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di Antonio Rei
Parla di soldi alle scuole, tira in ballo i governi precedenti, ma stavolta Matteo Renzi deve trovare il modo d’ingoiare una pubblica bocciatura. E’ vero, l’incapacità di spendere i fondi strutturali europei è una malattia che l’Italia ha da sempre, eppure nel mirino della Commissione Ue c’è proprio il governo dell’ex sindaco di Firenze. Lo rivela una lettera spedita da Bruxelles a Roma un mese fa e i cui contenuti sono stati resi noti ieri dal quotidiano La Repubblica.
In particolare, i tecnici europei si scagliano contro l’Accordo di partenariato del nostro Paese, ovvero il documento curato dal sottosegretario Graziano Delrio e spedito a Bruxelles il 22 aprile per illustrare come saranno utilizzati gli oltre 41 miliardi di fondi europei che l’Italia riceverà fra quest’anno e il 2020 (32 per la politica di coesione più 10 legati al Fondo agricolo: la somma più alta dopo quella destinata alla Polonia).
Le critiche della Commissione non risparmiano quasi nulla: dall’assenza di una “vera strategia” su Agenda digitale, innovazione, infrastrutture e difesa del patrimonio culturale, alle poche risorse impiegate per combattere l’abbandono scolastico, passando per le varie mancanze in materia di “gestione delle acque, trasporti e politiche del lavoro”. In termini generali, Bruxelles parla di “identificazione ancora insufficiente degli interventi strutturali necessari per riguadagnare competitività” e soprattutto di scarsa “capacità amministrativa”. Insomma, se neanche in questo caso si può scrivere la parola “bocciatura”, tanto vale cancellarla dai dizionari.
Fin qui si è parlato del 2014-2020. Non più tardi di due giorni fa, tuttavia, l’Eurispes aveva pubblicato uno studio sull’impiego delle risorse europee per il periodo 2007-2013, da cui è emerso fin qui sono stati spesi meno della metà dei soldi a disposizione: appena 13,5 miliardi dei 27,91 assegnati all’Italia. Se il nostro Paese non troverà il modo di usare entro il 2015 la quota restante dei fondi, Bruxelles se li riprenderà, e noi diremo addio a 14,39 miliardi, una somma pari all'1% del Pil 2013. Fra i 28 Paesi dell’Unione, hanno fatto peggio di noi nell’impiego delle risorse soltanto la Croazia (che però non ha avuto il tempo materiale di spendere, essendo stata ammessa nell’Ue solo l’anno scorso) e la Lituania.
“Da palazzo Chigi si è cominciato a togliere fondi europei alle Regioni che non li spendono e a metterli sulle scuole”, ha annunciato ieri Renzi, sottolineando che fino a oggi l'Italia “ha speso i fondi strutturali peggio di come avrebbe potuto” e per questa ragione “il governo cercherà di cambiare il modello d'impiego di queste risorse”. Poi, la solita chiosa arrogante: “Mi fa piacere che vi siate accorti che c'è un problema sui fondi strutturali”.Speriamo se ne sia accorto anche Delrio, visto che deve riscrivere daccapo il compito assegnato dall’Ue. “I 40 miliardi di Fondi Ue dell'Accordo di partenariato ancora da stipulare rappresentano oggi semmai l'opportunità di spenderli tutti fino all'ultimo centesimo e non il rischio di perderli - ha detto il sottosegretario -. Le osservazioni non hanno messo in discussione l'impianto della proposta di Accordo italiana, che anzi la Commissione ci ha invitato a rispettare ma suggerendo, in un dialogo costante con il Governo italiano, affinamenti e precisazioni, molto spesso completamente condivisibili”.
Dopo aver minimizzato la bacchettata ricevuta, Delrio passa alle rassicurazioni: “Sulla base dell'intenso lavoro svolto in queste settimane posso affermare che siamo ormai prossimi alla chiusura del testo definitivo dell'Accordo di Partenariato a settembre, nel rispetto della tabella di marcia che ci eravamo dati”.
Anche l’Ue cerca di abbassare i toni: “L'accordo di partenariato previsto nell'ambito della Politica di coesione per l'Italia nel periodo 2014-2020 non è stato né respinto né congelato - ha scritto la rappresentanza in Italia della Commissione -, ma è oggetto di continuo e produttivo processo di negoziato tra i servizi della Commissione e il governo italiano, come previsto dalle regole vigenti. Grazie agli sforzi delle autorità italiane, la discussione sul documento sta procedendo bene verso una adozione nelle prossime settimane”. Dopo di che si tratterà di spendere. La parte difficile, a quanto pare.
