di Giovanna Musilli

Diciamo le cose come stanno: un pregiudicato che ancora non ha ben chiaro il fondamento primo del liberalismo, cioè la divisione dei poteri dello stato, ha deciso di punto in bianco di far cadere il governo. A parte Gasparri e la Gelmini, nessuno dei dimissionari o degli yes-men in Parlamento crede davvero che il problema sia l’IVA. Perfino il fido Cicchitto ha mostrato qualche dubbio, seguito immediatamente dal “saggio” Quagliariello. Ma ci ha pensato il poeta Bondi a porre fine agli equivoci: è per “affetto e riconoscenza” che cade il governo.

Riconoscenza, soprattutto. Del resto, quale di questi personaggi, sempre oscillanti fra il grottesco e il delinquenziale, avrebbe mai fatto carriera politica senza B? Ha dato loro soldi, potere e immunità, chiedendo in cambio servitù: posto che l’alternativa sarebbe stata lavorare, la scelta è stata banale. Il risultato è un partito padronale dove si serrano le fila e si eseguono gli ordini. È così da vent’anni, non c’è da stupirsene.

Chi poteva pensare sul serio che il PDL sarebbe rimasto al governo dopo che la giunta per le elezioni avesse votato la decadenza del padrone? L’ormai celeberrimo “senso di responsabilità” è andato a farsi friggere di fronte ai problemi personali di un anziano signore che ha passato gran parte della vita a frodare il fisco, pagare tangenti, corrompere giudici, accumulare fondi neri e (solo in vecchiaia?) a divertirsi con le minorenni.

Nell’immediato le conseguenze sono che i cittadini italiani pagheranno l’Imu, l’IVA aumenterà di un punto, lo spred è già a 263, i cassaintegrati e gli esodati da gennaio rimarranno senza copertura, non c’è ancora la legge di stabilità e non ultimo il porcellum rimane lì. In un paese normale, di fronte a tutto questo, il Pd convocherebbe subito il congresso e a breve giro le primarie, farebbe una campagna elettorale con un programma comprensibile, in alleanza con Sel.

Invece cosa fa? Cinguetta sull’irresponsabilità del Pdl, bacchetta i ministri dimissionari quasi supplicandoli di ripensarci, versa commoventi lacrime per la perdita del prezioso alleato e, come sempre, tira fuori dal cilindro la mossa migliore per perdere le prossime elezioni: propone un Letta-bis.

In realtà in un paese normale nessun partito sarebbe rimasto alleato con un personaggio condannato in via definitiva per frode fiscale, ma visto che viviamo nel paese alla rovescia, siamo costretti ad assistere alla patetica pantomima dei questuanti piddini che implorano il delinquente di rimanere loro alleato e del pregiudicato che manda videomessaggi alla tv di stato, farneticando di incredibili persecuzioni giudiziarie, per poi ordinare improvvisamente ai ministri di dimettersi senza nemmeno interpellarli.

Adesso il Presidente della Repubblica tenterà inspiegabilmente di formare un nuovo governo, magari in virtù del cosiddetto “scouting” che il Pd sta già facendo con i senatori dei cinque stelle e delle defezioni che s’annunciano tra le fila del PDL stesso; se l’operazione (degna del più bieco trasformismo) non dovesse riuscire, come è verosimile, torneremo di nuovo alle urne.

A questo punto, mentre il Pdl si conquisterà i voti uno ad uno strillando quotidianamente che il governo è caduto perché “il Pd è il partito delle tasse” (la rozzezza del messaggio è sconcertante, ma efficace in un paese dove la pressione fiscale è alle stelle), il Pd continuerà a concentrarsi con accanimento su questioni cruciali come le regole per le primarie, la data del congresso, il ruolo di Letta nel partito, senza dimenticare l’indefesso impegno di tutti i dirigenti di sempre a togliere di mezzo l’unico candidato che può vincere le elezioni, cioè Matteo Renzi.

