di Fabrizio Casari

Il combinato disposto di riforma del Senato e legge elettorale in discussione è una porcata peggiore del Porcellum di Calderoli, che non a caso vi aderisce con entusiasmo. Suggella il patto di potere tra l’ambizioso Presidente del Consiglio e l’ormai ex Cavaliere. Che un patto destinato ad introdurre uno stravolgimento in negativo della Carta Costituzionale firmata dai giganti del nostro Paese possa essere introdotto da due guitti di successo con un ex comico alla finestra dipinge bene lo stato catatonico del Paese.

Che a riformare il Senato sia un parlamento eletto con una legge incostituzionale ed un partito il cui boss è stato espulso proprio dal Senato, rappresenta invece perfettamente il lato paradossale di questa penosa commedia italiana. Che un premier eletto da un complotto di corte e un pregiudicato siglino l’intesa segretamente raggiunta, è parte dello stesso paradosso.

Le affinità elettive tra i due sono piuttosto evidenti, e un certo cesarismo figlio di ego ipertrofico e interessi inconfessabili li rende abbastanza sovrapponibili. Li accomuna il fastidio per la Costituzione e per le norme che Berlusconi definiva “lacciuoli” e Renzi definisce “vecchiume”. E se allo psiconano nemmeno 100 parlamentari di maggioranza furono sufficienti per legiferare altro se non per i suoi immediati e diretti interessi aziendali e giudiziari, anche al governicchio attuale riesce tremendamente complicato sopportare una benchè minima opposizione. Il metodo è più o meno lo stesso, al netto dell’eleganza: se Berlusconi comprava qualche IDV, Renzi arruola qualche pezzo di ex-SEL.

Ma le simmetrie non si esauriscono qui. Così come fu per il patto tra Berlusconi e Bossi, non sono mai stati resi pubblici i contenuti del patto del Nazareno e tuttavia il Premier ha la faccia tosta di chiedere più trasparenza, ai Cinque stelle. C’è poi un’anomalia rappresentata dalla contraddizione per la quale il governo e le riforme dispongono di due maggioranze diverse. Il senso del progetto è questo: il governo serve solo ad imporre le riforme subito; queste, una volta completate, permetteranno di far eleggere il governo che si vuole.

Se tutti noi avessimo avuto la precisa sensazione di una eccessiva ingerenza dei partiti nella cosa pubblica, ci pensa Renzi a mandarci in overdose. Il suo disegno autoritario di riforme istituzionali racconta molto della natura e dell’ampiezza delle sue ambizioni. L’idea di come debba essere eletto e composto il Senato ha dell’incredibile. Mentre il paese tutto, sostenuto peraltro dalla sentenza della Consulta, chiede di poter reintrodurre le preferenze nella legge elettorale per ridare un aspetto anche solo formale e parziale all’utilità di recarsi alla cabina elettorale, Renzi propone un Senato formato da sindaci e consiglieri regionali scelti dai partiti.

Che quindi avranno doppio incarico (e immunità) e daranno ai partiti la possibilità di scegliere chi nominare senatore senza nemmeno togliersi il disturbo di chiedere il voto popolare. Tra i compiti dei nuovi senatori c’è quello, primario, di non disturbare il governo, giacché la legge di bilancio (cioè la legge fondamentale dello Stato) non sarà materia sulla quale potranno esprimersi.

Questo Senato, destinato a diventare il maggior ente inutile del sistema pubblico, verrà insediato senza un voto popolare ma scelto dal censo imperante, cioè la casta partitocratica venduta a quella finanziaria. Se si vogliono cercare parallelismi internazionali, è bene ricordare un esempio su tutti: nel 1913, gli Stati Uniti decisero che i senatori - fino ad allora eletti dalle assemblee degli stati - dovessero essere eletti direttamente dai cittadini, proprio per rafforzare la democrazia rappresentativa.

