di Carlo Musilli

Bustarelle, reti di clientele, favori sottobanco, mani che si lavano tra loro e insieme lavano il viso. Mentre in Italia si continua a demonizzare il costo del lavoro come principale deterrente agli investimenti esteri, Bruxelles, per una volta, insinua un dubbio costruttivo: e se c'entrasse qualcosa anche il nostro livello siderale di corruzione?

Iniziamo dai numeri e sgombriamo subito il campo da un'inesattezza diffusa a macchia d'olio. Si dice che il nostro Paese produca il 50% della corruzione europea, ma questo dato è falso, dal momento che non è possibile verificarlo con rigore scientifico. Nel rapporto diffuso ieri dalla Commissione europea si stima che la corruzione valga circa 120 miliardi l'anno nell'intera Ue.

Non esiste però alcuna stima comunitaria relativa all'Italia: i 60 miliardi di cui si è scritto e parlato in queste ore fanno riferimento a un testo pubblicato l'anno scorso dalla Corte dei Conti, la quale a sua volta citava come fonte il SAeT e il Dipartimento della Funzione Pubblica, giudicando però la cifra "invero esagerata". La stima in questione è stata inoltre smentita più volte da vari uffici della Pubblica amministrazione. 

Schivata la bufala, è comunque innegabile che il problema corruzione abbia da noi un peso specifico di gran lunga superiore rispetto alle altre maggiori economie dell'Unione. "In Italia i legami tra politici, criminalità organizzata e imprese - scrive la Commissione -, uniti allo scarso livello d'integrità dei titolari di cariche elettive e di governo, sono tra gli aspetti più preoccupanti, come testimonia l'alto numero di indagini per corruzione".

Bruxelles ci ricorda quanto siano sporchi i panni da lavare nella famiglia italiana: solo nel 2012 sono scattate indagini penali e ordinanze di custodia cautelare nei confronti di esponenti politici locali in circa metà delle 20 Regioni italiane. Inoltre, più di 30 deputati della precedente legislatura sono stati indagati per reati legati alla corruzione o al finanziamento illecito ai partiti.

Fin qui, purtroppo, niente di nuovo. L'Europa ci fornisce una diagnosi che conosciamo a memoria, almeno dai tempi di Tangentopoli. Ben più interessante è ragionare sulla possibile cura. L'ultimo provvedimento anticorruzione varato dall'Italia è la legge Severino, approvata poco più di un anno fa sotto il governo Monti. Un pacchetto di norme inconsistente, il cui scopo fondamentale era sottrarre argomentazioni ai nemici della casta, mantenendo il più possibile inalterato lo status quo.

All'alba del febbraio 2014, finalmente, l'Europa si rende conto che quella riforma è in realtà uno specchietto per le allodole, perché "lascia irrisolti" troppi problemi: "Non modifica la disciplina della prescrizione, la legge sul falso in bilancio e l'autoriciclaggio - si legge ancora nel report - e non introduce reati per il voto di scambio". Su quest'ultimo punto, in particolare, sembra proprio che l'unica contromisura concepibile dai politici italiani (berlusconiani in testa) sia la lista bloccata sulle schede elettorali.

Ma non è finita. Bruxelles punta il dito anche contro la mancanza di norme efficaci in tema di conflitti d'interesse e rileva che "i tentativi" di produrre norme per garantire processi efficaci sono stati "più volte ostacolati dalle leggi ad personam" del Cavaliere: dal lodo Alfano alla ex Cirielli, dalla depenalizzazione del falso in bilancio al legittimo impedimento.

La Commissione sottolinea poi che la corruzione non riguarda solo il settore pubblico, ma anche quello privato. Su questo versante i problemi sono due: l'Italia non ha pienamente applicato una direttiva europea per contrastare il fenomeno e utilizza ancora un sistema di contabilità societaria che non rispetta la Convenzione penale del Consiglio d'Europa.

