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di Carlo Musilli
Lo potremmo chiamare “Porcelet”, in francese, visto che serve a scegliere gli italiani che ci rappresentano a Bruxelles e a Strasburgo. Certo, il nickname “Porcellum” era più efficace, ma stavolta sul banco degli imputati è finita un’altra legge elettorale del nostro Paese, quella per le europee.
Sulla natura suina della norma dovrà esprimersi la Corte Costituzionale, dopo che venerdì scorso il Tribunale di Venezia ha giudicato ammissibile il ricorso presentato da Felice Besostri, avvocato milanese ed ex senatore socialista, lo stesso che aveva impugnato il beneamato “Porcellum”, poi bocciato dalla Consulta.
La legge in questione, di stampo proporzionale, è stata approvata dal Parlamento nel lontano 1979, in occasione del primo voto diretto per l’Europarlamento. Il sospetto d’incostituzionalità, tuttavia, non riguarda l’impianto generale, bensì la modifica introdotta il 20 febbraio 2009 con i voti di Pdl, Pd, Lega, Udc e Idv, che un paio di mesi prima delle scorse europee ha imposto una soglia di sbarramento al 4%.
Le barriere di questo tipo sono una passione tipica dei grandi partiti - non a caso l’Italicum, attualmente in gestazione, prevede tetti ancora più alti - e di solito i limiti imposti alla rappresentatività vengono giustificati con il superiore interesse del Paese, cui va assicurata la massima governabilità.
Nel caso del “Porcelet”, però, la scusa suona un po’ deboluccia, visto che in gioco c’è l’elezione dei parlamentari europei e la governabilità dell’Italia non c’entra più un’acca. Non sarà forse che - a 30 anni dall’adozione della legge - i partiti minori si sono inventati la storia del 4% per spartirsi tutte le poltrone senza la scomoda intrusione delle formazioni più piccole? Alla Consulta l’ardua sentenza.
Intanto, i giudici di Venezia hanno scritto che l’introduzione di una soglia "non appare sostenuta da alcuna motivazione razionale che giustifichi la limitazione della rappresentanza. Il Parlamento europeo, infatti, non ha il compito di eleggere o dare la fiducia ad alcun governo dell’Unione, al quale possa fornire stabilità di indirizzo politico e continuità di azione".
Nemmeno Besostri ha molti dubbi: "E' solo un problema di tempi per la decisione - sostiene -, per questo avrei preferito che il quesito fosse sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Ue. L'esito, invece, è certo, anche per i precedenti del Tribunale Costituzionale Federale tedesco. Le norme costituzionali sul diritto di voto sono uguali nella Costituzione tedesca (articolo 38) e italiana (articolo 48) e la giurisprudenza costituzionale tedesca in materia elettorale è un riferimento anche per la Consulta, che ne ha fatto uso nella sentenza sul Porcellum".Il precedente citato da Besostri risale allo scorso febbraio, quando la Corte di Karlsruhe ha dichiarato incostituzionale uno sbarramento al 3% nella legge elettorale per le europee proprio perché non legato al principio di governabilità del Paese. I cittadini tedeschi, pertanto, voteranno il 25 maggio con un sistema proporzionale puro, dal momento che non esiste alcun motivo per tutelare l'Europarlamento dal cosiddetto "eccesso di rappresentanza".
La soglia di sbarramento, insomma, sarebbe solo una violazione dei principi costituzionali dell’eguaglianza del voto di ciascun cittadino e dell’eguaglianza di opportunità dei partiti. Il discorso è diverso per le elezioni politiche: in quel caso, il sistema della Repubblica federale prevede uno sbarramento al 5% per evitare l'eccessiva frammentazione del Parlamento nazionale.
Se i nostri giudici seguiranno questa interpretazione, "gli italiani saranno più liberi di votare per le liste di gradimento - chiosa Besostri -, senza paura di sprecare il voto". Peccato che ci siamo posti il problema a meno di 20 giorni dalle europee, pur sapendo che la Consulta impiegherà dei mesi a pronunciarsi. E dire che il Tribunale veneziano è stato perfino solerte, essendosi pronunciato per primo dopo che vari ricorsi contro la stessa legge erano stati presentati anche a Roma, Napoli, Milano, Cagliari e Trieste.