Certo che è possibile superare il “bicameralismo perfetto”, basterebbe dare al Senato le competenze oggi contraddittorie ed indefinite assegnate alle Regioni dai Decreti Bassanini, autentico tsunami di idiozia istituzionale. La riforma che proponeva alla fine degli anni ‘70 il PCI, che prevedeva la trasformazione del Senato in “Camera delle Regioni” e la riduzione a poco più di 400 membri della Camera, sarebbe ancora il passepartout ideale per un disegno armonioso e funzionale del Bicameralismo. La riforma del Titolo V della Carta resta invece impantanata nell’applicazione del dettato del Piano di Rinascita Democratica redatta da un toscano ancor più famoso di Renzi.

L’aspetto della riforma elettorale non è meno grave di quella del Senato e la dice lunga sulle ambizioni inconfessate ed inconfessabili del Presidente del Consiglio. L’antico obbligo costituzionale, che vedeva la formazione del governo come risultato di una maggioranza elettorale, verrà superato con l’introduzione di una legge elettorale che permetterà di insediare un governo frutto della minoranza più grande, non della maggioranza. L’assegnazione del premio di maggioranza a chi raggiunga la quota del 37% dei voti, infatti, rappresenterebbe il coefficiente internazionalmente più basso tra quelli conosciuti, a fronte però di uno sbarramento elettorale tra i più alti al mondo.

I due dati non possono essere letti separatamente: si regalano decine di seggi a chi non li ha avuti dalle urne, mentre la soglia di sbarramento consente solo a tre partiti (dei quali uno, M5S, con un futuro tutto da verificare) l’accesso alla Camera, negando così la possibilità di essere rappresentati a milioni di elettori che non si riconoscono nei tre aggregati maggiori. Se il Porcellum di Calderoli negava agli elettori il diritto all’indicazione delle preferenze, l’Italicum di Renzi gli nega addirittura il diritto di voto.

Il mancato diritto di scelta voluto dal PDL diventa il mancato esercizio del diritto di voto voluto dal PD. Dovremmo avere un’assemblea che legifera per i cittadini senza che questi ultimi possano votarne i componenti. E poco importa che la Corte Costituzionale prima o poi boccerà la legge, il ganzo di Pontassieve ha fretta, chi l’ha insediato passerà a riscuotere a breve e non c’è tempo da perdere.

Questo prevede in sostanza la legge elettorale progettata da Renzi: a chi non ha si regala, a chi potrebbe avere si nega. La relazione tra rappresentanti e rappresentati, principio cardine della democrazia, diviene un orpello da sacrificare sull’altare della velocità e dell’ansia mediatica dell’ex sindaco di Firenze.

Forse il dato più penoso riguarda proprio il PD e il suo incedere intruppato sotto gli stivali del suo capo: erede in qualche modo di un partito sempre impegnato nell’ampliamento della democrazia, nell’inarrestabile declino di cultura politica che lo caratterizza è diventato il motore principale dell’involuzione antidemocratica del Paese. E non è certo un caso se, parallelamente, insieme alla lotta per la democrazia del PCI ha perduto anche la rettitudine sulla questione morale.

Difficile separare le due convinzioni, frutto in effetti dello stesso sistema valoriale prematuramente scomparso: ed è per questo che si assiste alla sua crisi etica, con la definitiva entrata nell’alveo dei partiti motori della corruzione nazionale, ricalcando in ciò le orme familiari ad una parte della sua comunità, la stessa cui appartiene, peraltro, il suo ducetto.

E comunque, ancor più evidente risulta l’assoluta incongruenza con i problemi del Paese, ai quali Renzi ritiene evidentemente di aver messo mano con gli 80 euro per alcuni, a fronte dell’aumento generalizzato delle imposte locali. Mentre Renzi vive nella ricerca quotidiana di una battuta da titolo e di una foto che lo immortali, il Paese arranca come non mai.

Le previsioni di crescita che il Ministero dell’Economia diffonde vengono smentite al ribasso a stretto giro da organismi sia internazionali sia italiani. Intanto, la disoccupazione è giunta a livelli insopportabili per la tenuta del tessuto sociale, la stessa Inps invoca l’abbattimento rapido della legge Fornero, la crisi delle aziende si acuisce ogni giorno di più, la pressione fiscale continua a crescere oltre ogni ragionevole livello. Ma il Presidente del Consiglio è concentrato solo sulla riforma del Senato.

