori a data da destinarsi.

A convincere l'amministrazione francese a riconsiderare il suo impegno per la linea Torino-Lione è stata fondamentalmente la mancanza di fondi. In un'intervista a L'Usine Nouvelle, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault ha spiegato come, nello stato attuale di crisi, lo Stato non possa sobbarcarsi più di 250 miliardi di euro di investimenti per costruire infrastrutture nei prossimi 20 anni.

Lo scorso anno il ministro del bilancio Jerome Cahuzac, aveva ordinato alla Commissione  Duron di classificare le linee TGV in base alle priorità e la ghigliottina è razionalmente scesa sulle linee più costose e non ancora iniziate: l'investimento francese per la Torino-Lione ammontava a 12 miliardi di euro e, anche grazie alla strenua resistenza in Valsusa, da entrambi i lati delle Alpi gli scavi non sono ancora cominciati.

Facile dunque accantonare il progetto, soprattutto in seno alle relazioni che vedevano il traffico commerciale sulla tratta crollare verticalmente nell'ultimo decennio - sconfessando le entusiastiche proiezioni all'origine della pianificazione - mentre i costi raddoppiare proporzionalmente. La stessa Corte dei Conti francese, interpellata dal primo ministro sull'opportunità di realizzare il collegamento con l'Italia, scriveva lo scorso 1° agosto: “gli studi (…) non prevedono una saturazione della linea storica prima del 2035, sulla base di una capacità massima di 15 milioni di tonnellate”.

La relazione dei revisori francesi continuava: “Secondo gli studi economici voluti nel febbraio 2011 da Lyon-Turin Ferroviaire (LTF) sul progetto preliminare modificato, il valore attuale netto è negativo in tutti gli scenari”, che siano di crisi o di ripresa. Insomma se una linea ferroviaria si rivela inutile e troppo costosa, il gioco non vale certamente la candela.

Al contrario del nostro governo, infatti, quello francese ha deciso di concentrarsi sulle infrastrutture destinate alla mobilità dei passeggeri - non delle merci - e si è dato dei termini entro cui realizzarle sulla base dell'urgenza, individuando quelle che sarebbero state realizzate da qui al 2030 e quelle a cui pensare tra il 2030 e il 2050.

Se le linee in fase di attuazione sottolineano l'importanza dell'asse nord/sud - le linee TGV in fase di realizzazione collegheranno Parigi al sud della Francia - la Torino-Lione viene relegata tra i progetti a data da destinarsi. Anche perché posizionata sulla direttrice est/ovest, il celeberrimo quanto inconsistente Corridoio 5, abbandonata come ipotesi d'investimento commerciale sia dal Portogallo che dall'Ucraina.

Il problema dei costi e dei conseguenti fondi è in verità comune a tutti i Paesi interessati dal Corridoio 5, l'Italia ha però deciso di affrontarlo a testa bassa, impegnandosi con il governo Monti a finanziare comunque il progetto (ben poco modificato) dell'alta capacità. Anche per l'attuale governo “delle larghe intese” la Tav s'ha da fare a qualsiasi costo: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi, solo due mesi fa, assicurava che la ratifica degli accordi con i cugini d'oltralpe era ormai una formalità e che i lavori sarebbero cominciati “senza ulteriori tentennamenti”.

Ma l'accelerazione caldeggiata dagli irriducibili del SiTav deve ora fare i conti con le conclusioni cui sono arrivate le istituzioni francesi. Entro il prossimo 10 luglio, infatti, la commissione esteri dell’Assemblée Nationale dovrà decidere se approvare, modificare o rifiutare l’intesa con l'Italia - oltralpe, evidentemente, il mantra “ce lo chiede l'Europa” non funziona - e, se queste sono le premesse, è quasi scontato che la Francia verrà meno a quanto promesso fino ad ora e rimanderà ogni decisione sulla Torino-Lione a dopo il 2030, quando il progetto originale compierà 36 anni.