La morale della favola è presto detta: con ogni probabilità la Corte Costituzionale italiana boccerà anche il “Porcelet”, ma a quel punto avremo già votato e i parlamentari europei eletti con la legge incostituzionale rimarranno al loro posto, perché le decisioni della Consulta non hanno valore retroattivo. I parti rimasti sotto al 4% ricorreranno al Tribunale amministrativo, ma è improbabile che si arrivi a ricalcolare l'assegnazione dei seggi. In sintesi, si tratta dello stesso, identico meccanismo che ha già salvato il posto agli attuali deputati e senatori della Repubblica. Tale “Porcellum”, tale “Porcelet”.
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di Fabrizio Casari
I cinque minuti di vergognosi applausi del Sap ai suoi affiliati condannati sono la cifra reale di chi ritiene che l’Italia sia una sorta di fattoria degli animali di sapore orwelliano, dove tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri. Quel qualcuno indossa un’uniforme e plaude ai colpevoli della morte di una persona innocente. Sono diversi i casi ormai nei quali l’abuso reiterato di potere si esprime con l’uso incontrollato della violenza su singoli malcapitati fermati dalle cosiddette forze dell’ordine.
Federico Aldrovandi, 18 anni, fermato e pestato fino a morirne da quattro poliziotti a Ferrara la notte del 25 Settembre 2005; Stefano Cucchi, 31 anni, letteralmente ammazzato di botte durante il fermo il 22 Ottobre del 2009; Giuseppe Uva, 43 anni, muore dopo una notte in caserma a Varese il 14 Giugno 2008; Michele Ferrulli, 51 anni, morto per arresto cardiaco mentre quattro poliziotti lo stanno arrestando a Milano; Riccardo Magherini, 40 anni, morto a Firenze mentre i carabinieri lo stanno arrestando, sono solo alcuni, i più eclatanti e recenti casi di morti sotto le mani di agenti che avevano il totale controllo dei rispettivi arrestati.
Non è più un caso isolato ormai: troppo spesso accade che i fermati da inermi si trasformano in inerti. A questo già insopportabile elenco potrebbero poi aggiungersi altri nomi, luoghi e nazionalità, per non parlare di persone pestate a sangue che sono però in qualche modo sopravvissute all’incubo.
E ancora, si può elaborare una lunghissima lista di morti e feriti in operazioni di piazza, quasi sempre destinatari di un livello di violenza completamente inutile ai fini dell’allontanamento dei manifestanti ed al ripristino del controllo di strade e piazze e alla loro agibilità, che dovrebbe essere la funzione primaria delle forze di polizia impegnate nel servizio d’ordine pubblico. Da anni non c'è corteo che non veda protagonisti agenti maneschi, armati di odio e impunità, scagliarsi con inaudita violenza contro chi non può reagire.
Quei cinque minuti d’infamia durante il congresso del Sap, dimostrano però che l’annosa lamentela sulle difficilissime condizioni in cui operano (ma quali sarebbero mai?) che porterebbe ad eccessi incontrollati i tutori dell’ordine pubblico, regge poco. In quella riunione sindacale non c’era nessun pericoloso nemico a fronteggiare “gli eroi”. L’applauso liberatorio e solidale verso i colleghi accusati di omicidio ribadiva invece, oltre al fastidio per la madre di Aldrovandi, un sentiment fascistoide dello spirito di corpo, che quando viene messo in violazione delle leggi, sia chiaro, diventa spirito di casta.
Della protezione della comunità, della tutela dei cittadini a quei convenuti plaudenti non interessa affatto: interessa invece ribadire che nessuno può giudicarli, che le loro azioni e i loro eccessi debbono godere di impunità e le ridicole dichiarazioni a discolpa assumano valore d’intangibilità. Pagati da tutti noi, si "sentono" contro di noi.
Nessuno si sarebbe adombrato se il Sap avesse voluto offrire sostegno alla vicenda giudiziaria degli agenti coinvolti nell’uccisione di Federico Aldrovandi: certo non sarebbe stato possibile applaudire all’iniziativa, ma sarebbe rimasta nella cornice dello scontro processuale e della tutela del sindacato nei confronti dei propri iscritti. Invece no.
L’applauso è stato diretto non a presunti agenti innocenti, ma ad agenti colpevoli, così come dichiarato da una sentenza del tribunale. Colpevoli di aver ucciso un ragazzo innocente che dunque, a detta del Sap, sarebbe morto per pura casualità mentre veniva fermato.