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di Antonio Rei
Mario Draghi invita all’eutanasia, Matteo Renzi risponde piccato. In un’intervista pubblicata ieri dal Financial Times, il Premier italiano (e presidente di turno dell’Ue) fa la voce grossa contro il numero uno della Banca centrale europea: “Sono d’accordo quando dice che l’Italia ha bisogno di fare le riforme, ma come le faremo lo deciderò io: non la Troika, non la Bce, non la Commissione Europea. Farò io stesso le riforme, perché l’Italia non ha bisogno di altri che le spieghino cosa fare”.
Salta subito agli occhi quel pronome personale di prima persona ripetuto due volte in due frasi, come se il Parlamento fosse un inutile orpello e il potere legislativo fosse affidato ormai nemmeno al Governo, ma all’unico uomo forte della compagine, Matteo il Grande. Se si va oltre il consueto egocentrismo renziano, tuttavia, la traccia sotterranea conduce a uno scontro fra poteri ben più grandi di Palazzo Chigi.
La sparata del Premier è una replica alle parole pronunciate da Draghi la settimana scorsa al termine dell’ultimo Consiglio direttivo della Bce. Secondo il numero uno dell’Eurotower, “è arrivato il momento che i Paesi dell’Eurozona cedano sovranità all'Europa per quanto riguarda le riforme strutturali” e l’Italia è la dimostrazione di come “l’incertezza generale che circonda le riforme economiche” aggravi “la debolezza degli investimenti privati”. Come a dire: fatevi da parte e lasciate che Bruxelles governi al posto vostro.
Si tratta di una posizione diametralmente opposta a quella degli Stati Uniti. In un’intervista pubblicata il 6 agosto su La Stampa, il segretario di Stato Usa John Kerry si è schierato apertamente dalla parte dell’Italia, promuovendo in toto la linea economica portata avanti da Renzi in Europa.
Da una parte, quindi, gli eurocrati vorrebbero sostituirsi tout-court alla politica italiana; dall’altra, gli statunitensi non solo sostengono l’indipendenza di Roma, ma vorrebbero addirittura che il nostro Paese godesse di maggiore autorevolezza dalle parti di Bruxelles. Una dicotomia che risponde a progetti e interessi divergenti.
I rapporti fra Renzi e gli Usa sono notoriamente stretti e in Europa tutti sanno che quando apre bocca l’ex sindaco fiorentino è come ascoltare un portavoce di Washington, malgrado il suo rapporto cruento con la lingua inglese. In qualche modo lo ha ammesso anche il diretto interessato, quando, in passato, si è paragonato a Tony Blair, che degli americani è stato uno zelante servitore. Gli Stati Uniti hanno voluto Renzi a Palazzo Chigi e ora auspicano che lì rimanga il più a lungo possibile. Dal punto di vista americano, Renzi è un pedina da usare in funzione anti-Merkel, per contrastare la rigidità dell’Europa a trazione tedesca che sta soffocando un mercato cruciale per gli Usa. Ma purtroppo per Kerry & Co. gli anni Novanta sono finiti: Renzi non è Blair e il suo nanismo politico non riuscirà mai a scalfire la cortina del Fiscal Compact.
La favola della flessibilità è uno specchietto per le allodole e non comporterà in nessun caso una reale svolta della politica economica europea nel segno della crescita. Al contrario, il Pil è e resterà ben lungi dal ripartire. Tutte le stime ottimistiche dei mesi scorsi sono andate in fumo: nel secondo trimestre il prodotto interno lordo del nostro Paese ha registrato un -0,2% che lo ha riportato ufficialmente in recessione e ad oggi non c’è alcun motivo per sperare in una vera ripresa nel 2015, considerando che in sette mesi l’unico provvedimento economico varato dal Governo è stato il bonus Irpef da 80 euro.
