di Fabrizio Casari

Sdegno diffuso quanto generalizzato e, obiettivamente, comprensibile. Le intemperie verbali dei grillini, cui si aggiungono le cialtronerie del web, generano fastidio. Difficile separare forma e contenuto quando la prima prevale mediaticamente e altrettanto difficile è associarsi a battaglie, alcune giuste, che vengono condotte però nel peggiore dei modi. Non vi sono dubbi che in una politica che non può fare a meno della comunicazione, il come ha molto a che vedere con il cosa e viceversa, l’intreccio è inevitabile.

Difficile, però, associarsi alla levata di scudi sulla mancanza di garbo senza tenere conto delle questioni di contenuto che vi sono sotto, sopra e anche ai lati. Stabilire chi ha cominciato prima è di scarso interesse se non si vuole concorrere ad una nuova edizione dello Zecchino d’oro. Se dunque si vuole superare la dialettica del “colpa mia- colpa tua” si deve per forza cercare di capire chi muove cosa e con quali scopi.

Cercare invece di far passare la forma come sostanza è un trucchetto di regime per celare la sostanza di alcuni provvedimenti, decisamente molto più violenti e non meno volgari della forma di alcune proteste. E allora servirebbe un sussulto di ragionevolezza e proporzionalità nel proseguire della polemica politica: perché se da sempre bruciare libri ricorda orrori nazisti, scambiare la goliardia volgare per il fascismo è roba da apprendisti stregoni. Spiace che alcuni colleghi ci caschino con tutte le scarpe. Confondere la marcia su Roma con il marcio su Roma non è sbagliare genere, è sbagliare mestiere.

La Presidente Boldrini, contro la quale i grillini si scagliano, deve quindi trovare la solidarietà di tutti contro le aggressioni verbali di cui è vittima, ma con altrettanta chiarezza deve avvertire il dissenso profondo per la gestione da dirigente politico del suo ruolo istituzionale. La scelta di utilizzare la ghigliottina contro l’ostruzionismo parlamentare è gravissima, perché priva i parlamentari di una delle più importanti prerogative e consegna al governo la direzione legislativa. Non a caso nemmeno altre presidenze, pure esercitate con piglio autoritario, mai erano arrivate all’utilizzo di questo strumento.

Gli insulti sessisti e volgari sono inaccettabili, certo: ma la terzietà e il ruolo di garanzia istituzionale del Presidente della Camera va ricordato sia che ai suoi avversari che a lei stessa. Se lei per prima vi rinuncia per intraprendere una battaglia politica che non andrebbe svolta, non si può poi chiedere il rispetto di quel ruolo da lei stessa non rispettato (la difesa dei parlamentari) e la solidarietà si ferma quindi allo stile, ai modi, ma non arriva alla sostanza del suo agire.

I grillini non sono certo avvezzi a battaglie parlamentari e la politica nel senso classico del termine non trova applicazione nel loro quartier generale. Non sembra esserci, nel M5S, contezza piena della posta in gioco e, anzi, la ricerca della maggiore visibilità possibile sembra entrare in contraddizione con la capacità di attrarre il numero maggiore di consensi. Rimettere in sesto i sondaggi con le provocazioni è dopante, non lungimirante.

Il dissenso è cosa seria. In alcuni casi addirittura serissima, a volte drammatica. Dissentire rappresenta il primo passaggio all’età della consapevolezza, lo si potrebbe definire come l’infanzia dell’opposizione. Ma dissentire, opporsi, è anche - forse soprattutto - costruire consenso, generare adesioni e simpatie diffuse. Il fine è quello di ampliare il numero di chi non resta in silenzio, di chi protesta, di chi rifiuta l’obbedienza come rito salvifico ed ipocrita del rispetto dei ruoli prestabiliti tra governanti e governati.

La costruzione di un’area più vasta di opposizione dovrebbe essere quindi anche l’obiettivo del M5S. Che però, per ora, sembra privilegiare la dialettica dell’insulto, dell’aggressione verbale, della volgarità dei toni e dei contenuti che sposta più sulla cultura delle curve negli stadi che nel linguaggio delle organizzazioni politiche il bilanciere della sua esistenza. E’ anche vero, però, che quello del M5S lo si può definire in molti modi tranne che un progetto politico classicamente inteso, dunque sarebbe pretenzioso accollargli responsabilità e funzione pedagogica di massa proprie di tale dimensione.