Anche le pietre sanno che dovremo aspettarci un autunno durissimo, che vivremo sotto l’attacco dei fondi speculativi e nell’indifferenza della BCE. Così come tutti sanno che non avremo sconti sul riordino dei conti pubblici sia perché Berlino non cede, sia perché i paesi del Nord Europa non vogliono nemmeno sentir parlare di allentamento del rigore finanziario, sia perché i paesi del Sud Europa, ai quali è stata imposta la tragedia sociale attraverso l’invasione della “troika”, non accetterebbero un diverso percorso per l’Italia.

Al momento gli avanzi di sacrestia al governo indicano nell’abolizione definitiva dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il prossimo impegno per modernizzare. Anche qui, le somiglianze con l’operato del cavaliere nero sono evidenti.

La grande stampa evita di porre alcune, decisive domande al Presidente del Consiglio, riaffermando con ciò come la sua funzione di cane da guardia del potere sia solo un lontano ricordo e spiegando, più di mille assemblee sindacali, il perché della sua crisi irreversibile. Celebra i presunti fasti del renzismo a colpi di titoli e foto e ripropone una categoria come sempre arruolata dai poteri forti, fatta da giornalisti che in realtà sono funzionari politici liberi di scrivere quello che la libertà editoriale gli ordina.

Il Premier, dal canto suo, sa che non serve a molto governare, basta dare la sensazione di farlo. E’ importante far vedere che tutto cambia per occultare il come cambia. E’ vero, cambia verso. Si va nel verso sbagliato.


di Fabrizio Casari

La cosiddetta riforma del Senato ha appena scavallato l’ennesima “settimana decisiva” - come ripete ormai ossessivamente, tra una foto e l’altra, la ministro Boschi - senza che nessuno possa dire quale sarà esattamente il testo, quanti la voteranno e quando sarà votata. Il Presidente del Consiglio, ormai auto avvoltosi nella sua immagine di politico determinato e determinante, distribuisce alternativamente minacce e ricatti all’interno del suo partito mentre spaccia selfie di passione con la famiglia Berlusconi. La noia monta, grazie a un copione composto da battute, pose e banalità infilate come perline che assumono ormai la valenza di un tormentone teatrale.

Per Renzi, le riforme sono il visto per l’Europa. Ma se è vero che l’Europa chiede le riforme istituzionali in cambio della flessibilità sui conti, perché mai le chiede solo a noi? Di quali riforme ha urgenza l’Europa? O meglio: cosa serve a quella lobby di tecnocrati e rappresentanti di gruppi bancari e finanziari che ha preso il controllo delle istituzioni continentali?

Bruxelles chiede le riforme solo a noi perché l’Italia, per storia, per collocazione geografica, per rilevanza economica e per cultura politica, come sempre nella storia, è un elemento di straordinaria importanza anche nella nuova architettura europea a trazione autoritaria. Si ritiene fattibile imporre il nuovo modello di dittatura europea perché l’Italia non ha mai goduto di sovranità nazionale, essendo dal 1946 un protettorato statunitense. Non ha mai goduto di alcuna forma di autonomia politica ed anche per questo è il Paese che più di ogni altro dispone di una classe dirigente acquistabile a prezzi di saldo.

E’ poi l’unico paese europeo che ha una storia di grandezza patria ferma al Risorgimento e alla guerra partigiana e che dispone di un’idea unitaria e di un concetto di nazione al di sotto di qualunque standard internazionale. Non fosse abbastanza, per giunta l’Italia è l’unico fra i principali Paesi europei che ha visto l’auto-dissolvimento della sinistra e, con essa, di ogni idea di destino diverso. Per questo si presta molto più che qualunque altro paese europeo all’esperimento di espropriazione definitiva della sua sovranità. L’Italia, in sostanza, è uno straordinario laboratorio per il nuovo modello europeo.