Questo epilogo sarebbe evitabile? In linea teorica forse sì, ma la strada pare davvero troppo impervia. Che il Pd si ravveda e diventi un partito serio e di sinistra nell’arco di due mesi sembra improbabile, l’unica speranza restano i cinque stelle. Il che significa appunto che non c’è speranza, perché con il porcellum se non si fanno alleanze non si va al governo.

Unica nota positiva è che per il momento è archiviato il pericoloso progetto bipartisan di modificare l’articolo 138 della Costituzione, quello che detta il complesso iter per tutte le modifiche costituzionali. Un Verdini padre costituente sarebbe stato la beffa oltre il danno. 

di Fabrizio Casari

La lettera di dimissioni firmata dai ministri berlusconiani ha sostanzialmente aperto la crisi di governo. Con la visita dovuta del premier Letta al Presidente Napolitano di ieri sera ha così avuto inizio la ritualità consueta delle crisi parlamentari. Inutile dilungarsi qui sul cosiddetto “senso di responsabilità nazionale” che dovrebbe avere e che non ha Berlusconi: chiedere a chi ha spolpato il paese per arricchire la famiglia un sussulto di responsabilità politica è come chiedere al boia di abbassare dolcemente la leva della ghigliottina.

Sotto la probabile regia di Letta zio, i distinguo dei berlusconiani comincino a manifestarsi - Lorenzin, Lupi, Quagliarello, Di Girolamo e lo stesso Alfano in qualche modo prendono le distanze dal cavaliere in scadenza- ma non è certo possano invertire il destino del governo. In alternativa, il ritorno alle urne appare inevitabile e, per alcuni, auspicabile. 

C’è però, a complicare gli auspici di chi vorrebbe le elezioni immediatamente, una questione di tempistica della crisi. A giorni dovrebbe cominciare la discussione sulla legge fondamentale, quella di Bilancio, della quale entro il 5 Ottobre la Ue dovrebbe ricevere la bozza. Va approvata entro il 31 Dicembre, pena la sostanziale messa in amministrazione controllata da parte di Bruxelles dell’Italia. Come la si potrà varare in piena campagna elettorale?

Sempre entro Dicembre, poi, la Consulta dovrà pronunciarsi sulla costituzionalità della legge elettorale vigente: che succederebbe se si andasse a votare con il Porcellum e poi, in piena coda di campagna elettorale la consulta la dichiarasse incostituzionale? Va ricordato che dallo scioglimento delle camere, la legge prevede 52 giorni di campagna elettorale.

E’ in corso un grande lavorìo, con la regia di Napolitano, al fine di trovare una maggioranza alternativa al Senato per dare modo al governo di andare avanti. Martedì il governo chiederà la fiducia in aula e nell'occsione si conteranno le divisioni interne al PDL e alle altre forze politiche. Un Letta-bis potrebbe anche disporre dei numeri, ma difficilmente del consenso politico se volesse presentarsi con un programma che ambisse ad andare oltre l'emergenza.

Perché ammesso e non concesso che tra le fila berlusconiane ci siano significative defezioni e che Casini (la cui unica linea politica è quella di cercare i transfughi degli altri per provare ad avere qualcosa di suo) riesca a comporre uno straccio di schieramento da pronto soccorso del governo, non è detto che il PD accetterebbe un rattoppo del già lacero vestito. Epifani ha già dichiarato l'indisponibilità del suo partito a "governicchi", ma un governo a tempo e di scopo, che presenta la legge di stabilità, finanzia la cassa integrazione e mette ai voti la nuova legge elettorale, potrebbe in qualche modo tentare il PD a sostenere il nuovo Esecutivo.

Certo, l’incubo di tornare a votare con il Porcellum potrebbe spingere stomaci forti ad ingoiare qualunque minestrone, ma l’approssimarsi del Congresso e la spinta di Renzi, deciso a staccare la spina alle larghe intese, potrebbero avere la meglio sull’ansia stabilizzatrice.