Il solco culturale nel quale si muove il M5S non esalta, diciamo. Dire alle deputate del PD che la loro carriera è stata costruita sulle prestazioni sessuali dimostra come la volgarità si sia impadronita dei neuroni. Rilanciare battute fetide a sfondo sessista denuncia la carenza seria di argomenti, l’impossibilità congenita di attori di terza fila improvvisatisi star di reggere un copione.

Sostengono, i teorici del web quale nuova Agorà, che la Rete è libera, che non si possono evitare le incursioni di chiunque abbia uno schizzo d’odio da spacciare. Ma per un raggruppamento che sul modello nordcoreano fa della venerazione del capo l’alfa e l’omega della sua funzione politica, che dalla esasperazione comica del concetto di disciplina (al cui confronto il centralismo democratico sembra una sorta di anarchia organizzata) ne fa discendere carriere e ruoli, quella della mancanza di controllo è il più ridicolo degli ossimori.

E siccome separare il grano dall’oglio è affare di sapienza antica, a quelli che riescono ancora a discernere, a non provocare un frontale tra contenuti e forma, spetta però, insieme alla denuncia dello squallore verbale dei teorici oppositori, non rinunciare ad incolpare i responsabili della ragnatela velenosa governi sta che, sul nuovo mantra della stabilità, soffoca l’Italia.

Gli spetta perciò il compito si di denunciare lo schifo, senza però per questo assolvere gli schifosi veri, che da anni girano il coltello arroventato nelle ferite del paese. Non è colpa dei grillini se siamo ridotti in stracci, se l’Italia ha perso perfino la dignità di Paese, se siamo ormai considerati alla stregua di un protettorato di Bruxelles, una sorta di Puerto Rico dell’Europa. La vergogna degli ultimi governi che tutto hanno venduto dopo aver tutto comprato non va taciuta e i grillini non sono il problema, ma la conseguenza.

Sbaglia quindi chi ne denuncia il pericolo. Sia chi scambia le lucciole dell’impotenza con le lanterne della minaccia, sia chi utilizza le volgari sbrasonate per compattare un quadro politico e mediatico ormai non più sopportabile. Il potere è un Re che non si denuda mai del tutto. La malattia dell’Italia non sono i Grillo, semmai i Mastrapasqua. I grillini, ahinoi, partono per affondare ma generando ricompattazione del blocco parlamentare, risultano alla fine essere una ciambella di salvataggio.

L’assenza di una qualunque identità della sinistra nei banchi di Montecitorio e Palazzo Madama è la naturale conseguenza dell’assenza della sinistra dal Paese, a sua volta coerente ricaduta dell’assenza di una qualunque idea di sinistra. I fantasmi che si fregiano del titolo sono solo cordate furbe di ex di tutto e perenni candidati del nulla. In assenza di una sinistra capace anche solo d’immaginare un’alternativa sociale e politica davanti allo sfascio dell’Italia per gli appartenenti a quel 60 per cento che non riunisce la ricchezza del 10, è inutile dipingere il quadro con i soli colori del garbo istituzionale e del bon ton.

Non sono i grillini ad avvelenare il clima e non saranno i grillini, da soli, ad indicare la rotta per il cambiamento delle politiche pubbliche. Non hanno nemmeno loro nessuna possibilità di costruire un’alternativa perché non la sanno nemmeno immaginare. L’insulto, le sceneggiate, fanno perdere di vista le porcate in serie di provvedimenti che per decenza non andrebbero nemmeno presentati e si rivelano parte di uno show mediatico, di una iniziazione goliardica dal sapore rancido, tipico di chi usa l’odio per farsi una fama sulla quale magari costruire una carriera. Peggio che volgari, purtroppo sono innocui. E il Paese va a picco.

di Rosa Ana De Santis

Il linciaggio è iniziato sul web con il video “ironico” sulla Presidente della Camera, come ora i grillini lo definiscono, la scorsa settimana al grido di battaglia lanciato dal leader Grillo. E la Rete si è scatenata contro Laura Boldrini. Questa volta è lei il capro espiatorio designato che in una sola notte raccoglie migliaia di messaggi, commenti e offese sessiste di assoluta gravità e una ridicola icona in baffetti hitleriani. La Rete è libera, si difende il Movimento e l’adunata convocata da Grillo è proprio su questa libertà spregiudicata che continua a fondare la propria forza e la legittimità della propria esistenza.