In generale, però, al di là dei numeri più o meno realistici e dei singoli interventi di cui il Paese avrebbe bisogno, il rapporto della Commissione indica l'elefante nella stanza che la politica italiana ignora da sempre. Il clientelismo e la corruzione di amministratori e burocrati sono sempre stati, sono ancora e saranno sempre una zavorra pesantissima per l'economia italiana, perché falsano la concorrenza, fanno aumentare i costi per le imprese e per lo Stato, scoraggiano gli investimenti e producono un aggravio fiscale sulle tasche dei contribuenti. Lo sappiamo, ma non ci poniamo il problema.

Tanto per fare un esempio tratto dalla cronaca recente, abbiamo dovuto aspettare che Antonio Mastrapasqua fosse indagato dalla Procura di Roma per capire che chi dirige l'Inps non può avere altri incarichi, tanto meno se in conflitto d'interessi. Dovremmo ricordarci di questa nostra attitudine la prossima volta che torneremo a parlare di articolo 18.

di Carlo Musilli

Non si chiama Enrico, non gli manca una gamba e non scagliò una gruccia contro il nemico durante la Prima guerra mondiale. Eppure, anche questo Toti ha qualcosa di eroico. Di nome fa Giovanni e da ieri è ufficialmente il nuovo "consigliere politico per il programma" di Forza Italia. Una promozione interna a tutti gli effetti, visto che fino a due giorni fa Toti dirigeva il Tg4 e Studio Aperto. Alla faccia di chi sostiene che in Italia non esiste meritocrazia.

Questo Toti non ha combattuto sull’Isonzo, ma di lui si ricordano imprese ancor più gloriose. Come dimenticare lo speciale in due puntate “La guerra dei vent’anni”, da lui curato e mandato in onda alla vigilia del processo Ruby? E tutti i suoi editoriali contro quei bolscevichi dei magistrati italiani? Novello Platone, non si è mai sottratto all’apologia del suo Socrate, Silvio Berlusconi.

La coerenza della sua linea editoriale gli è valsa nel tempo una grande ammirazione in quel di Arcore. Al punto da spingere il Grande Capo a chiedergli di fare il grande passo, buttarsi in politica. I rumors circolavano da tempo, ma l’investitura comunicata ieri ha sorpreso lo stesso. Chi l'avrebbe detto? L’obiettività giornalistica di Toti non aveva mai suggerito ad alcuno una sua possibile affinità ideologica al partito del Cavaliere.

Eppure, a quanto pare, era così. Certo, si potrebbe obiettare che il mestiere del politico e quello del giornalista non sono poi così compatibili. Magari la tessera del partito e quella dell’Ordine professionale fanno a cazzotti nel portafoglio, certo. Ma non interessa a nessuno. In Italia è più che normale. La confusione fra i due ruoli e l’andirivieni fra i versanti della barricata sono prassi consolidate, a destra come a sinistra.

Questo Toti non conosce le baionette dell’esercito austroungarico, ma qualche frecciata dovrà schivarla comunque. La sua nomina calata dall’alto, infatti, non è stata accolta con giubilo dai luogotenenti storici di Forza Italia. A cominciare dall’ex ministro Raffaele Fitto, che da mesi si autopropone (inutilmente) come nuovo delfino berlusconiano. Si narra perfino d’insoliti dissapori fra il Cavaliere e il super-falco Denis Verdini.

Superato il fuoco amico, il 45enne Toti dovrà poi fare in modo che la sua “faccia nuova” piaccia a qualcuno anche fuori da Arcore (dove lui ormai è un habitué, fra pranzi e partite domenicali del Milan). Parlare di uomo anti-Renzi è prematuro, ma non si può dire che non ci stia provando.

E quali sono i primi requisiti che si richiedono a un politico in rampa di lancio? Un programma chiaro e convincente? Una preparazione impeccabile, magari di respiro internazionale? Una lunga gavetta nelle fila del partito? No: deve essere rigorosamente sbarbato, in abito di sartoria e con meno pancia possibile. Insomma, piacente. Così il Grande Capo li voleva in Fininvest, così li vuole nel cielo azzurro della libertà.