L’urgenza delle élites europee sta tutta qui. Nel ridisegno continentale del mercato del lavoro e della circolazione dei capitali, le multinazionali e le grandi organizzazioni della finanza speculativa vogliono poter rappresentare i propri interessi con una sorta di legittimità prevalente rispetto alle leggi nazionali. Ritengono cioè di poter vantare un diritto di sorvolo e di saccheggio su qualunque paese senza che le leggi interne di quei paesi possano in alcun modo impedirne o anche solo limitarne l’operato.

Per rendere fattibile tutto ciò si vuole marciare al passo dell’oca verso le riforme, per ridurre al minimo la possibilità di sopravvivenza della critica politica. Si vuole azzerare il dissenso politico per fare in modo che passino rapidamente ed agevolmente i trattati internazionali in discussione, che regolano e legalizzano il sovvertimento definitivo rispetto alle architetture statuali precedenti nella gerarchia tra finanza e politica, tra interessi di pochi e diritti di tutti.

Una partita difficile di cui si gioca qui il primo tempo. C’è la definitiva soppressione dell’equilibrio tra i poteri, dal momento che quello esecutivo comanda e controlla quello legislativo. Ridurre il ruolo ed il peso delle Assemblee Legislative ed ampliare i poteri del governo intacca in profondità a favore dell'Esecutivo il bilanciamento tra pesi e contrappesi, unica garanzia contro l'abuso. L'equilibrio tra i poteri viene così ridefinito a vantaggio della riorganizzazione del comando.

Si può infatti già vedere con nettezza come l’implosione dell’architettura istituzionale comporti, in premessa, l’alterazione profonda del rapporto tra controllati e controllori, tra eletti ed elettori. Dunque la riforma del Senato non ha nulla a che vedere con la modernizzazione del Paese.

E’ invece un’operazione utile a ridisegnare il quadro istituzionale dell’Italia con un modello di sistema che vede l’eliminazione “legale” di ogni possibile dissenso, di ogni forza politica non affine al bipartitismo di fatto che si esercita come grande coalizione. E’ la negazione per legge al diritto di obiettare, di concorrere ad armi pari per alternative di programma e di sistema e che consegna all’Esecutivo l’unico mazzo di chiavi disponibile per la governance del Paese.

Coerentemente con quanto avviene in molte repubbliche delle banane, il governo Renzi si mostra portatore di un modello che vede l’Italia dominante verso l’interno e dominata dall’esterno. Invece che “i cittadini sono uguali di fronte alla legge”, il nuovo cartello renzista indica, più agilmente, “non disturbate il manovratore”.

Lega, Forza Italia, Ncd, tutto va bene e tutti vanno bene, il Premier è pronto a concedere tutto mentre fa finta di non cedere su niente, purché si arrivi ad un voto in più con il quale possa finalmente raccontare al mondo che lui è riuscito dove altri hanno fallito. Quello che però si delinea ogni giorno più chiaramente è come la cosiddetta “riforma istituzionale” che propone il Presidente del Consiglio, al netto delle balle sulla storia dell’immunità, sia un orrido brogliaccio politicamente indigeribile sotto il profilo della relazione tra eletti ed elettori, addirittura incostituzionale in alcune delle norme che prevede.

Ed è triste che debbano essere Chiti e Mineo insieme a qualche malpancista forzitaliota a esprimere il dissenso (peraltro solo su alcuni aspetti del progetto), mentre il partito che un tempo rappresentò la sinistra declama l’avvenuta mutazione genetica del paese e della politica. L’Europa sognata e concepita da Altiero Spinelli e altre grandi personalità della cultura e della politica è tornata indietro, infrangendosi senza rumore sugli scogli di Ventotene.

di Carlo Musilli

Il semestre italiano di presidenza Ue è cominciato ormai da una settimana e ancora tiene banco la diatriba sulla possibile introduzione di maggiore flessibilità nei parametri di bilancio dei Paesi europei. In teoria, le fazioni sono due: da una parte Italia e Francia, con il premier Matteo Renzi che chiede a gran voce più margini di manovra per favorire la crescita; dall'altra la Germania e vari altri membri del solito asse del nord (fra cui Olanda e Finlandia), che continuano a osannare il rigore dei conti.