Esiste una libertà che è quella formale e istituzionale degli Stati nazionali moderni, quella per intenderci che non costruisce le società sull’etica, sui manifesti dei valori e sui costumi morali, e ne esiste una che è fatta di pancia e arbitrio senza contegno. Non molto diversa, per intenderci, da quella che ha di fatto autorizzato il Cavaliere Berlusconi e imboscare le sue amanti nei ruolo istituzionali o a sentirsi ab-solutus in nome della legittimazione popolare. Tirannidi sotto traccia, populismi.

Solo che nel caso di Berlusconi avevamo un amorale Re Mida, nel caso di Grillo abbiamo Savonarola e la ghigliottina. Difficile stabilire cosa sia più pericoloso. I Cinque stelle infatti, questa la pericolosa differenza, rivendicano la libertà di essere eretici rispetto a leggi e convenzioni e di poter fare e dire la qualsiasi in “nome del bene e del giusto”: la posizione in cui si trovano come sacerdoti indiscussi della moralità e del buon costume.

E’ questo a renderli estranei ad ogni simpatia: la volontà di epurare il Parlamento secondo criteri valoriali (dettati dal loro guru) e di farlo abusando degli strumenti democratici, confondendo la libertà di espressione con il “pestaggio”mediatico - come ha definito la Presidente quello contro Fazio, Augias e Daria Bignardi che le avevano espresso solidarietà.

Il caso Boldrini è solo uno dei tanti ghigliottinamenti mediatici dei grillini, con l’aggravante simbolica e non solo del sessismo: dagli inviti allo stupro, alla prostituzione, alle più volgari bassezze e violenze. In un Paese afflitto dalla piaga del femminicidio, che tutto questo abbia un’investitura dalle stanze del Parlamento dove questi signori siedono solo grazie al voto dell’esasperazione popolare, è un’aberrazione e un pericolo enorme.

Sarebbe stato opportuno prendere le distanze dalla violenza verbale e invece gli onorevoli a cinque stelle si sono sperticati nell’arringa della libertà di espressione. Il linguaggio sdoganato dai Cinque Stelle e incredibilmente legittimato ormai è un’azione di violenza a tutti gli effetti. Non si sta parlando delle ragioni del governo o delle sue inadempienze, ma di metodo democratico o meno. Al riparo dell’anonimato sul web o della tanto vituperata (per gli altri) immunità parlamentare, niente è più facile che scagliare insulti e odio, sapendo di non dover pagare il conto.

Il Movimento utilizza un linguaggio ad personam, ascrive al singolo problemi di ordine generale, alimenta - in uno stile vistosamente squadrista - la “caccia all’uomo”. Non con la camicia nera e l’olio di ricino, ma con i post su Facebook e con la difesa strenua della non censura. Perché tutti sono titolati a parlare e ad esprimere qualsiasi opinione. Questo spiega il Movimento dei signori qualunque. Quindi anche quanti scriveranno che i campi di sterminio non sono esistiti, o che gli ebrei andavano eliminati, o che i neri e gli stranieri vanno espulsi e lasciati annegare, o che le donne non hanno gli stessi diritti?

Devono fare una scelta gli uomini e le donne cooptati dal guru. Pensano di essere Savonarola nelle parole e negli emendamenti, nello stile e nella policy delle censure, ma si rivelano mandanti di una spedizione anti istituzionale attraverso cui, in nome della giustizia popolare da loro emanata, taglieranno forse un po’ di stipendi d’oro e di privilegi, ma ci lasceranno in cambio una devastazione peggiore: un governo trasformato in una piazza. Quella delle forche. Questo rimane di solito delle repubbliche degli uomini santi.

di Carlo Musilli

Bustarelle, reti di clientele, favori sottobanco, mani che si lavano tra loro e insieme lavano il viso. Mentre in Italia si continua a demonizzare il costo del lavoro come principale deterrente agli investimenti esteri, Bruxelles, per una volta, insinua un dubbio costruttivo: e se c'entrasse qualcosa anche il nostro livello siderale di corruzione?