Secondo il Presidente del Consiglio “l’Italia ha un grande futuro”, ma oggi sembra assai più verosimile che l’inconsistenza di chi ci governa favorisca la realizzazione del progetto cui vagamente accennava Draghi. La meta finale è l’euro-commissariamento della periferia dell’area valutaria, dove Paesi di alta rilevanza economica - in primis Italia e Spagna - non hanno alcuno strumento politico per opporsi alla colonizzazione della Troika. La lobby di tecnocrati e rappresentanti di gruppi bancari e finanziari che guida le istituzioni comunitarie intende appropriarsi della sovranità esercitata dai singoli Paesi sul proprio destino.
Insomma, Renzi vuole trasformare il Senato in una scatola vuota per rimuovere ex lege un ostacolo al suo potere, eliminando a monte ogni concertazione e possibile dissenso e Bruxelles e Francoforte vogliono fare la stessa cosa con lui.
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di Fabrizio Casari
Il combinato disposto di riforma del Senato e legge elettorale in discussione è una porcata peggiore del Porcellum di Calderoli, che non a caso vi aderisce con entusiasmo. Suggella il patto di potere tra l’ambizioso Presidente del Consiglio e l’ormai ex Cavaliere. Che un patto destinato ad introdurre uno stravolgimento in negativo della Carta Costituzionale firmata dai giganti del nostro Paese possa essere introdotto da due guitti di successo con un ex comico alla finestra dipinge bene lo stato catatonico del Paese.
Che a riformare il Senato sia un parlamento eletto con una legge incostituzionale ed un partito il cui boss è stato espulso proprio dal Senato, rappresenta invece perfettamente il lato paradossale di questa penosa commedia italiana. Che un premier eletto da un complotto di corte e un pregiudicato siglino l’intesa segretamente raggiunta, è parte dello stesso paradosso.
Le affinità elettive tra i due sono piuttosto evidenti, e un certo cesarismo figlio di ego ipertrofico e interessi inconfessabili li rende abbastanza sovrapponibili. Li accomuna il fastidio per la Costituzione e per le norme che Berlusconi definiva “lacciuoli” e Renzi definisce “vecchiume”. E se allo psiconano nemmeno 100 parlamentari di maggioranza furono sufficienti per legiferare altro se non per i suoi immediati e diretti interessi aziendali e giudiziari, anche al governicchio attuale riesce tremendamente complicato sopportare una benchè minima opposizione. Il metodo è più o meno lo stesso, al netto dell’eleganza: se Berlusconi comprava qualche IDV, Renzi arruola qualche pezzo di ex-SEL.
Ma le simmetrie non si esauriscono qui. Così come fu per il patto tra Berlusconi e Bossi, non sono mai stati resi pubblici i contenuti del patto del Nazareno e tuttavia il Premier ha la faccia tosta di chiedere più trasparenza, ai Cinque stelle. C’è poi un’anomalia rappresentata dalla contraddizione per la quale il governo e le riforme dispongono di due maggioranze diverse. Il senso del progetto è questo: il governo serve solo ad imporre le riforme subito; queste, una volta completate, permetteranno di far eleggere il governo che si vuole.
Se tutti noi avessimo avuto la precisa sensazione di una eccessiva ingerenza dei partiti nella cosa pubblica, ci pensa Renzi a mandarci in overdose. Il suo disegno autoritario di riforme istituzionali racconta molto della natura e dell’ampiezza delle sue ambizioni. L’idea di come debba essere eletto e composto il Senato ha dell’incredibile. Mentre il paese tutto, sostenuto peraltro dalla sentenza della Consulta, chiede di poter reintrodurre le preferenze nella legge elettorale per ridare un aspetto anche solo formale e parziale all’utilità di recarsi alla cabina elettorale, Renzi propone un Senato formato da sindaci e consiglieri regionali scelti dai partiti.
Che quindi avranno doppio incarico (e immunità) e daranno ai partiti la possibilità di scegliere chi nominare senatore senza nemmeno togliersi il disturbo di chiedere il voto popolare. Tra i compiti dei nuovi senatori c’è quello, primario, di non disturbare il governo, giacché la legge di bilancio (cioè la legge fondamentale dello Stato) non sarà materia sulla quale potranno esprimersi.Questo Senato, destinato a diventare il maggior ente inutile del sistema pubblico, verrà insediato senza un voto popolare ma scelto dal censo imperante, cioè la casta partitocratica venduta a quella finanziaria. Se si vogliono cercare parallelismi internazionali, è bene ricordare un esempio su tutti: nel 1913, gli Stati Uniti decisero che i senatori - fino ad allora eletti dalle assemblee degli stati - dovessero essere eletti direttamente dai cittadini, proprio per rafforzare la democrazia rappresentativa.