Le squadre sono chiare, molto meno lo scopo del gioco. Cosa s'intende, in concreto, per flessibilità? All'orizzonte c'è solo nebbia e per vederci chiaro dovremo aspettare più del previsto. La settimana scorsa alcune fonti interne all'Eurogruppo hanno lasciato trapelare che la discussione sul Patto di stabilità si svolgerà in autunno, "in occasione della presentazione dei progetti di bilancio degli Stati e del rapporto sul funzionamento del six pack e del two pack da parte della Commissione". 

Almeno per i prossimi due-tre mesi, quindi, i ministri finanziari dell'Unione non ci spiegheranno di cosa stanno parlando. Fin da ora, tuttavia, sappiamo benissimo di cosa non stanno parlando: la spina dorsale del Fiscal Compact non viene messa in discussione e il tetto del deficit/Pil annuo al 3% resta per tutti un limite invalicabile. Su questo punto sono tutti d'accordo, anche Renzi. "Nessun primo ministro ha chiesto la modifica delle regole - ha confermato venerdì scorso Josè Manuel Barroso, presidente uscente della Commissione europea, nel corso di una visita a Roma - ma noi crediamo che le regole stesse prevedano alcuni margini di flessibilità".

Quali sono questi margini? Sul tavolo c’è l’ipotesi di scorporare dal computo del deficit gli investimenti a sostegno dei progetti in regime di cofinanziamento con l’Unione europea. Una strada contemplata dallo stesso Patto di Stabilità (fu suggerita due anni fa anche dall’ex premier Mario Monti), che garantirebbe risorse per la crescita a tutti i Paesi dell’Ue, Germania compresa. Nulla a che vedere, perciò, con lo sforamento del famoso 3%, che assicura a chi ne beneficia dei margini di crescita ben più significativi.

La possibilità di superare il limite del deficit, peraltro, è prevista dal Trattato di Maastricht, ma solo a singoli Paesi (non certo a tutti) e in determinate condizioni. Fu concesso ormai più di 10 anni fa proprio alla Germania (oltre che alla Francia), la quale ne ha tratto ampi vantaggi in termini di Pil.

Di fronte a un quadro simile, appaiono francamente incomprensibili le scaramucce della settimana scorsa fra Roma e l'accoppiata Berlino-Francoforte. Ad aprire le danze ci ha pensato il ministro tedesco dell’Economia, Wolfgang Schaeuble, che ha detto di "rifiutare il tema della flessibilità", pur ammettendo la necessità "di aumentare la crescita e gli investimenti". Gli ha fatto eco il presidente della Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, attaccando apertamente il Premier italiano: "Renzi ora ci dice cosa fare, ma aumentare i debiti non è il presupposto della crescita".

Più che una critica destabilizzante, quello di Weidmann è stato un meraviglioso assist per il nostro presidente del Consiglio, che ha avuto buon gioco a presentarsi come libero pensatore e statista capace di tenere testa ai falchi tedeschi. Dapprima, una perentoria replica di Palazzo Chigi: "Se la Bundesbank pensa di farci paura forse ha sbagliato Paese. Sicuramente ha sbagliato Governo".

Poche ore più tardi, una conferenza stampa in cui il Premier si è espresso in questi termini: "Il compito della Bundesbank non è di partecipare al dibattito politico italiano. Io rispetto il lavoro della Banca centrale tedesca, quando vuole parlare con noi è benvenuta, ma il presupposto è che l'Europa è dei cittadini e non dei banchieri né tedeschi né italiani".

D'altra parte, Renzi ha garantito anche che "il rapporto con la cancelliera Merkel, nonostante le polemiche che si leggono sui giornali, è ottimo", mentre il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, e il titolare del Tesoro, Pier Carlo Padoan, si sono affrettati a negare qualsiasi tipo di frizione diplomatica con la Germania.