Con l’eccezione di Giovanardi, che è il lato macchiettistico della politica, la dimostrazione di come questa sia ormai da tempo relegata nei bassifondi dell’intelletto, il resto del sistema politico ha in qualche modo espresso il suo sdegno per quei cinque minuti che gettano vergogna sull’insieme delle forze dell’ordine. Dal Presidente Napolitano al Ministro dell’Interno Alfano, fino al Capo della Polizia Pansa, non si può negare che le affermazioni di condanna verso i plaudenti si siano manifestate ampiamente.
Ma la questione, qui ed ora, non è quanto possa essere netta bensì concreta la condanna. Indicare cioè cosa fare per invertire il cammino dell’immunità di fatto. E allora bisognerebbe avere il coraggio di dire alcune cose in maniera chiara, la prima delle quali è che la democratizzazione della polizia è stato un percorso compiuto a metà e rapidamente abbandonato nel ventennio delle destre che hanno guidato governi e scritto leggi votate a ristabilire l’accanimento contro la devianza sociale e l'ultragarantismo verso i potenti. Sì è rafforzato l’impianto giustificazionista e perdonista verso gli abusi del potere, mentre si è alzata a livelli cileni la durezza delle sanzioni per chi manifesta idee e comportamenti giudicati “antagonisti”.
In questo quadro ideologico, che ha riproposto in buona sostanza una concezione di classe della giustizia, sono cresciute due leve di agenti e carabinieri. Ed è impossibile non notare come l’accanimento violento di alcuni agenti di pubblica sicurezza nei confronti dei fermati, dei manifestanti, di qualunque cittadino essi ritengano vada controllato, indica che il sottofondo “culturale” nel quale vengono educati preveda considerare chi l’uniforme non l’indossa, come altro da loro, come un potenziale pericolo, un possibile nemico.
Dunque i responsabili degli abusi non sono solo gli agenti che li compiono, ma anche chi ha indicato un’area d’impunibilità per loro, chi li ha istruiti alle maniere spicce nei confronti di chi si trovano di fronte, chi ha spiegato loro che l’autorità non può essere discussa e che il solo manifestare sia già in qualche modo un atto d’insubordinazione sociale che va represso.
Per cambiare questo stato di cose serve una formazione qualificata dal punto di vista culturale e non solo tecnica e vanno stabilite norme molto più stringenti e severe nei confronti di chi, ignorando i doveri che comporta l’indossare una divisa, possa dar luogo ad abusi coperti dal diritto de facto ad esercitarli.
Nessuno può morire o venire pestato quando si trova nelle mani delle forze dell’ordine. La condizione di fermato non può diventare quella di ostaggio. Servono sanzioni amministrative e penali, servono provvedimenti chiari che indichino la violazione dei compiti di tutela dei cittadini come elemento d’incompatibilità con la divisa.
Non esiste autorità che non abusi senza la minaccia delle leggi che li sanzionano. Per fortuna i poliziotti che svolgono degnamente il loro lavoro sono la grande maggioranza. Se il convincimento di svolgere il proprio lavoro con passione e professionalità è il merito degli agenti migliori, sarà il timore di essere giudicati con almeno pari severità di ogni altro cittadino a fermare le ansie bellicose dei bulli in uniforme.
Di fronte alla violazione delle leggi e agli abusi di potere l’uniforme non può essere un’attenuante, semmai un aggravante. Se non altro per uscire da un paradosso di un Paese in gran parte in mano alla criminalità, nel quale però gli abusi delle forze dell'ordine sono contro gli innocenti.
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di Rosa Ana De Santis
Il Ministro Alfano, chiede il vice presidente del Senato, Maurizio Gasparri, e il presidente del Gruppo Forza Italia a Palazzo Madama, Paolo Romani, deve riferire sulla missione “Mare Nostrum”. Per molti un conto aperto, insostenibile e un taxi low cost per gli immigrati. Dal 18 ottobre 2013 - quando l’operazione è partita - ad oggi, sono stati salvati oltre 20 mila migranti.
Forze Armate e di Polizia insieme per attività di controllo militare, ma soprattutto per azioni umanitarie. Costi altissimi: dai sei ai nove milioni di euro se non di più.