Se per il movimento NoTav, questa può essere considerata sicuramente come una vittoria, dall'altro  lato amareggia leggere i numeri riguardanti la questione Alta velocità che la Procura di Torino ha reso noti nelle scorse settimane: 123 i fascicoli e 707 gli indagati negli ultimi tre anni per diversi episodi legati alla vicenda della Tav, centinaia i fascicoli aperti contro ignoti.

I reati contestati sono principalmente di danneggiamento, violenza e resistenza a pubblico ufficiale ma nei giorni scorsi sono arrivati anche avvisi di garanzia per stalking. Il reato solitamente connesso al femminicidio è stato applicato a quattro attivisti NoTav, tra cui Lele Rizzo di Askatasuna e l'avvocato Pierpaolo Pittavino, accusati di aver minacciato un operaio impiegato in una delle ditte presenti al  (non)cantiere di Chiomonte.

In Italia le istituzioni tutte, dal Parlamento alla polizia fino alla magistratura, sono evidentemente impegnate ad avvallare ad ogni costo - anche minacciando di applicare la legge Reale - il progetto della Torino-Lione. Ora che la Francia pare fare un passo indietro quali saranno le “ragioni imprescindibili” che motiveranno la realizzazione della ferrovia? Di una linea ad alta velocità Torino-Bardonecchia il Paese non ha certo bisogno, la Valsusa meno che mai.


di Fabrizio Casari

Dopo oltre ventisei mesi di dibattimento, 50 sedute e sette ore di camera di consiglio, il verdetto è durissimo: condanna a sette anni per concussione (in costrizione) e prostituzione minorile, interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale durante tutto il tempo previsto dalla pena. La sentenza emessa dalla quarta sezione del tribunale di Milano nei confronti di Silvio Berlusconi è entrata come un treno in corsa nella galleria del sistema politico italiano.

Assurda, dicono i peones berlusconiani, giusta ribadiscono dal M5S e altri. Certo è pesantissima, superando persino le richieste dei pm. Alla fine di un dibattimento nel quale ogni trucco difensivo è stato messo in atto, la Corte ha evidentemente deciso di fidarsi molto delle intercettazioni e molto meno delle dichiarazioni ad orologeria che hanno contraddistinto le testimonianze delle olgettine.

Sono state centinaia le dichiarazioni dei suoi dipendenti a vario titolo allocati che hanno gridato di tutto e di più: dal “colpo di stato” “all’assurdità”, dalla “sentenza già scritta” a “sentenza vergognosa”, mentre la linea che la difesa ha ribadito è sostanzialmente racchiudibile nella mancata imparzialità del Tribunale di Milano. Una conferma alla richiesta sempre reiterata di “legittima suspicione”, argomentata con una presunta incompatibilità ambientale tra la Procura di Milano e l’imputato. In realtà la “legittima suspicione” è sostenibile solo di fronte ad una situazione socio-ambientale compromessa, mentre è meno credibile un’ipotetica ostilità di una Procura e di una magistratura giudicante di un’intera circoscrizione verso un singolo imputato.

I reati per i quali Silvio Berlusconi è stato ritenuto responsabili sono gravissimi nella sostanza e penosi esteticamente; nemmeno nell’ultima delle repubblica delle banane un premier avrebbe avuto i comportamenti pubblici e privati, la sovrapposizione grave e continuata tra i suoi pessimi gusti personali e l’autorità delle sue cariche istituzionali come è avvenuto in Italia.

Del dispositivo della sentenza, però, la parte più densa di ripercussioni sullo scenario politico italiano si riferisce all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Partirà ora il ricorso e, fino a sentenza definitiva, l’imputato Berlusconi sarà comunque innocente avendo solo contro di lui una sentenza di primo grado, ma le implicazioni politiche e giuridiche sono incontestabili.