Proprio per dare una rinfrescata a look e metabolismo, Toti ha accompagnato Berlusconi in uno dei suoi consueti ritiri ascetici pre-campagna elettorale. Stavolta l’eremo non era il resort di Briatore in Kenya, ma un più pratico centro benessere sul Lago di Garda. Sembra che sia stato addirittura l’ex direttore a organizzare la scampagnata, cui ha preso parte, com’era ovvio, anche Francesca Pascale.   

Dopo la purificazione lacustre, è probabile che Toti scenda in campo per le europee, così da ottenere una legittimazione elettorale al proprio ruolo. La sua natura di outsider è un punto di forza, ma se cercasse di accelerare i tempi rischierebbe di bruciarsi. Meglio andarci piano, fare un salto a Strasburgo, stringere mani e sorridere per qualche mese.

Insomma, questo Toti non ha mai sognato di fare il bersagliere, ma quello che sta vivendo è certamente il sogno nel cassetto di qualsiasi direttore del Tg4. Non lo ha nascosto il suo impulsivo predecessore, costretto a lasciargli la poltrona dall’onta dello scandalo. “Toti? - disse il grande Emilio Fede ai microfoni de La Zanzara - Ha avuto un gran culo”.   


di Fabrizio Casari

Alla fine l’incontro tra il segretario del PD Renzi e il capo della destra italiana, Berlusconi, ha avuto luogo. In Via del Nazareno, cioè nella sede del PD. Il dato va sottolineato dal momento che è la prima volta che il cavaliere non riceve nelle sue dimore ma si reca nella sede altrui. Nella comunicazione dei simboli, anche questo ha il suo valore, come quello di vedere Berlusconi uscire scortato e Renzi andare via in taxi. Della visita alcuni esponenti del PD si sono detti scandalizzati, altri l’hanno definita un errore; ma se Renzi fosse andato ad Arcore avrebbero detto che si era recato in processione.

Il nodo, questo sì legittimo nel suscitare le proteste interne, è che la condanna passata in giudicato che ha espulso Berlusconi dal Senato e dalla possibilità di candidarsi fa risultare indigesta l’intesa con il Cavaliere. Su questo c’è poco da obiettare, lo spettacolo non è certo entusiasmante. Ma sul piano politico è tutt’altra storia: pensare che Berlusconi sia fuori dal gioco politico causa sentenza della Suprema Corte è una ingenuità da sottolineare in rosso. La destra, nel Parlamento e nel Paese, è forte e ritenere che si possa giungere ad un accordo ampio sulla legge elettorale senza coinvolgere direttamente Berlusconi significa scambiare le lucciole di Alfano con le lanterne della destra italiana.

Sono comunque ipocrisie strumentali, dal momento che non è stata certo la prima volta che il PD ora e il PDS prima si è seduto al tavolo con il Cavaliere di Arcore per parlare di legge elettorale. Che poi lui abbia deciso il menù e che questo sia rimasto indigesto (le crostate non sono leggere) è altra storia. Racconta di quanto i cosiddetti “professionisti della politica” pensavano che la loro esperienza e abilità avrebbero avuto facilmente ragione del parvenue brianzolo. Ma quando mai: i consiglieri che Berlusconi aveva erano più che sufficienti a far andare di traverso il boccone ai cosiddetti “professionisti”. E  dunque sarebbe stato bene non cominciarla nemmeno la novella degli incontri bilaterali: non servivano tre gradi di giudizio per stabilire l’indegnità politica e morale di Berlusconi. Non serviva insomma la Cassazione per dire al PD cos’è la destra italiana e che razza di personaggi ospiti a cominciare dal suo capo e padrone. 

Si può comunque facilmente individuare la strategia di Renzi: non ha nessuna voglia di veder proseguire il cammino del catatonico governo Letta ma, vista la sentenza della Consulta sul Porcellum, sa perfettamente che il ricorso alle urne sarà possibile solo con una nuova legge elettorale. E dunque parla con chi ha i numeri in Parlamento, non con chi non li ha.