Iniziamo dai numeri e sgombriamo subito il campo da un'inesattezza diffusa a macchia d'olio. Si dice che il nostro Paese produca il 50% della corruzione europea, ma questo dato è falso, dal momento che non è possibile verificarlo con rigore scientifico. Nel rapporto diffuso ieri dalla Commissione europea si stima che la corruzione valga circa 120 miliardi l'anno nell'intera Ue.

Non esiste però alcuna stima comunitaria relativa all'Italia: i 60 miliardi di cui si è scritto e parlato in queste ore fanno riferimento a un testo pubblicato l'anno scorso dalla Corte dei Conti, la quale a sua volta citava come fonte il SAeT e il Dipartimento della Funzione Pubblica, giudicando però la cifra "invero esagerata". La stima in questione è stata inoltre smentita più volte da vari uffici della Pubblica amministrazione. 

Schivata la bufala, è comunque innegabile che il problema corruzione abbia da noi un peso specifico di gran lunga superiore rispetto alle altre maggiori economie dell'Unione. "In Italia i legami tra politici, criminalità organizzata e imprese - scrive la Commissione -, uniti allo scarso livello d'integrità dei titolari di cariche elettive e di governo, sono tra gli aspetti più preoccupanti, come testimonia l'alto numero di indagini per corruzione".

Bruxelles ci ricorda quanto siano sporchi i panni da lavare nella famiglia italiana: solo nel 2012 sono scattate indagini penali e ordinanze di custodia cautelare nei confronti di esponenti politici locali in circa metà delle 20 Regioni italiane. Inoltre, più di 30 deputati della precedente legislatura sono stati indagati per reati legati alla corruzione o al finanziamento illecito ai partiti.

Fin qui, purtroppo, niente di nuovo. L'Europa ci fornisce una diagnosi che conosciamo a memoria, almeno dai tempi di Tangentopoli. Ben più interessante è ragionare sulla possibile cura. L'ultimo provvedimento anticorruzione varato dall'Italia è la legge Severino, approvata poco più di un anno fa sotto il governo Monti. Un pacchetto di norme inconsistente, il cui scopo fondamentale era sottrarre argomentazioni ai nemici della casta, mantenendo il più possibile inalterato lo status quo.

All'alba del febbraio 2014, finalmente, l'Europa si rende conto che quella riforma è in realtà uno specchietto per le allodole, perché "lascia irrisolti" troppi problemi: "Non modifica la disciplina della prescrizione, la legge sul falso in bilancio e l'autoriciclaggio - si legge ancora nel report - e non introduce reati per il voto di scambio". Su quest'ultimo punto, in particolare, sembra proprio che l'unica contromisura concepibile dai politici italiani (berlusconiani in testa) sia la lista bloccata sulle schede elettorali.

Ma non è finita. Bruxelles punta il dito anche contro la mancanza di norme efficaci in tema di conflitti d'interesse e rileva che "i tentativi" di produrre norme per garantire processi efficaci sono stati "più volte ostacolati dalle leggi ad personam" del Cavaliere: dal lodo Alfano alla ex Cirielli, dalla depenalizzazione del falso in bilancio al legittimo impedimento.

La Commissione sottolinea poi che la corruzione non riguarda solo il settore pubblico, ma anche quello privato. Su questo versante i problemi sono due: l'Italia non ha pienamente applicato una direttiva europea per contrastare il fenomeno e utilizza ancora un sistema di contabilità societaria che non rispetta la Convenzione penale del Consiglio d'Europa.

In generale, però, al di là dei numeri più o meno realistici e dei singoli interventi di cui il Paese avrebbe bisogno, il rapporto della Commissione indica l'elefante nella stanza che la politica italiana ignora da sempre. Il clientelismo e la corruzione di amministratori e burocrati sono sempre stati, sono ancora e saranno sempre una zavorra pesantissima per l'economia italiana, perché falsano la concorrenza, fanno aumentare i costi per le imprese e per lo Stato, scoraggiano gli investimenti e producono un aggravio fiscale sulle tasche dei contribuenti. Lo sappiamo, ma non ci poniamo il problema.