Peraltro, a buttare cera sulle ali delle larghe intese, c’è anche uno scarso entusiasmo per l’operato del governo. Difficile infatti valutare positivamente il lavoro del governo Letta. L’opinione generale è che abbia proseguito sulla scia di quello Monti ma, indipendentemente dalle affinità con il disastroso esperimento del bocconiano borioso e incapace a Palazzo Chigi, non c’è dubbio che i risultati del governicchio del conte zio siano stati un disastro da qualunque angolazione lo si voglia scrutare.

Letta ha espresso un governo privo di autorevolezza politica, ostaggio del collegio di difesa del caimano e privo di spinta riformatrice. Non solo i dati macroeconomici strutturali sono peggiorati ma persino sotto l’aspetto delle riforme politiche  - prima fra tutte quelle della legge elettorale - il segno che ha caratterizzato l’esperimento delle larghe intese è fortemente negativo.

L’Italia guidata da Enrico Letta e dalla sua rissosa compagine è messa ancor peggio di quando il nipote illustre varcò il portone di Palazzo Chigi. L’emergenza economica si è acuita. Lo spread sui titoli di Stato è tornato a livelli preoccupanti e rischiamo un nuovo declassamento del debito; è aumentato il differenziale nel rapporto tra deficit e PIL nonostante una ulteriore contrazione della spesa pubblica; la disoccupazione ha avuto una ulteriore impennata verso l’alto, così come il numero delle imprese che hanno chiuso in questi ultimi sei mesi. Ciliegina sulla torta l’inerzia di fronte alle vicende Alitalia, Telecom, Ilva. L’azione del governo è risultata sterile ed approssimativa.

Nessun prelievo straordinario sui patrimoni, nessun intervento per modificare il cuneo fiscale in modo da ridurre il costo del lavoro, nessun intervento per modificare in profondità le norme vergognose della riforma Fornero sul sistema pensionistico.

La contrazione dei consumi è stata ulteriormente approfondita dall’assenza totale di manovre di stimolo all’economia e lo sperpero di denaro pubblico per le opere inutili come la TAV, le missioni militari all’estero e l’acquisto degli F35 hanno contraddistinto la continuità con l’esecutivo guidato da rigor montis.

Abbiamo assistito ad un balletto sull’Imu durato mesi e conclusosi indecorosamente, senza cioè la tassazione sulle case di lusso, per affibbiarci in cambio l’aumento di un punto dell’IVA che aggrava ulteriormente la crisi dei consumi e produce recessione. Per non tassare i milionari, si sceglie d’impoverire i più poveri.

La campanella di Wall Street, del cui suono si è inebriato Letta, squillava pochi giorni addietro, proprio mentre i parlamentari PDL firmavano la lettera di dimissioni. Più che il suono di una campanella di benvenuto nel tempio della finanza speculativa mondiale, erano forse i primi rintocchi della campana a morto del suo governicchio.

di Fabrizio Casari

Come lo Scajola dei tempi migliori, Bernabè sostiene di non sapere nulla della vendita di Telco. Due sono i casi: o Bernabè è ignaro di ciò che succede fra gli azionisti dell’azienda che dirige o si burla della Commissione parlamentare presso la quale si trova in audizione. Ad ogni modo, quale che sia la risposta, più verosimilmente la seconda, Bernabè non può rimanere la suo posto sia se ignora sia se gioca: attraverso Telco, Telefonica diventerà comunque azionista di maggioranza di Telecom, mentre il tanto atteso scorporo dell'unico asset davvero strategico per l'Italia, ovvero la rete, è ancora oggi in forse.

Né si sa che fine farà il progetto per la banda larga. Ciò detto, superata l’indignazione, è bene sapere che Bernabè non è uno qualunque, ma uno straordinario esempio di amministratore delegato.