In questo senso, mentre giudica la formazione di Alfano una riproposizione di quanto già visto con la vicenda politica di Fini, ritiene che un’intesa con Forza Italia avvicini concretamente la possibilità di varare una nuova legge elettorale entro Aprile, così da riuscire ad andare al voto entro Giugno.

L’intesa raggiunta da Renzi e Berlusconi è però grave nel merito, più che nel metodo. La Consulta ha fatto un esplicito riferimento all’illegittimità del premio di maggioranza, ma l’intesa lo ripropone come niente fosse. Sul piano dell’ingegneria elettorale si continua a perseverare nella sottocultura del bipolarismo, pensando di obbligare l’Italia ad una ulteriore torsione anglosassone che non le appartiene per storia e cultura politica, costringendo al silenzio tramite legge le correnti politiche non allineate con i due partiti di massa. In questo modo si palesano due errori: il primo è quello di ridurre a diritto di tribuna il dissenso e di mutilare la rappresentatività, uno dei due presupposti (insieme alla governabilità) su cui una buona legge elettorale deve fondarsi.

Il secondo è procedurale. Non servono espedienti tecnici: se l’intenzione è quella di ridurre al silenzio le forze politiche minori obbligandole all’accorpamento, nell’ipotesi di accordo la situazione si ripresenta comunque quando si propone il premio di maggioranza per la coalizione vincente. L’eventuale “ricatto”, come viene chiamato dai prepotenti il diritto all’agibilità politica dei piccoli, viene solo spostato in altro ambito, quello di coalizione.

Perchè? E' semplice: dovendo ad ogni costo raggiungere un voto in più dell’avversario, nessun partito rinuncerà mai ad alleanze, per spurie che siano, non potendo permettersi di rinunciare ad anche solo poche migliaia di voti. E questo vale sia in un sistema a turno unico che in uno a due turni, sia in un modello come quello spagnolo che in uno come quello francese. Peraltro, la propaganda sulle virtù dell'uninominale non rende più: il sistema bipolare visto finora non ha ridotto il numero dei partiti e non ha aumentato la governabilità.

Se quindi si vuole davvero ridurre il numero dei partiti e, nel contempo, offrire un livello importante di rappresentatività, il modello tedesco - legge proporzionale con sbarramento al 4 per cento - è l’unica strada possibile. E non è nemmeno un caso che la Germania sia il paese europeo con il livello di stabilità politica più elevato. Ma è chiaro che Berlusconi pensa di ricondurre con la forza all’ovile il NCD di Alfano e Fratelli d’Italia di La Russa e Meloni, mentre Renzi sa benissimo che il percorso di SEL di Niki Vendola porta dritto al PD.

C’è poi l’aspetto della riforma del Titolo V della Carta costituzionale, con l’abolizione del bicameralismo perfetto e la nascita di una Camera delle Autonomie. Niente di nuovo, sono le proposte che il PCI faceva a metà degli anni ’70 quando Armando Cossutta dirigeva la Commissione Enti Locali del partito, che prevedevano anche la riduzione del numero dei parlamentari. Quindi non dovrebbero riscontrarsi obiezioni importanti, dal momento che l’urgenza di attualizzare l’articolo 127 della Costituzione è ampiamente condivisa.

E’ indubitabile, comunque, che l’intesa tra Renzi e Berlusconi avrà importanti ripercussioni sulla sorte del governo Letta. La stessa idea di bipolarismo stride con quella della grande coalizione e, vista l’assoluta incapacità dell’Esecutivo di migliorare i conti pubblici attraverso una svolta in politica economica, nessuno soffrirà per questo. I riverberi della crisi politica saranno comunque destinati a modificare il quadro e il peso gli attori che vi si muovono.

Renzi ha infatti deciso di rifare la mappa della politica italiana, togliendo dalle mani di Napolitano la cloche del sistema. La consapevolezza di aver vinto le primarie degli elettori ma di non essere maggioranza assoluta tra gli iscritti, il vanitosissimo segretario sa di avere poco tempo per dimostrare di essere in grado di produrre una scossa nel paese e nel suo stesso partito, senza la quale la novità della sua elezione diverrebbe presto uno dei tanti passaggi politici metabolizzati senza traumi.