Tanto per fare un esempio tratto dalla cronaca recente, abbiamo dovuto aspettare che Antonio Mastrapasqua fosse indagato dalla Procura di Roma per capire che chi dirige l'Inps non può avere altri incarichi, tanto meno se in conflitto d'interessi. Dovremmo ricordarci di questa nostra attitudine la prossima volta che torneremo a parlare di articolo 18.

di Carlo Musilli

Non si chiama Enrico, non gli manca una gamba e non scagliò una gruccia contro il nemico durante la Prima guerra mondiale. Eppure, anche questo Toti ha qualcosa di eroico. Di nome fa Giovanni e da ieri è ufficialmente il nuovo "consigliere politico per il programma" di Forza Italia. Una promozione interna a tutti gli effetti, visto che fino a due giorni fa Toti dirigeva il Tg4 e Studio Aperto. Alla faccia di chi sostiene che in Italia non esiste meritocrazia.

Questo Toti non ha combattuto sull’Isonzo, ma di lui si ricordano imprese ancor più gloriose. Come dimenticare lo speciale in due puntate “La guerra dei vent’anni”, da lui curato e mandato in onda alla vigilia del processo Ruby? E tutti i suoi editoriali contro quei bolscevichi dei magistrati italiani? Novello Platone, non si è mai sottratto all’apologia del suo Socrate, Silvio Berlusconi.

La coerenza della sua linea editoriale gli è valsa nel tempo una grande ammirazione in quel di Arcore. Al punto da spingere il Grande Capo a chiedergli di fare il grande passo, buttarsi in politica. I rumors circolavano da tempo, ma l’investitura comunicata ieri ha sorpreso lo stesso. Chi l'avrebbe detto? L’obiettività giornalistica di Toti non aveva mai suggerito ad alcuno una sua possibile affinità ideologica al partito del Cavaliere.

Eppure, a quanto pare, era così. Certo, si potrebbe obiettare che il mestiere del politico e quello del giornalista non sono poi così compatibili. Magari la tessera del partito e quella dell’Ordine professionale fanno a cazzotti nel portafoglio, certo. Ma non interessa a nessuno. In Italia è più che normale. La confusione fra i due ruoli e l’andirivieni fra i versanti della barricata sono prassi consolidate, a destra come a sinistra.

Questo Toti non conosce le baionette dell’esercito austroungarico, ma qualche frecciata dovrà schivarla comunque. La sua nomina calata dall’alto, infatti, non è stata accolta con giubilo dai luogotenenti storici di Forza Italia. A cominciare dall’ex ministro Raffaele Fitto, che da mesi si autopropone (inutilmente) come nuovo delfino berlusconiano. Si narra perfino d’insoliti dissapori fra il Cavaliere e il super-falco Denis Verdini.

Superato il fuoco amico, il 45enne Toti dovrà poi fare in modo che la sua “faccia nuova” piaccia a qualcuno anche fuori da Arcore (dove lui ormai è un habitué, fra pranzi e partite domenicali del Milan). Parlare di uomo anti-Renzi è prematuro, ma non si può dire che non ci stia provando.

E quali sono i primi requisiti che si richiedono a un politico in rampa di lancio? Un programma chiaro e convincente? Una preparazione impeccabile, magari di respiro internazionale? Una lunga gavetta nelle fila del partito? No: deve essere rigorosamente sbarbato, in abito di sartoria e con meno pancia possibile. Insomma, piacente. Così il Grande Capo li voleva in Fininvest, così li vuole nel cielo azzurro della libertà.

Proprio per dare una rinfrescata a look e metabolismo, Toti ha accompagnato Berlusconi in uno dei suoi consueti ritiri ascetici pre-campagna elettorale. Stavolta l’eremo non era il resort di Briatore in Kenya, ma un più pratico centro benessere sul Lago di Garda. Sembra che sia stato addirittura l’ex direttore a organizzare la scampagnata, cui ha preso parte, com’era ovvio, anche Francesca Pascale.   