Di quei personaggi senza particolare spessore e senza particolari qualità che le famiglie di nuovi ricchi utilizzano per amministrare i giocattoli che vendono e comprano senza sborsare un euro del loro patrimonio personale, che anzi si rimpingua nei periodi di luce per poi consegnare ai conti pubblici i periodi d’ombra. E’ il capitalismo italiano: un capitalismo straccione, che mette in fila nei suoi salotti capitalisti senza capitali, manager rampanti incapaci di managerialità ma accomunati dall’appartenenza alle lobbies trasversali che li insediano nei posti dirigenziali per esercitare un’azione di controllo dall’esterno.

Un giro di valzer che piazza gli amici e spiazza i non allineati, che offre favori per vantare o restituire favori e che si assicura la fidelizzazione di dirigenti alla rete di appartenenza, cui devono riconoscimento ed obbedienza in cambio della garanzia di non rimanere mai a terra.

E’ così che muore un paese, le sue industrie, le sue speranze. Soffocando il merito e imponendo un metodo, quello della cooptazione per affinità elettive, per appartenenza a congregazioni semi-occulte, per amicizie influenti e per legami indicibili con la politica, che gli permettono di diventare ricchi a patto di rendere ricchi i partiti o i singoli personaggi che li nominano. Questo combinato disposto di imprenditori straccioni e assistiti e manager incapaci e raccomandati ha fatto strame di quella che un tempo era una piccola ma significativa potenza industriale.

Che sia un’azienda piena di debiti come Telefonica ad acquistare un’azienda piena di debiti come Telecom è un mistero per i comuni mortali. La stretta creditizia in vigore in tutta Europa non consentirebbe, in linea teorica, un impegno degli istituti di credito già seriamente in difficoltà.  Per non parlare poi di quelli spagnoli, secondi solo a greci e portoghesi per acqua alla gola.

Quanto a Telecom, distrutta dai capitani coraggiosi alla Colanninno (che, non contento, è andato a distruggere anche ciò che restava di Alitalia) e dai Furbetti Provera, risulta solo l’ultimo degli asset strategici italiani progressivamente inghiottiti dalle fauci rampanti dei nuovi ricchi, aiutati oltre ogni misura e ogni conflitto d’interesse da una classe politica che peggiore sarebbe inimmaginabile.

Dopo la distruzione del polo chimico, dell’acciaio, del comparto auto, di quello alimentare e dell’industria della moda, del calcio persino, ora tocca alla telefonia.

In un futuro incerto per Eni, Enel e la parte pubblica di Finmeccanica, la fine della proprietà italiana per la più grande azienda di trasporto aereo e di traffico telefonico riporta l’Italia al primo dopoguerra. Al prossimo G8 sarà già tanto se potremo portare i caffè.

Quando un paese non controlla le sue reti di comunicazione e trasporto, non ha nessun potere sulla moneta e non riesce più a disegnare una politica industriale, la sovranità nazionale e la stessa dignità di paese viene meno. D’altra parte, a maggior ragione visti i risultati, è buona norma, in presenza di manager e politicanti che vogliono controllare tutto, chiedersi una volta per tutte chi è che controlla loro.

di Fabrizio Casari

Chi pensava che il PD non era riuscito a vincere le elezioni per pochi voti e per colpa di una legge elettorale assurda, da oggi può consolarsi. Il PD non riesce ad avere la maggioranza degli aventi diritto al voto nemmeno all’interno dei suoi organismi dirigenti, così da non riuscire a cambiare uno Statuto che ormai sembra non piacere più a nessuno.

Davvero triste assistere alla lenta e penosa agonia di un partito che ha nella sua storia lontana il DNA di un modello politico ed organizzativo straordinario e che oggi non riesce nemmeno a convocare la maggior parte del suo gruppo dirigente. Che senso ha scannarsi se non si riesce nemmeno a parlarsi?