L’effetto Mariotto Segni agita i sogni del sindaco di Firenze che ha fretta di ridisegnare il quadro politico. Mettere in ulteriore minoranza i suoi oppositori, relegare Napolitano al ruolo di notaio istituzionale e sfarinare la grande coalizione tra gli ex di tutto sono i passaggi necessari per arrivare alla sua candidatura a Palazzo Chigi. Il punto d’arrivo delle sue ambizioni.


di Rosa Ana De Santis

In attesa di una legge adeguata che renda cittadini i figli di stranieri nati sul territorio italiano, alcuni lo sono diventati per investitura simbolica ed onoraria. L’anno scorso 106 Comuni hanno accettato la proposta di Unicef e Anci e il numero è destinato ad aumentare. Nel 2012 sono stati 80 mila i nuovi nati e cresciuti sul territorio italiano per i quali la cittadinanza a norma di legge rimane un lontano traguardo. Non solo manca un provvedimento, ma latita la stessa volontà politica di affrontare questa emergenza sociale e culturale che lascia nella terra di nessuno persone che diventeranno grandi e costruiranno una vita da italiani a tutti gli effetti.

L’ultima città, in ordine di tempo, ad aver conferito questo titolo onorario è stato L’Aquila. Un segnale simbolico importante, tanto più d’effetto nei giorni funesti in corso in cui viene allo scoperto l’ennesima prova di odiosa cattiva politica italiana fatta di corruzione e sciacallaggio che si è abbattuta sulle macerie di una città terremotata.

L’Unicef va avanti con questa operazione nella speranza che sortisca un effetto di sensibilizzazione verso le Istituzioni addormentate. E’ evidente che l’Italia, ancora al palo con una legge inadeguata ancora prima che xenofoba - la Bossi-Fini - paga un’incapacità di leggere e affrontare con spirito di programmazione e lungo respiro il tema caldissimo dell’immigrazione.

Se tutto è fermo al soccorso sulle sponde di Lampedusa e alla necessità di avere nuovi fondi europei è evidente che ancora una volta è la politica a soccombere sulla gestione di un’emergenza che è destinata a replicarsi infinite volte identica a se stessa. Questa almeno è la scena che ci restituisce la cronaca.

Si può discutere se sia migliore l’opzione tra uno "ius soli" sic et simpliciter o una via di mezzo che preveda un percorso di preparazione e studio per l’acquisizione della cittadinanza.

Peccato che l’ultimo a parlarne nel merito sia stato Gianfranco Fini, un leader ormai latitante dalla scena politica nazionale, beffando la storia e un po’ se stesso per aver titolato con il suo stesso cognome una pagina di giurisprudenza sull’immigrazione che va rivista in toto.

L’auspicio sarebbe che ogni tipo di percorso di integrazione fosse pensato con metodo e competenza. Che non accadesse, come accade, che gli stranieri in rinnovo di permesso di soggiorno fossero obbligati a vedere ore di film documento sulla vita dei condomini e su una specie di filmetto rosa sul vivere italiano. L’integrazione è tema alto e complesso che forse non possono gestire secondini e commissariati.

L’esigenza di un salto di qualità è ormai un imperativo categorico se vogliamo che tra l’Italia che esiste davvero e quella del diritto non ci sia un guado troppo profondo. Un problema di diritti umani che non fa sconti di pena alla stabilità della pacifica vita democratica dentro il cortile di casa nostra. L’Africa e il Sud del mondo, come era Cartagine per i Romani, sono solo a due passi. Loro lo sapevano.

di Rosa Ana De Santis

Le immagini dei migranti nel lager di Lampedusa, in fila come polli in batteria sotto i getti dell’acqua e dei disinfettanti, diffuse dal Tg2 hanno fatto il giro delle emittenti e del web. Scene che per chi è stato immigrato nei primi anni del secolo o nel dopoguerra non suscitano forse troppo clamore. Odioso che tutto questo accada ancora oggi, quando diritti universali e politiche per l’immigrazione sono, almeno sulla carta,  l’evidenza e le sfide culturali dell’agenda politica europea.