Certo che è possibile superare il “bicameralismo perfetto”, basterebbe dare al Senato le competenze oggi contraddittorie ed indefinite assegnate alle Regioni dai Decreti Bassanini, autentico tsunami di idiozia istituzionale. La riforma che proponeva alla fine degli anni ‘70 il PCI, che prevedeva la trasformazione del Senato in “Camera delle Regioni” e la riduzione a poco più di 400 membri della Camera, sarebbe ancora il passepartout ideale per un disegno armonioso e funzionale del Bicameralismo. La riforma del Titolo V della Carta resta invece impantanata nell’applicazione del dettato del Piano di Rinascita Democratica redatta da un toscano ancor più famoso di Renzi.
L’aspetto della riforma elettorale non è meno grave di quella del Senato e la dice lunga sulle ambizioni inconfessate ed inconfessabili del Presidente del Consiglio. L’antico obbligo costituzionale, che vedeva la formazione del governo come risultato di una maggioranza elettorale, verrà superato con l’introduzione di una legge elettorale che permetterà di insediare un governo frutto della minoranza più grande, non della maggioranza. L’assegnazione del premio di maggioranza a chi raggiunga la quota del 37% dei voti, infatti, rappresenterebbe il coefficiente internazionalmente più basso tra quelli conosciuti, a fronte però di uno sbarramento elettorale tra i più alti al mondo.
I due dati non possono essere letti separatamente: si regalano decine di seggi a chi non li ha avuti dalle urne, mentre la soglia di sbarramento consente solo a tre partiti (dei quali uno, M5S, con un futuro tutto da verificare) l’accesso alla Camera, negando così la possibilità di essere rappresentati a milioni di elettori che non si riconoscono nei tre aggregati maggiori. Se il Porcellum di Calderoli negava agli elettori il diritto all’indicazione delle preferenze, l’Italicum di Renzi gli nega addirittura il diritto di voto.
Il mancato diritto di scelta voluto dal PDL diventa il mancato esercizio del diritto di voto voluto dal PD. Dovremmo avere un’assemblea che legifera per i cittadini senza che questi ultimi possano votarne i componenti. E poco importa che la Corte Costituzionale prima o poi boccerà la legge, il ganzo di Pontassieve ha fretta, chi l’ha insediato passerà a riscuotere a breve e non c’è tempo da perdere.
Questo prevede in sostanza la legge elettorale progettata da Renzi: a chi non ha si regala, a chi potrebbe avere si nega. La relazione tra rappresentanti e rappresentati, principio cardine della democrazia, diviene un orpello da sacrificare sull’altare della velocità e dell’ansia mediatica dell’ex sindaco di Firenze.Forse il dato più penoso riguarda proprio il PD e il suo incedere intruppato sotto gli stivali del suo capo: erede in qualche modo di un partito sempre impegnato nell’ampliamento della democrazia, nell’inarrestabile declino di cultura politica che lo caratterizza è diventato il motore principale dell’involuzione antidemocratica del Paese. E non è certo un caso se, parallelamente, insieme alla lotta per la democrazia del PCI ha perduto anche la rettitudine sulla questione morale.
Difficile separare le due convinzioni, frutto in effetti dello stesso sistema valoriale prematuramente scomparso: ed è per questo che si assiste alla sua crisi etica, con la definitiva entrata nell’alveo dei partiti motori della corruzione nazionale, ricalcando in ciò le orme familiari ad una parte della sua comunità, la stessa cui appartiene, peraltro, il suo ducetto.
E comunque, ancor più evidente risulta l’assoluta incongruenza con i problemi del Paese, ai quali Renzi ritiene evidentemente di aver messo mano con gli 80 euro per alcuni, a fronte dell’aumento generalizzato delle imposte locali. Mentre Renzi vive nella ricerca quotidiana di una battuta da titolo e di una foto che lo immortali, il Paese arranca come non mai.
Le previsioni di crescita che il Ministero dell’Economia diffonde vengono smentite al ribasso a stretto giro da organismi sia internazionali sia italiani. Intanto, la disoccupazione è giunta a livelli insopportabili per la tenuta del tessuto sociale, la stessa Inps invoca l’abbattimento rapido della legge Fornero, la crisi delle aziende si acuisce ogni giorno di più, la pressione fiscale continua a crescere oltre ogni ragionevole livello. Ma il Presidente del Consiglio è concentrato solo sulla riforma del Senato.