Lo scontro interno tra le correnti fatte e quelle in via di formazione in vista del Congresso, ha ormai letteralmente bloccato ogni pur timida capacità di presentarsi con una proposta politica agli elettori e persino ai suoi stessi iscritti e, proprio nel momento nel quale la destra si trova al bivio tra la sua rifondazione e la sua scomparsa, riesce a dare il peggio della sua storia, offrendo al fotofinish del berlusconismo una ciambella di salvataggio.

E’ sempre buona norma non ironizzare e non banalizzare i conflitti politici interni ai partiti, a condizione però che siano il risultato di lacerazioni ideali, scelte programmatiche, ipotesi politiche diverse. Quanto avviene all’interno del Partito Democratico, invece, con tutto questo non ha niente a che vedere. Trattasi esclusivamente di scontro di potere, con un giovanotto che non dice niente ma sa dirlo bene, ansioso di salire sul podio del partito, del paese e della storia;  contro di lui un gruppo dirigente che non pensa ma parla, da lui destinato alla rottamazione e che non ci sta ad abbandonare il campo.

Non c’è nessuna significativa divaricazione politica: l’idea che Renzi ha della sinistra italiana diverge solo per alcuni aspetti di dettaglio da quella dei vari Violante, D’Alema, Veltroni ed ex associati. La differenza - quando c’è - attiene solo ad una impostazione più o meno laica del costume, più liberale o più cattolico-papalina dell’impianto giuridico che determina i diritti individuali. In alcuni casi possono apparire sulla scena reminescenze di teorie socialdemocratiche, ma sono mal comprese e peggio recitate.

Tutti costoro ritengono inutile, superata nella sostanza, l’idea di una sinistra come motore della trasformazione sociale, politica e culturale. Chiusi nel baule prima i principi della rivoluzione bolscevica, poi anche quelli della Rivoluzione francese, quindi per inerzia anche quelli della socialdemocrazia europea, tutti ritengono che la supremazia del mercato sull’organizzazione socioeconomica del paese non sia discutibile, tutt’al più emendabile.

E abbandonate anche le tesi europeiste del Manifesto di Ventotene, ritengono altresì che il disegno europeo non debba essere un progetto unitario ed inclusivo su base continentale, alternativo all’unipolarismo statunitense, bensì la fine del modello renano e l’applicazione di un modello economico dogmatico e sconfitto dalla storia recente. Nuotando a favor di corrente, ripropongono un disegno monetarista indigeribile e fallimentare che resti comunque saldamente in mano delle lobbies finanziarie internazionali.

Risale alla Bolognina l’ultimo - pur se sbagliato  - tentativo di analisi politica profonda dei mutamenti storici, sociali e politici in forza dei quali un partito di governo dovrebbe aggiornare proposte e linea politica. Dal 1991, con lo scioglimento del PCI e la nascita del PDS in quel di Rimini, il maggior partito della sinistra italiana non ha mai prodotto un’analisi approfondita sia dei mali della società italiana che delle contraddizioni stridenti del modello di governance internazionale affidata agli Usa. Si è evitato anche un ragionamento serio sull’ingovernabilità delle contraddizioni profonde insite ed esplicite del modello finanziario imperante, che distrugge il lavoro e riduce al minimo gli ammortizzatori sociali, un tempo cerniera di riequilibrio di fronte alle sperequazioni che pure un modello economico inclusivo inevitabilmente produceva.

Il che ha permesso e permette la coesistenza nello stesso conglomerato di tutto e il contrario di tutto, di un arcobaleno di storie, posizioni politiche ed identità ideologiche che, come una maionese impazzita, nello stare insieme in funzione di un progetto esclusivamente governista hanno prodotto un partito privo di senso, anche di quello del ridicolo.

Di fronte all’assoluta incapacità di osare pensare e proporre, di rileggere in controluce la società italiana, il PD si candida ormai solo ad amministrare la cosa pubblica con persone diverse, non con idee diverse. Non ha nulla da obiettare sulle ricette amare e fallimentari intraprese dai governi Monti e Letta, rispettivamente sostenuti e partecipati, e limita a qualche esternazione di Fassina le ipotetiche misure diverse delle quali si farebbe portatore.