E non ci si può dimenticare poi che i sette anni di ieri si sommano ai quattro anni ai quali è stato condannato per il processo per i diritti Mediaset oltre alle altre vicende processuali già note. La sentenza di Milano è destinata a ripercuotersi pesantemente sulla durata del governo Letta. Non è un caso che Cicchitto, uno dei pochi che insieme ad una scarsa dose di vergogna dispone comunque di sufficiente cultura politica, ha denunciato la sentenza come un atto da “tribunale speciale” destinato a destabilizzare la politica italiana e lo stesso governo delle larghe intese.

Quali saranno i temi e i tempi sui quali il governo Letta dovrà misurarsi con la rottura del PDL è però presto per dirlo. I senatori che hanno abbandonato il M5S ed altri che potrebbero farlo nei prossimi giorni, determineranno un equilibrio di forze al Senato diverso da quello nel quale è nato il governo delle larghe intese e non è impossibile ipotizzare che, nel caso il PDL dovesse uscire dalla compagine governativa, nuove maggioranze potrebbero comporre un nuovo governo.

Berlusconi, che vede più lungo dei suoi caporali, ha ovviamente reagito alla sentenza affermando la sua volontà di “non cedere”, ma non c’è dubbio che dopo la scontata fine di ogni ipotesi quirinalizia, per lui la sentenza significa l’abbandono definitivo di ogni ipotesi di elezione a senatore a vita. Napolitano si è così tolto dall’imbarazzo. Anche nell’ipotesi (difficile) che il secondo grado di giudizio possa vedere un ribaltamento completo della sentenza di ieri, passeranno anni nei quali sarà politicamente e giuridicamente impossibile anche solo pensare alla nomina di senatore a vita.

Nomina che corrispondeva da un lato all’ambizione politica e dall’altro ( e soprattutto) all’intenzione di guadagnarsi una sorte di amnistia di fatto che chiudesse definitivamente ogni percorso della giustizia italiana verso di lui. Sembra chiudersi invece il cerchio: le donne hanno rappresentato l’ossessione del suo ego malato e tre donne lo hanno ripiombato nella realtà. Sette ore di camera di consiglio lo hanno trasformato da aspirante statista a condannato a vita.


di Rosa Ana De Santis

Il linguaggio della politica, che ormai da quasi venti anni ha subito un progressivo svilimento di toni e contenuti, nell’ultimo periodo ha offerto una misera rappresentazione dell’oscena volgarità che tanti uomini e donne di partito non hanno più vergogna di esibire. Voci da stadio, da tifoserie inferocite, discorsi da bar. Ultimo, in ordine di tempo, l’immancabile Borghezio, sospeso dal gruppo Europa della Libertà e della Democrazia, per gli ultimi insulti al Ministro dello Sport, Josefa Idem. “Puttane” questo il termine con cui appella un Ministro della Repubblica e i suoi avversari politici: uomini o donne che siano.

Sempre lui si era unito al coro degli insulti razzisti dagli inizi dell’incarico del Ministro per la Cooperazione, Cecilie Kyenge, quando aveva annunciato la proposta di legge sullo ius solis. E sempre contro di lei era addirittura arrivato  dalla pagina facebook, in una battuta di rabbia - come ha provato a difendersi Dolores Velandro consigliera della Lega a Padova - una frase shock del tipo “Nessuno che stupri la Kyenge?”, come a voler rammentare che gli stupri avvengano solo per mano degli stranieri. La Lega Nord non è al corrente, evidentementi, dei numeri del femminicidio, che vedono mariti e fidanzati italiani doc carnefici delle loro donne: stupratori, stalker e killer spesso mandati in carcere con pene ridicole, altro che immigrati irregolari.