Anche le pietre sanno che dovremo aspettarci un autunno durissimo, che vivremo sotto l’attacco dei fondi speculativi e nell’indifferenza della BCE. Così come tutti sanno che non avremo sconti sul riordino dei conti pubblici sia perché Berlino non cede, sia perché i paesi del Nord Europa non vogliono nemmeno sentir parlare di allentamento del rigore finanziario, sia perché i paesi del Sud Europa, ai quali è stata imposta la tragedia sociale attraverso l’invasione della “troika”, non accetterebbero un diverso percorso per l’Italia.
Al momento gli avanzi di sacrestia al governo indicano nell’abolizione definitiva dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il prossimo impegno per modernizzare. Anche qui, le somiglianze con l’operato del cavaliere nero sono evidenti.
La grande stampa evita di porre alcune, decisive domande al Presidente del Consiglio, riaffermando con ciò come la sua funzione di cane da guardia del potere sia solo un lontano ricordo e spiegando, più di mille assemblee sindacali, il perché della sua crisi irreversibile. Celebra i presunti fasti del renzismo a colpi di titoli e foto e ripropone una categoria come sempre arruolata dai poteri forti, fatta da giornalisti che in realtà sono funzionari politici liberi di scrivere quello che la libertà editoriale gli ordina.
Il Premier, dal canto suo, sa che non serve a molto governare, basta dare la sensazione di farlo. E’ importante far vedere che tutto cambia per occultare il come cambia. E’ vero, cambia verso. Si va nel verso sbagliato.
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di Fabrizio Casari
La cosiddetta riforma del Senato ha appena scavallato l’ennesima “settimana decisiva” - come ripete ormai ossessivamente, tra una foto e l’altra, la ministro Boschi - senza che nessuno possa dire quale sarà esattamente il testo, quanti la voteranno e quando sarà votata. Il Presidente del Consiglio, ormai auto avvoltosi nella sua immagine di politico determinato e determinante, distribuisce alternativamente minacce e ricatti all’interno del suo partito mentre spaccia selfie di passione con la famiglia Berlusconi. La noia monta, grazie a un copione composto da battute, pose e banalità infilate come perline che assumono ormai la valenza di un tormentone teatrale.
Per Renzi, le riforme sono il visto per l’Europa. Ma se è vero che l’Europa chiede le riforme istituzionali in cambio della flessibilità sui conti, perché mai le chiede solo a noi? Di quali riforme ha urgenza l’Europa? O meglio: cosa serve a quella lobby di tecnocrati e rappresentanti di gruppi bancari e finanziari che ha preso il controllo delle istituzioni continentali?
Bruxelles chiede le riforme solo a noi perché l’Italia, per storia, per collocazione geografica, per rilevanza economica e per cultura politica, come sempre nella storia, è un elemento di straordinaria importanza anche nella nuova architettura europea a trazione autoritaria. Si ritiene fattibile imporre il nuovo modello di dittatura europea perché l’Italia non ha mai goduto di sovranità nazionale, essendo dal 1946 un protettorato statunitense. Non ha mai goduto di alcuna forma di autonomia politica ed anche per questo è il Paese che più di ogni altro dispone di una classe dirigente acquistabile a prezzi di saldo.
E’ poi l’unico paese europeo che ha una storia di grandezza patria ferma al Risorgimento e alla guerra partigiana e che dispone di un’idea unitaria e di un concetto di nazione al di sotto di qualunque standard internazionale. Non fosse abbastanza, per giunta l’Italia è l’unico fra i principali Paesi europei che ha visto l’auto-dissolvimento della sinistra e, con essa, di ogni idea di destino diverso. Per questo si presta molto più che qualunque altro paese europeo all’esperimento di espropriazione definitiva della sua sovranità. L’Italia, in sostanza, è uno straordinario laboratorio per il nuovo modello europeo.
L’urgenza delle élites europee sta tutta qui. Nel ridisegno continentale del mercato del lavoro e della circolazione dei capitali, le multinazionali e le grandi organizzazioni della finanza speculativa vogliono poter rappresentare i propri interessi con una sorta di legittimità prevalente rispetto alle leggi nazionali. Ritengono cioè di poter vantare un diritto di sorvolo e di saccheggio su qualunque paese senza che le leggi interne di quei paesi possano in alcun modo impedirne o anche solo limitarne l’operato.