Il che non toglie che la vittoria di Renzi archivierebbe per sempre quanto resta dell’identità di sinistra ospite del PD, ma si tratterebbe solo della formalizzazione di un progetto di nuovo partito centrista a vocazione progressista come è già oggi. Dunque nessuna particolare novità, semmai solo maggiore efficienza nel comunicare.

Forse proprio perché cresciuto all’ombra della berlusconizzazione della società italiana, il PD sembra averne subito il contagio nell’idea della funzione storica di un partito. Mentre l’Italia precipita verso il basso, mentre il lavoro muore, il welfare scompare, la stessa idea di paese crolla, così come la destra si è asserragliata nel castello a difesa delle aziende del suo capo, il PD non trova di meglio che discutere da sei mesi delle postille del suo statuto, del nominalismo ipocrita delle sue cariche, delle rese dei conti interni e dei suoi veleni di palazzo.

Incapace di un colpo di reni in avanti, non in grado di ritornare a parlare al paese e ai suoi elettori, ha nelle sue misere vicende interne l’unico obiettivo della sua azione politica quotidiana.

Ma se la disputa congressuale sarà anche dirimente per i ruoli e gli stipendi dei suoi protagonisti, all’Italia questo PD non serve più. E’ persino dannoso oltre che inutile, perché dona di riflesso alla destra, magari involontario, una luce che altrimenti non avrebbe. Porta infatti al voto milioni di elettori di destra più spaventati per una eventuale vittoria del PD che convinti dalla bontà del progetto berlusconiano.

E’ arrivato quindi il momento di staccare la spina. Quando un partito è diviso in correnti di potere prive di contenuto, è ora di prendere atto di un fallimento politico. Il Partito Democratico, semplicemente, non c’è più.

Per quanto con dolore, dovrebbero prenderne atto militanti ed elettori visto che i dirigenti, abbarbicati al potere e al denaro, alla fama e ai privilegi che ne caratterizzano lo stile di vita, si guardano bene dall’ammettere il loro fallimento.

E di fronte alla fine di Berlusconi, alla crisi di una destra che ha tutte le caratteristiche per divenire terminale, il PD - che negli ultimi venti anni altro non è stato se non una opposizione (blanda) al berlusconismo, comunque un ostacolo per il tentativo di trasformare il paese in una holding della famiglia dei rifatti e dei misfatti, è ora divenuto un elemento inutile nel panorama politico italiano, persino dannoso sotto certi aspetti.

E’ dannoso anche perché drena le residue, romantiche illusioni di chi da una vita intera in quella storia, nonostante tutte le inversioni a 360 gradi succedutesi, in qualche modo si è riconosciuto, convinto che, in fondo, l’identità della sinistra non poteva essere scomparsa del tutto.

Il panorama politico della sinistra è oggi rappresentato da SEL e dal Movimento 5 Stelle, nonostante la prima sia decisamente al di sotto delle necessità e quest’ultimo rifiuti di essere catalogato a sinistra, benché ne occupi lo spazio. Ma almeno il M5S è vivo: non è all’altezza di quello che servirebbe, ma è vivo.

E’ nato proprio grazie ad una sinistra sterile, non in grado di assolvere il compito storico di cui ci sarebbe così tremendamente bisogno, scomparsa sotto i piedi di chi, ossessionato dal suo ego celebrato nei salotti e privo di senso della storia, ha deciso di schiacciarla sotto i suoi piedi nel bel mezzo dell’indifferenza generale.