Sabato 21 dicembre, nel CIE di Ponte Galeria di Roma, gli ospiti, in segno di protesta, si sono cuciti la bocca. Sul posto sono giunti immediati i soccorsi del personale sanitario. Otto e tutti giovanissimi i protagonisti di questo rito scioccante. Il Sindaco Marino su Facebook ha espresso solidarietà e vicinanza per le condizioni estreme e indegne in cui i migranti sono costretti a vivere in questi centri di espulsione. Prigioni di fatto per persone che vengono equiparate a criminali da una legge decisamente inadeguata a gestire i flussi migratori.

E’ la cronaca ad argomentare questa tesi e non le fazioni politiche. Inadempienza della filiera legge-polizia e gestione dei CIE inadeguata costringono persone che non hanno commesso reati, ma sono rifugiati o profughi, a vivere anche molti mesi in queste condizioni. Non c’è solo il lager di Lampedusa, ma tutta la situazione dei CIE e dei CARA sul territorio nazionale rappresenta un’emergenza e una mina vagante per il paese. Le responsabilità del governo e dei soldi sprecati è allarmante.

La gestione dei CIE e di tutta l’immigrazione clandestina non è solo una spesa per il governo italiano, ma anche un’occasione di guadagno e una vera e propria forma di business. I volumi dei soldi spesi in queste strutture sono infatti da capogiro: milioni di euro all’anno per - in sostanza - non riuscire a gestire adeguatamente i flussi delle persone, esponendosi persino a denunce e moniti europee per i lager in cui gli stranieri sono trattenuti, come accaduto di recente, dopo i fatti di Lampedusa, da parte dell’Alto Commissariato per i rifugiati.

Le procedure di identificazione sono del tutto inadeguate e i soldi pubblici, spesi non si sa bene come, nei CIE non fanno che alimentare una “non soluzione” del problema, cronicizzandola ogni giorno un po’ di più. Nel 2012, per citare un esempio, sono state trattenute 7.700 persone nei CIE e rimpatriate meno della metà. Tutto questo rapportato al totale, certamente sottostimato, di 326mila immigrati senza documenti secondo la Fondazione Ismu.

Trattandosi di soldi dei contribuenti sarebbe il caso di capire perché si sia preferito investirli quasi tutti nella costruzione di queste galere per stranieri, piuttosto che nel rafforzamento dei soccorsi in mare o nella “burocrazia” addetta allo studio dei casi degli immigranti in arrivo. Da una parte sta il tentativo, complesso, di gestire il fenomeno inarrestabile dell’immigrazione, dall’altra la ricerca di sopportare questa pagina di storia mettendo in campo palliativi e magari qualche occasione fertile di guadagni.

E’ proprio questa seconda opzione che impedisce ancora oggi alle nostre istituzioni di sedersi in Europa con maggiore credibilità. Forse, altro esempio, perché la Germania ha accusato l’Italia di proporre buone uscite da 500 euro per chi proseguisse il viaggio verso altre mete europee. I documenti giornalistici di denuncia e le proteste dovrebbero mettere il Governo alla ricerca veloce di un rimedio.

Si potrebbe partire da un’ispezione palmo a palmo dei centri, da una rendicontazione dei soldi spesi e si dovrebbe ascoltare l’input delle associazioni impegnate sul campo per ripensare la legge e studiare procedure di identificazione e gestione del fenomeno finora disattese, ci sono innumerevoli documenti a riguardo.

L’inefficacia della procedura sembra non scuotere il Palazzo e l’indifferenza e l’avidità fanno sì che criminali e rifugiati sono trattati allo stesso modo. E’ così che muore e sta morendo il sogno dell’integrazione e anche la sicurezza di un paese.


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