Per rendere fattibile tutto ciò si vuole marciare al passo dell’oca verso le riforme, per ridurre al minimo la possibilità di sopravvivenza della critica politica. Si vuole azzerare il dissenso politico per fare in modo che passino rapidamente ed agevolmente i trattati internazionali in discussione, che regolano e legalizzano il sovvertimento definitivo rispetto alle architetture statuali precedenti nella gerarchia tra finanza e politica, tra interessi di pochi e diritti di tutti.Una partita difficile di cui si gioca qui il primo tempo. C’è la definitiva soppressione dell’equilibrio tra i poteri, dal momento che quello esecutivo comanda e controlla quello legislativo. Ridurre il ruolo ed il peso delle Assemblee Legislative ed ampliare i poteri del governo intacca in profondità a favore dell'Esecutivo il bilanciamento tra pesi e contrappesi, unica garanzia contro l'abuso. L'equilibrio tra i poteri viene così ridefinito a vantaggio della riorganizzazione del comando.
Si può infatti già vedere con nettezza come l’implosione dell’architettura istituzionale comporti, in premessa, l’alterazione profonda del rapporto tra controllati e controllori, tra eletti ed elettori. Dunque la riforma del Senato non ha nulla a che vedere con la modernizzazione del Paese.
E’ invece un’operazione utile a ridisegnare il quadro istituzionale dell’Italia con un modello di sistema che vede l’eliminazione “legale” di ogni possibile dissenso, di ogni forza politica non affine al bipartitismo di fatto che si esercita come grande coalizione. E’ la negazione per legge al diritto di obiettare, di concorrere ad armi pari per alternative di programma e di sistema e che consegna all’Esecutivo l’unico mazzo di chiavi disponibile per la governance del Paese.
Coerentemente con quanto avviene in molte repubbliche delle banane, il governo Renzi si mostra portatore di un modello che vede l’Italia dominante verso l’interno e dominata dall’esterno. Invece che “i cittadini sono uguali di fronte alla legge”, il nuovo cartello renzista indica, più agilmente, “non disturbate il manovratore”.
Lega, Forza Italia, Ncd, tutto va bene e tutti vanno bene, il Premier è pronto a concedere tutto mentre fa finta di non cedere su niente, purché si arrivi ad un voto in più con il quale possa finalmente raccontare al mondo che lui è riuscito dove altri hanno fallito. Quello che però si delinea ogni giorno più chiaramente è come la cosiddetta “riforma istituzionale” che propone il Presidente del Consiglio, al netto delle balle sulla storia dell’immunità, sia un orrido brogliaccio politicamente indigeribile sotto il profilo della relazione tra eletti ed elettori, addirittura incostituzionale in alcune delle norme che prevede.
Ed è triste che debbano essere Chiti e Mineo insieme a qualche malpancista forzitaliota a esprimere il dissenso (peraltro solo su alcuni aspetti del progetto), mentre il partito che un tempo rappresentò la sinistra declama l’avvenuta mutazione genetica del paese e della politica. L’Europa sognata e concepita da Altiero Spinelli e altre grandi personalità della cultura e della politica è tornata indietro, infrangendosi senza rumore sugli scogli di Ventotene.
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di Carlo Musilli
Il semestre italiano di presidenza Ue è cominciato ormai da una settimana e ancora tiene banco la diatriba sulla possibile introduzione di maggiore flessibilità nei parametri di bilancio dei Paesi europei. In teoria, le fazioni sono due: da una parte Italia e Francia, con il premier Matteo Renzi che chiede a gran voce più margini di manovra per favorire la crescita; dall'altra la Germania e vari altri membri del solito asse del nord (fra cui Olanda e Finlandia), che continuano a osannare il rigore dei conti.
Le squadre sono chiare, molto meno lo scopo del gioco. Cosa s'intende, in concreto, per flessibilità? All'orizzonte c'è solo nebbia e per vederci chiaro dovremo aspettare più del previsto. La settimana scorsa alcune fonti interne all'Eurogruppo hanno lasciato trapelare che la discussione sul Patto di stabilità si svolgerà in autunno, "in occasione della presentazione dei progetti di bilancio degli Stati e del rapporto sul funzionamento del six pack e del two pack da parte della Commissione".