Dopo la purificazione lacustre, è probabile che Toti scenda in campo per le europee, così da ottenere una legittimazione elettorale al proprio ruolo. La sua natura di outsider è un punto di forza, ma se cercasse di accelerare i tempi rischierebbe di bruciarsi. Meglio andarci piano, fare un salto a Strasburgo, stringere mani e sorridere per qualche mese.

Insomma, questo Toti non ha mai sognato di fare il bersagliere, ma quello che sta vivendo è certamente il sogno nel cassetto di qualsiasi direttore del Tg4. Non lo ha nascosto il suo impulsivo predecessore, costretto a lasciargli la poltrona dall’onta dello scandalo. “Toti? - disse il grande Emilio Fede ai microfoni de La Zanzara - Ha avuto un gran culo”.   


di Fabrizio Casari

Alla fine l’incontro tra il segretario del PD Renzi e il capo della destra italiana, Berlusconi, ha avuto luogo. In Via del Nazareno, cioè nella sede del PD. Il dato va sottolineato dal momento che è la prima volta che il cavaliere non riceve nelle sue dimore ma si reca nella sede altrui. Nella comunicazione dei simboli, anche questo ha il suo valore, come quello di vedere Berlusconi uscire scortato e Renzi andare via in taxi. Della visita alcuni esponenti del PD si sono detti scandalizzati, altri l’hanno definita un errore; ma se Renzi fosse andato ad Arcore avrebbero detto che si era recato in processione.

Il nodo, questo sì legittimo nel suscitare le proteste interne, è che la condanna passata in giudicato che ha espulso Berlusconi dal Senato e dalla possibilità di candidarsi fa risultare indigesta l’intesa con il Cavaliere. Su questo c’è poco da obiettare, lo spettacolo non è certo entusiasmante. Ma sul piano politico è tutt’altra storia: pensare che Berlusconi sia fuori dal gioco politico causa sentenza della Suprema Corte è una ingenuità da sottolineare in rosso. La destra, nel Parlamento e nel Paese, è forte e ritenere che si possa giungere ad un accordo ampio sulla legge elettorale senza coinvolgere direttamente Berlusconi significa scambiare le lucciole di Alfano con le lanterne della destra italiana.

Sono comunque ipocrisie strumentali, dal momento che non è stata certo la prima volta che il PD ora e il PDS prima si è seduto al tavolo con il Cavaliere di Arcore per parlare di legge elettorale. Che poi lui abbia deciso il menù e che questo sia rimasto indigesto (le crostate non sono leggere) è altra storia. Racconta di quanto i cosiddetti “professionisti della politica” pensavano che la loro esperienza e abilità avrebbero avuto facilmente ragione del parvenue brianzolo. Ma quando mai: i consiglieri che Berlusconi aveva erano più che sufficienti a far andare di traverso il boccone ai cosiddetti “professionisti”. E  dunque sarebbe stato bene non cominciarla nemmeno la novella degli incontri bilaterali: non servivano tre gradi di giudizio per stabilire l’indegnità politica e morale di Berlusconi. Non serviva insomma la Cassazione per dire al PD cos’è la destra italiana e che razza di personaggi ospiti a cominciare dal suo capo e padrone. 

Si può comunque facilmente individuare la strategia di Renzi: non ha nessuna voglia di veder proseguire il cammino del catatonico governo Letta ma, vista la sentenza della Consulta sul Porcellum, sa perfettamente che il ricorso alle urne sarà possibile solo con una nuova legge elettorale. E dunque parla con chi ha i numeri in Parlamento, non con chi non li ha.

In questo senso, mentre giudica la formazione di Alfano una riproposizione di quanto già visto con la vicenda politica di Fini, ritiene che un’intesa con Forza Italia avvicini concretamente la possibilità di varare una nuova legge elettorale entro Aprile, così da riuscire ad andare al voto entro Giugno.