Quello che abbiamo davanti non è un gran bel panorama e la prossima volta, per decidere chi votare, ci toccherà dotarci di robuste lenti a specchio, che almeno ci obblighino ad una reazione, rimandandoci addosso l’immagine della nostra impotenza.


di Silvia Mari

L’elezione di Papa Bergoglio rappresenta senza dubbio la quintessenza di una spinta spirituale che ha permesso ad una Chiesa travolta dagli scandali di risollevarsi. Un sonoro schiaffo per le Istituzioni secolari che, al cospetto di un potere per principio conservatore e aldilà della storia, una rivoluzione tanto profonda non osano nemmeno sognarla. Francesco è un papa di rottura. Di rottura nelle pagine della storia perché è papa insieme ad un altro papa, Benedetto XVI.

Di rottura nei simboli, per la sua storia di vocazione e per il Sud del mondo da cui proviene. Rivoluzione per il suo linguaggio: semplice e senza orpelli come le sue visite ufficiali, diretto e “scandaloso”, politico ma non secondo lo stile Wojtyla, il cui impegno era una non dichiarata militanza volta a scardinare il comunismo.

La Repubblica di ieri apriva con la lunga lettera in cui Papa Francesco rispondeva ad Eugenio Scalfari che aveva scritto interrogandosi sulla posizione della Chiesa verso i non credenti, sulla figura del Gesù storico, sul significato del peccato. Dubbi di fede che incontrano ansia di ricerca e forse di consolazione umanissima e nello stesso tempo esigente.

Il Papa ha risposto con una lettera aperta, che arriva al cuore delle questioni. Non ha il ritmo di un documento papale classico, non analizza in termini squisitamente teoretici i dubbi, non ha la solennità dell’Enciclica. E’ la lettera di un uomo che parte dal suo incontro privato con Gesù, che ancora la sua vocazione alla famiglia della Chiesa Cattolica e che riconosce il primato della coscienza. Primato che riguarda tutti: credenti e agnostici. Dio perdona chi segue la propria coscienza, afferma Francesco, chiudendo così ogni spiraglio per chi ritiene che questa sia solo una e nessun’altra.

E’ da qui che parte la possibilità concreta di un tratto di strada comune. Anche per questo Papa Francesco è una novità assoluta. E’ dalle pagine di un quotidiano che annuncia l’urgenza di tornare a suggellare, sul piano del ragionamento e non solo del fare, l’alleanza anche con chi non crede. Ribadisce il legame profondo con il popolo di Israele e il primato dell’arbitrio, anche quando porta al male assoluto come è stato nella tragedia dell’olocausto. E’ li che Dio “salva” la sua bontà e il suo potere ab-solutus.

In prima fila nel denunciare gli scopi immondi della nuova possibile guerra in Medio Oriente, schiera il Vaticano sul fronte pacifista senza mezzi termini, senza l’ambiguità ecumenica vista in precedenti occasioni. Alza la voce, che arriva chiara e forte alle orecchie degli Stranamore vestiti da giustizieri, indicando responsabilità e follia dell’aggressione occidentale alla Siria.

Ma non punta il dito solo sui governi altrui: allo stesso Vaticano ricorda, con tono severo e senza esitazioni, che non esiste il mestiere del religioso o della religiosa, ma esiste la missione. E propone un organo di vigilanza sulle finanze dello Stato vaticano.

Ed infine è il papa che torna a Lampedusa su un’utilitaria qualunque e che chiede ai conventi vuoti di diventare luoghi di accoglienza per i rifugiati e non musei della solitudine e dei patrimoni. Sarà lui a decidere di far pagare l’IMU a quei beni del Vaticano che hanno destinazione d’uso commerciale? Più probabile questo di tanto altro.

Certo è che una rivoluzione copernicana è già iniziata nel mondo della Chiesa e a guardarla bene, proprio attraverso la semplicità attraverso cui Papa Francesco la comunica al mondo, basta pensare alla vicenda del rischio di guerra in Siria, non c’è il trionfo di una scoperta, un salto verso il futuro mascherato di chissà quale progressismo, ma un coraggioso ritorno alla nascita, al Vangelo. L’unico luogo in cui è scritto cosa significhi essere cristiani e cattolici e come si rischi, nessuno escluso, di non esserlo più o di non esserlo mai stati sul serio.


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