Mentre da Lega e alcuni di Forza Italia arriva il monito a sospendere quella che si sarebbe rivelata un’attrazione facile per i clandestini quindi, altri, come l’On. Carfagna, ne difendono il valore e l’utilità.
L’operazione non è una ricetta, né tantomeno un costo trascurabile per il nostro governo, ma la questione sospesa sulla richiesta di diritto d’asilo e l’ecatombe ripetuta dei morti in mare non permettono al momento altre strade: i naufraghi vanno salvati e la Corte Europea ha già ampiamente condannato l’Italia per certe condotte sui respingimenti nonché su detenzione nei centri di espulsione e le orride condizioni cui tutti gli immigrati sono sottoposti senza preventive procedure di analisi dei loro casi e delle loro domande di asilo.
Ad oggi il bilancio dell’operazione grava sui conti della Difesa. Magari la commessa dimezzata (ma sarà così?) degli F35 potrà portare a spostare risorse su questo fronte di nobile e prioritario impegno per salvare vite umane in fuga.
Un dato è certo: l’Europa condanna, ma non c’è alcuna sinergia concreta di azione né di spesa con l’Italia che per sua collocazione geografica diventa il primo approdo dei disperati verso l’Occidente, ma non può diventare l’unico soggetto geopolitico ad affrontare un dramma umanitario che per numeri e imponenza supera la capacità di accoglienza dentro i confini nazionali. Una stima per difetto del governo parla di seicentomila ingressi. Persone e storie che spesso vanno altrove, spesso vengono accompagnate alla frontiera, spesso rimangono invischiate nelle carte infinite della burocrazia.“Mare Nostrum” è nata in ogni caso per tamponare un’emergenza umanitaria e non come politica per l’immigrazione. Questo sfugge ai suoi detrattori schierati. Altrettanto è vero però che, se pur non fallimentare nei suoi propositi, la missione rischia di collassare per deficit economico e perché tutta la procedura post-sbarco arranca per limiti di risorse, per organizzazione e per i limiti intrinsechi ad una legge che ha criminalizzato la clandestinità.
Mare Nostrum porta soprattutto alla luce la debolezza dell’Italia nel consesso europeo. Non aver convinto che il dramma nelle acque di Lampedusa è stato ed è un dramma umanitario, un affronto per tutto il Vecchio Continente, è una sconfitta politica e non solo culturale.
C’è chi rievoca gli accordi bilaterali e chi pensando ai pasticci libici di Berlusconi con Gheddafi, cerca disperatamente migliori esempi per l’agenda di lavoro di Matteo Renzi e dei suoi Ministri. Nella moda del giovanilismo politico non c’è tema, più di questo dei migranti, che obblighi proprio le nuove generazioni a misurarcisi con coraggio e senso di sfida.
Le premesse “culturali” sulla cittadinanza per ius soli, con cui Renzi ha iniziato il suo impegno di governo, fanno ben sperare. Poco di peggio potrà accadere dei resti di povertà e di memoria: foto, ciabatte, stoffe lise senza nome che la risacca spinge sulle coste più belle e ricercate del turismo italiano.
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di Rosa Ana De Santis
Dalla morte di Eluana sono passati cinque anni e la legge sul “fine vita” è rimasta impantanata in Parlamento. Al Campidoglio invece si fanno passi avanti sul riconoscimento dei diritti civili e sul principio di autodeterminazione. Tutto nasce dalla delibera di iniziativa popolare presentata da Mina Welby e sottoscritta da 8mila cittadini, riproposta all’attenzione dal consigliere capitolino, Riccardo Magi, della Lista Civica Marino.
Magi ha portato la commissione capitolina “Legalità e diritti” ad esprimersi sulla calendarizzazione della stessa e sulla nascita quindi di un registro delle dichiarazioni DAT (anticipate di trattamento, ovvero alimentazione e idratazione forzata).
In passato la Giunta Alemanno aveva tentato di respingere il quesito referendario promosso dai Radicali incassando il rifiuto della commissione capitolina. Si riprende quindi lo stesso filo di ragionamento politico.
Il registro è la raccolta dei testamenti biologici dei cittadini, come già presente in altri 150 Comuni Italiani. Il servizio per ora è di autenticazione e certificazione e sostituirebbe l’oneroso analogo che potrebbe esser depositato da un notaio. L’iter per approvare questo registro è partito ed è evidente che questa sorta di cassaforte delle volontà sortirebbe un effetto di lobbing sociale e di pressione politica molto forte e di sicuro impatto.