Almeno per i prossimi due-tre mesi, quindi, i ministri finanziari dell'Unione non ci spiegheranno di cosa stanno parlando. Fin da ora, tuttavia, sappiamo benissimo di cosa non stanno parlando: la spina dorsale del Fiscal Compact non viene messa in discussione e il tetto del deficit/Pil annuo al 3% resta per tutti un limite invalicabile. Su questo punto sono tutti d'accordo, anche Renzi. "Nessun primo ministro ha chiesto la modifica delle regole - ha confermato venerdì scorso Josè Manuel Barroso, presidente uscente della Commissione europea, nel corso di una visita a Roma - ma noi crediamo che le regole stesse prevedano alcuni margini di flessibilità".
Quali sono questi margini? Sul tavolo c’è l’ipotesi di scorporare dal computo del deficit gli investimenti a sostegno dei progetti in regime di cofinanziamento con l’Unione europea. Una strada contemplata dallo stesso Patto di Stabilità (fu suggerita due anni fa anche dall’ex premier Mario Monti), che garantirebbe risorse per la crescita a tutti i Paesi dell’Ue, Germania compresa. Nulla a che vedere, perciò, con lo sforamento del famoso 3%, che assicura a chi ne beneficia dei margini di crescita ben più significativi.
La possibilità di superare il limite del deficit, peraltro, è prevista dal Trattato di Maastricht, ma solo a singoli Paesi (non certo a tutti) e in determinate condizioni. Fu concesso ormai più di 10 anni fa proprio alla Germania (oltre che alla Francia), la quale ne ha tratto ampi vantaggi in termini di Pil.
Di fronte a un quadro simile, appaiono francamente incomprensibili le scaramucce della settimana scorsa fra Roma e l'accoppiata Berlino-Francoforte. Ad aprire le danze ci ha pensato il ministro tedesco dell’Economia, Wolfgang Schaeuble, che ha detto di "rifiutare il tema della flessibilità", pur ammettendo la necessità "di aumentare la crescita e gli investimenti". Gli ha fatto eco il presidente della Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, attaccando apertamente il Premier italiano: "Renzi ora ci dice cosa fare, ma aumentare i debiti non è il presupposto della crescita".Più che una critica destabilizzante, quello di Weidmann è stato un meraviglioso assist per il nostro presidente del Consiglio, che ha avuto buon gioco a presentarsi come libero pensatore e statista capace di tenere testa ai falchi tedeschi. Dapprima, una perentoria replica di Palazzo Chigi: "Se la Bundesbank pensa di farci paura forse ha sbagliato Paese. Sicuramente ha sbagliato Governo".
Poche ore più tardi, una conferenza stampa in cui il Premier si è espresso in questi termini: "Il compito della Bundesbank non è di partecipare al dibattito politico italiano. Io rispetto il lavoro della Banca centrale tedesca, quando vuole parlare con noi è benvenuta, ma il presupposto è che l'Europa è dei cittadini e non dei banchieri né tedeschi né italiani".
D'altra parte, Renzi ha garantito anche che "il rapporto con la cancelliera Merkel, nonostante le polemiche che si leggono sui giornali, è ottimo", mentre il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, e il titolare del Tesoro, Pier Carlo Padoan, si sono affrettati a negare qualsiasi tipo di frizione diplomatica con la Germania.
Ma come potrebbe essere altrimenti? I tedeschi non hanno alcuna ragione di polemizzare con il nostro Paese semplicemente perché il governo italiano non ha ottenuto alcun risultato che giustifichi il malcontento di Berlino e Francoforte. Non c'è stata alcuna vittoria di Renzi sulla Merkel. Al contrario, nelle conclusioni dell'ultimo vertice Ue tutti i capi di Stato e di Governo ribadiscono l'impegno a rispettare il Fiscal Compact.
Di flessibilità si parla solo in termini assai vaghi, ma si precisa in modo chiarissimo che ogni deroga al Patto è esclusa. Se mai lo scomputo dei cofinanziamenti arriverà, non sarà certo una sconfitta per i tedeschi, che ne beneficeranno come se non più di tutti gli altri. Insomma, il timone della politica economica europea si sposterà forse di qualche centimetro, ma non ci sarà alcuna svolta. Anche se i timonieri fanno finta di litigare.