Ma come potrebbe essere altrimenti? I tedeschi non hanno alcuna ragione di polemizzare con il nostro Paese semplicemente perché il governo italiano non ha ottenuto alcun risultato che giustifichi il malcontento di Berlino e Francoforte. Non c'è stata alcuna vittoria di Renzi sulla Merkel. Al contrario, nelle conclusioni dell'ultimo vertice Ue tutti i capi di Stato e di Governo ribadiscono l'impegno a rispettare il Fiscal Compact.

Di flessibilità si parla solo in termini assai vaghi, ma si precisa in modo chiarissimo che ogni deroga al Patto è esclusa. Se mai lo scomputo dei cofinanziamenti arriverà, non sarà certo una sconfitta per i tedeschi, che ne beneficeranno come se non più di tutti gli altri. Insomma, il timone della politica economica europea si sposterà forse di qualche centimetro, ma non ci sarà alcuna svolta. Anche se i timonieri fanno finta di litigare. 






di Antonio Rei

E' sempre così la prima volta che mangi al tavolo dei grandi: vuoi fare bella figura. Vuoi far vedere che anche tu hai studiato, anche tu hai fatto i compiti, anche tu la sai lunga. Cambia poco se il tavolo in realtà è il Parlamento europeo, ancora meno se il giovanotto in questione è un premier 40enne che presenta al mondo il suo piano per l'Ue.

Un piano? Macché, niente piano. Davanti all'assemblea di Strasburgo, Matteo Renzi chiarisce subito che il suo discorso non avrà niente a che vedere con i progetti concreti per il semestre italiano di presidenza europea. Chi fosse interessato a dettagli del genere si vada a leggere le carte (lo diceva anche anni fa, durante la campagna elettorale per le primarie: "Il programma? Andatevelo a guardare sul sito").

Sgombrato il campo dal timore che possa entrare nel merito di qualcosa, il Premier si lascia trasportare dal consueto, impetuoso fiume di cazzeggio. E allora sotto con una bella infilata di slogan: "Senza crescita non c'è futuro", "L'Italia farà la sua parte, non chiediamo scorciatoie", "Non esiste un’Europa senza la Gran Bretagna", "Dobbiamo ritrovare la nostra anima" e via chiacchierando.

Stavolta però, oltre alle solite amenità della politica da Baci Perugina, il buon Matteo distilla anche una collana di perle culturali. In un attacco di bulimia citazionista, smitraglia sui poveri parlamentari una raffica di pallettoni caricati a polvere di liceo classico: "Questa mattina si è chiuso il semestre greco - ricorda Renzi -. Se immaginiamo quale sia il testimone tra Grecia e Italia, pensiamo al rapporto tra Anchise e Enea, tra Pericle e Cicerone. Grecia e Italia sono agorà e foro, il tempio e la Chiesa, il Partenone e il Colosseo. E invece non pensiamo a questo quando parliamo di Grecia e Italia, e neanche al senso della vita, nonostante Aristotele e Dante, Archimede e Leonardo".

Ricorda vagamente uno degli elenchi di Fiorello quando imitava Gianni Minà ("eravamo io, Fidel, Compay Segundo, Teófilo Stevenson, Sotomayor, Lino Padruba e la sua Jazz Band, Tarek Aziz, Arthur Ashe..."). Ma qual è la morale? Quando si parla di Italia e Grecia, non si deve pensare allo spread, bensì alla grandezza insita nel nostro glorioso dna. Chi l'avrebbe mai detto, eh?

La vera bomba, però, è un'altra. Renzi la sgancia col necessario afflato retorico: "In Europa c'è una generazione nuova, la generazione...". Alt. E' qui che arriva il vero colpo di scena. Tutti o quasi pensano che si rimetta a parlare della mitica "generazione Erasmus". E' un suo cavallo di battaglia, già snocciolato all'insediamento del Governo. L'Erasmus, per chi non lo sapesse, è quel programma che permette ai giovani europei di andare a studiare all'estero (a giudicare dal suo inglese, Renzi lo avrà fatto a Fiesole).