Soprattutto perché Roma, sotto tanti punti di vista, non è città come altre. La Giunta si è espressa già favorevolmente, in perfetta coerenza con lo spirito liberal del primo cittadino romano e si tratta ora di accelerare i tempi di discussione nel Consiglio. Non è sicuro che la proposta otterrà la maggioranza, ma votarla è fondamentale per rispetto degli 8mila proponenti e dei 40mila firmatari dei quesiti referendari.
Qualcosa di analogo è accaduto in diversi Comuni anche per le coppie di fatto, con l’istituzione di registri per le unioni civili. Accade a Milano ad esempio in cui questa registrazione va proprio nel segno di impedire discriminazione nell’accesso a servizi sociali di vario tipo e anche di assimilare per eguaglianza giuridica le coppie etero a quelle omosessuali. Analogamente si stanno muovendo i Municipi di Roma, a partire dal III.Stabilire la competenza delle istituzioni locali su materie cosi delicate di ordine bioetico non fa la legge, ma significa riconoscere che certi diritti civili sono avvertiti come importanti dalla popolazione che ad oggi, per indolenza e viltà delle Istituzioni centrali, si trova priva di una chiara normativa di riferimento in materia.
E apre il varco alla giurisprudenza e ai tribunali, accusati spesso di sostituirsi alla politica senza che nessuno evidenzi che è la politica ad arretrare per viltà e obbedienze ai poteri forti da questi campi minati di valori.
L’iniziativa delle istituzioni locali risponde invece ad un’esigenza reale e conferma l’attesa di un’evoluzione in materia di diritti a livello centrale. Saranno forse proprio i Comuni ad esercitare la pressione di un’opinione pubblica rimasta a piedi per incapacità di coniugare la politica con la giurisprudenza dei diritti civili.
Quella che troppo spesso è stata strumentalmente fermata con la scusa della prudenza, ma la cui unica reale ambizione era ed è quella di blindare per legge l’etica cattolica. Facendo pagare a noi tutti pagando il dazio non scritto dei Patti Lateranensi.
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di Maura Cossutta
La sentenza della Corte Costituzionale ha cancellato il divieto di eterologa previsto dalla legge 40 del 2004. Questa sentenza ha valore di legge e non è oppugnabile. Da oggi cioè non potrà mai più essere votata dal Parlamento una legge che prevede il divieto di fecondazione di tipo eterologa. Un colpo durissimo, definitivo, ad una legge sbagliata, crudele, ideologica, la prima legge confessionale della storia della Repubblica.
Legge contro la quale per ben 30 volte già si erano espresse altre sentenze di Tribunali civili e amministrativi regionali oltre che la Corte Costituzionale, dichiarando illegittimi il divieto di produrre più di 3 embrioni e quello della diagnosi pre impianto. Pezzo dopo pezzo è crollato tutto l’impianto ideologico della legge, fino al colpo finale, questo sull’eterologa.
La Corte ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3, 9, commi 1 e 3 e 12, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, relativi al divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita». Di cosa si parla? Soprattutto di chi?
In sostanza è anticostituzionale la parte della legge in cui si vieta di ricorrere alla donazione di gameti (ovociti o spermatozoi) esterni alla coppia per concepire un figlio. Sull’eterologa la discussione in Parlamento e fuori dal Parlamento è stata fortissima: si sono evocati scenari apocalittici, si è dato vita ad una comunicazione da terrore antropologico, prevedendo un blad runner di casi limite, come quelli di mamme/nonne che hanno guadagnato le prime pagine dei quotidiani. Invece, delle storie quotidiane di migliaia di persone normali nessuno parlava.
Eppure sono tante, tantissime le donne e gli uomini che si ritrovano sterili dopo un percorso di malattia, o dopo una chemioterapia,o dopo l’asportazione delle ovaie, o perché portatori di patologie potenzialmente trasmissibili di tipo infettivo o genetico, o perché ancora troppo giovani con una menopausa precoce.
Sono tutte persone con seri problemi di salute, che fino ad oggi non hanno potuto utilizzare la legge 40 per diventare genitori perché la procreazione assistita omologa per loro era inutile, in quanto i loro gameti non erano utilizzabili. L’unica possibilità fino ad oggi è stata quella di emigrare, cercare all’estero centri in cui si praticasse la fecondazione eterologa.