In Italia, doloroso riconoscerlo, avere un Ministro con la pelle nera, scatena reazioni xenofobe a tutti i livelli e senza pudore, dentro le stesse aule istituzionali o davanti alla stampa. Siamo messi proprio così, mentre andiamo a Berlino a raccontare di essere “molto europei”. Sono arrivati a darle dell’ “ebete” per aver detto che gli stranieri immigrati rappresentano una risorsa per l’Italia. E’ nata addirittura una simpatica disquisizione etimologica sul significato di ebete in dialetto veronese attraverso cui il segretario della sezione locale, Marco Pavan, ha provato penosamente a salvare la faccia di un partito ormai sempre più sovrapponibile a un manipolo di beoni da osteria.

E’ormai diventata un’emergenza democratica vera e propria, troppo sottovalutata, quella di un partito che insulta un Ministro del governo e si fa portavoce delle più basse  e meschine sotto idee razziste. Non che la storia della Lega sia nota per pensiero di spessore e raffinata diplomazia, ma mai si era arrivati al coro dell’insulto tanto volgare nei riguardi di un Ministro che ha la colpa di non essere bianca e di rappresentare tutto quello che il Carroccio non vuole: un Paese di seconde generazioni e multiculturale.

La parabola dell’orrore razzista aveva visto un altro pregiato esemplare nel post di una candidata leghista di Monza che sulla tragedia del canale di Sicilia e degli immigrati sopravvissuti aggrappati alle gabbie dei tonni aveva scritto quanto fosse un danno per gli italiani onnivori e vegetariani privarsi dei tonni piuttosto che salvare le vite dei migranti.

Anche questa volta il segretario della Lega Nord di Monza ha preso successivamente le distanze, ma la ferocia di certe troppe affermazioni è diventata a tutti gli effetti un leit motiv purtroppo prevedibile e tollerato. Una nota stonata con gli appelli di accoglienza che sono arrivati dal presidente Napolitano e dalla Boldrini alla vigilia della giornata del rifugiato.

Se la questione è quella della legalità basta ricordare ai Borghezio di occasione che sono i padroncini italiani a voler mantenere gli stranieri in clandestinità garantendo la sopravvivenza di un autentico sistema di capolarato che non fa eccezione al Nord del Tevere, anzi. Succede in Franciacorta e sulle colline di Brescia per la vendemmia. Succede che gli stranieri lavorino mesi e mesi per leggere in busta paga di qualche giornata, succede che la paura alimenti un sistema di bieco sfruttamento che fa guadagnare soltanto i padroncini nazionali in una modalità che non era certamente quello che intendeva il Ministro Kyenge quando parlava di risorsa per la nostra economia.

Ma se la Lega vanta un glorioso primato di xenofobia, il vento del razzismo, come sempre accade nei periodi di crisi e come la storia insegna, non risparmia proprio nessuno. E’ stata infatti Caterina Marini, consigliera di Prato del PD, a scrivere su facebook ”Extracomunitari ladri dovete morire subito”. La frase, a seguito di un momento di rabbia personale, è stata subito cancellata, ma il PD sta maturando l’idea di espellerla.

La zona di Prato vive una conflittualità altissima con il lavoro straniero della comunità cinese, che ha ucciso di competizione sleale e illegale il tessile su cui la provincia viveva ed è come tante altre zone italiane spremuta dalla crisi con l’inevitabile odio sociale tra poveri che si chiama razzismo e xenofobia. Ma è doveroso alzare il livello di guardia quando sono figure politiche, partiti e istituzioni a tutti i livelli, e non la gente comune, a diventare il megafono di sentimenti di pancia pericolosi e bassi.

L’emergenza reale è questo abbassamento della politica all’ordinarietà popolare e le parole, come teorizzava Habermas, sono fatti. Fatti che insegnano che la politica, aldilà dei colori, non sa più guidare, istruire, assegnare un progetto alle azioni del giorno. Non sa più aggiungere un orizzonte al provvedimento di turno. E’ questa fine dell’idea a consegnare, specialmente le persone più semplici, all’illusione che l’odio per la differenza sia la cura della propria miseria.


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