L’intesa raggiunta da Renzi e Berlusconi è però grave nel merito, più che nel metodo. La Consulta ha fatto un esplicito riferimento all’illegittimità del premio di maggioranza, ma l’intesa lo ripropone come niente fosse. Sul piano dell’ingegneria elettorale si continua a perseverare nella sottocultura del bipolarismo, pensando di obbligare l’Italia ad una ulteriore torsione anglosassone che non le appartiene per storia e cultura politica, costringendo al silenzio tramite legge le correnti politiche non allineate con i due partiti di massa. In questo modo si palesano due errori: il primo è quello di ridurre a diritto di tribuna il dissenso e di mutilare la rappresentatività, uno dei due presupposti (insieme alla governabilità) su cui una buona legge elettorale deve fondarsi.

Il secondo è procedurale. Non servono espedienti tecnici: se l’intenzione è quella di ridurre al silenzio le forze politiche minori obbligandole all’accorpamento, nell’ipotesi di accordo la situazione si ripresenta comunque quando si propone il premio di maggioranza per la coalizione vincente. L’eventuale “ricatto”, come viene chiamato dai prepotenti il diritto all’agibilità politica dei piccoli, viene solo spostato in altro ambito, quello di coalizione.

Perchè? E' semplice: dovendo ad ogni costo raggiungere un voto in più dell’avversario, nessun partito rinuncerà mai ad alleanze, per spurie che siano, non potendo permettersi di rinunciare ad anche solo poche migliaia di voti. E questo vale sia in un sistema a turno unico che in uno a due turni, sia in un modello come quello spagnolo che in uno come quello francese. Peraltro, la propaganda sulle virtù dell'uninominale non rende più: il sistema bipolare visto finora non ha ridotto il numero dei partiti e non ha aumentato la governabilità.

Se quindi si vuole davvero ridurre il numero dei partiti e, nel contempo, offrire un livello importante di rappresentatività, il modello tedesco - legge proporzionale con sbarramento al 4 per cento - è l’unica strada possibile. E non è nemmeno un caso che la Germania sia il paese europeo con il livello di stabilità politica più elevato. Ma è chiaro che Berlusconi pensa di ricondurre con la forza all’ovile il NCD di Alfano e Fratelli d’Italia di La Russa e Meloni, mentre Renzi sa benissimo che il percorso di SEL di Niki Vendola porta dritto al PD.

C’è poi l’aspetto della riforma del Titolo V della Carta costituzionale, con l’abolizione del bicameralismo perfetto e la nascita di una Camera delle Autonomie. Niente di nuovo, sono le proposte che il PCI faceva a metà degli anni ’70 quando Armando Cossutta dirigeva la Commissione Enti Locali del partito, che prevedevano anche la riduzione del numero dei parlamentari. Quindi non dovrebbero riscontrarsi obiezioni importanti, dal momento che l’urgenza di attualizzare l’articolo 127 della Costituzione è ampiamente condivisa.

E’ indubitabile, comunque, che l’intesa tra Renzi e Berlusconi avrà importanti ripercussioni sulla sorte del governo Letta. La stessa idea di bipolarismo stride con quella della grande coalizione e, vista l’assoluta incapacità dell’Esecutivo di migliorare i conti pubblici attraverso una svolta in politica economica, nessuno soffrirà per questo. I riverberi della crisi politica saranno comunque destinati a modificare il quadro e il peso gli attori che vi si muovono.

Renzi ha infatti deciso di rifare la mappa della politica italiana, togliendo dalle mani di Napolitano la cloche del sistema. La consapevolezza di aver vinto le primarie degli elettori ma di non essere maggioranza assoluta tra gli iscritti, il vanitosissimo segretario sa di avere poco tempo per dimostrare di essere in grado di produrre una scossa nel paese e nel suo stesso partito, senza la quale la novità della sua elezione diverrebbe presto uno dei tanti passaggi politici metabolizzati senza traumi.

L’effetto Mariotto Segni agita i sogni del sindaco di Firenze che ha fretta di ridisegnare il quadro politico. Mettere in ulteriore minoranza i suoi oppositori, relegare Napolitano al ruolo di notaio istituzionale e sfarinare la grande coalizione tra gli ex di tutto sono i passaggi necessari per arrivare alla sua candidatura a Palazzo Chigi. Il punto d’arrivo delle sue ambizioni.



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