E infatti sono state più di 4 mila le coppie che ogni anno si sono rivolte a centri esteri, per lo più in Spagna (dove il 63% di trattamenti per fecondazione di gameti è rivolto a coppie italiane) e nei Paesi dell’Est, ma anche a Lugano e in Belgio, pagando un costo variabile tra gli 8 mila euro della Spagna, i 3- 5 mila del Belgio, ai 2 mila euro dei Paesi dell’Est, con l’Ucraina in testa. Divieti quindi, quelli della legge 40, tanto crudeli quanto inefficaci perché non hanno potuto certo impedire i “viaggi della speranza”. Divieti assurdi, miopi, perché non hanno voluto e saputo prevedere la conseguenza più pericolosa, quella dell’assenza di controlli sull’insorgenza di eventuali infezioni nei genitori e nel neonato, che non vengono seguiti dal nostro Servizio sanitario nazionale, fino all’assenza di dati genetici del bambino nato con le tecniche.
Divieti ipocriti, perché dietro la rassicurazione di un divieto dentro i nostri confini, si chiudevano gli occhi di fronte al diffondersi ovunque del mercato di gameti. Oggi infatti in tutta Europa e in America non si contano più i siti che pubblicizzano centri per l’acquisto di un seme o di un ovocita, tutto senza controllo.
La decisione della Corte ristabilisce quindi il principio di equità, fra coppie sterili e infertili e il principio della tutela della salute, garantendo un sistema di controlli. L’eterologa sarà possibile, sono mantenute le tutele per i nati dalla tecnica eterologa (cioè il divieto di disconoscimento di paternità), la tecnica sarà gratuita, cioè non bisognerà pagare alcun donatore.
Dopo la sentenza della Corte non serve modificare la legge. Oggi spetta piuttosto al Ministero della Salute, insieme alle società scientifiche e con il supporto delle associazioni di cittadini e pazienti, predisporre un Regolamento e delle Linee Guida per definire il sistema appropriato per la donazione dei gameti. Per esempio - è questa la proposta che più merita attenzione - si potrebbe adottare il modello inglese con l’impiego gratuito dei gameti extranumerari, quelli prodotti con le tecniche omologhe e non utilizzati.
A 10 anni di distanza dalla legge, non serve quindi modificare la legge, quanto piuttosto attuare tutto quello che ancora non è stato attuato. Cosa? Innanzitutto occorre per esempio inserire la procreazione medicalmente assistita tra i Livelli Essenziali di Assistenza (nazionali e non solo in alcune regioni) e includere le tecniche (FIVET e altro) in precise tariffe, prevedendo quindi una tariffa unica nazionale con il relativo ticket, correggere il sistema della mobilità sanitaria tra le varie regioni.Senza questo, oggi le coppie del sud non andranno magari all’estero, ma saranno comunque costrette ad emigrare al nord per accedere alle tecniche; la prescrizione dei farmaci per l’infertilità non potrà essere garantita a carico del Servizio sanitario nazionale; nelle regioni continuerà il “regno del fai da te”; i centri pubblici saranno sempre più soffocati dall’offerta del privato; cresceranno i costi inappropriati per la sanità pubblica.
A 10 anni di distanza dalla legge, per difendere il diritto di tutte le coppie a poter diventare genitori, è giusto quindi ripartire da qui: da questa sentenza e dalle cose ancora da fare, per garantire che la procreazione assistita possa continuare a essere un ambito della sanità pubblica.
Infine, un’ultima considerazione: questa sentenza è stata possibile solo perché alcune coppie hanno scelto di portare nei Tribunali le loro storie, perché hanno creduto nella Costituzione, utentico faro per i diritti individuali e collettivi, perché non si sono arrese. Nella storia della legge 40, invece, troppo poco si sono ascoltate queste storie: o parlavano i medici o parlavano i preti.
Uno scontro che andava oltre i soggetti, che restavano muti. Oggi hanno vinto innanzitutto loro, ma con loro abbiamo vinto tutti. Impariamo quindi da loro: una lezione per ognuno di noi, di soggettività politica, di impegno civile, di pratica di cittadinanza, di testimonianza dei valori costituzionali.