Invece no. Stavolta ci stupisce: "...la generazione Telemaco". Telemaco? Per fortuna il Premier ci spiega anche che trattasi del "figlio di Ulisse" e che noi  "abbiamo una missione ancora più difficile della sua da portare avanti". Nell'Odissea Telemaco partiva alla ricerca del padre, che poveretto ne stava passando di ogni tipo. Renzi poteva costruire la metafora direttamente con Ulisse, ma dai... Telemaco è più giovane.

Il punto però è un altro: da dove gli è uscito fuori "generazione Telemaco?". Di solito il nostro Presidente del Consiglio parla semplice, ma a Strasburgo ha prevalso il desiderio di una legittimazione almeno culturale, la voglia di stupire i colleghi diffidenti. Compreso il premier olandese Mark Rutte, che poco prima lo aveva impallinato annunciando che all'ultimo vertice Ue Olanda e Germania hanno "stoppato" il tentativo di Francia e Italia di ammorbidire le regole di bilancio del Fiscal Compact.

Chissà se Telemaco e compagnia cantante basteranno a distrarre l'Europa dalla verità che Rutte ha svelato e che le conclusioni del vertice confermano nero su bianco. In caso contrario, niente panico. Nel manuale del liceo c'è ancora un sacco di gente, oltre a Telemaco. 

di Antonio Rei

La vulgata recita così: l'Italia ha ottenuto dall'Europa maggiore flessibilità sui conti pubblici in cambio delle riforme strutturali. Sarebbe bello, ma non è vero. Si tratta di una bugia colossale, l'apice del teatro renziano che venerdì scorso, nella sala stampa di Bruxelles, ha trovato il più vasto palcoscenico possibile.

La panzana si articola su diversi piani. In primo luogo, dall'Ue non arriva alcun nuovo margine di flessibilità a beneficio dei Paesi in crisi. Non sta scritto da nessuna parte. Nell'ultima bozza del Consiglio europeo si parla di "fare miglior uso della flessibilità" già prevista nel Patto di stabilità, ovvero quel Fiscal compact che i 28 ribadiscono di voler rispettare. L'impegno rimane inderogabile, indiscusso e indiscutibile.

Ergo, non c'è nulla di nuovo, come Angel Merkel aveva anticipato prima al Bundestag poi alla stampa. L'impostazione della politica economica europea non cambia di una virgola, non c'è alcuna svolta in direzione della crescita o della creazione di posti di lavoro.

Fra le presunte novità, la principale misura prevede lo scorporo del cofinanziamento dei fondi Ue dal calcolo del deficit. Un passo avanti positivo, perché aiuterà a incrementare gli investimenti pubblici, ma non si può presentare come un vero cambiamento di rotta. Lo aveva già proposto un paio d'anni fa Mario Monti, che certo non era e non è un pensatore eterodosso rispetto al vangelo rigorista secondo Bruxelles.

L'unica vera flessibilità di cui i Paesi come l'Italia avrebbero davvero bisogno è quella sui parametri di bilancio, in particola sul famoso tetto del 3% al deficit pubblico. Ormai suona come un'eresia, ma non lo è: in determinate condizioni, lo sforamento è contemplato dallo stesso Trattato di Maastricht e i primi a usufruire della clausola, più di 10 anni fa, furono proprio Germania e Francia.

C'è però una differenza cruciale da tenere presente: la flessibilità sul disavanzo andrebbe a beneficio solo di alcuni Paesi, i più in difficoltà a causa della crisi, mentre lo scomputo degli investimenti sarà un vantaggio per tutti, Berlino compresa. Quale sarebbe allora la grande vittoria di Renzi su Angela Merkel? Quale sarebbe la contropartita per l'appoggio alla nomina di Jean Claude Juncker alla guida della Commissione Ue?

I socialisti europei, con il Premier italiano in testa, hanno dato il proprio via libera alla massima investitura del politico di destra più rappresentativo degli ultimi anni di tragica austerity, l'uomo simbolo dell'Europa iper-liberista a trazione tedesca. E lo hanno fatto per nulla, con l'unico risultato di togliere le castagne dal fuoco alla Cancelliera, che altrimenti avrebbe dovuto faticare non poco per superare l'ostilità della Gran Bretagna al grande ritorno del lussemburghese.

In secondo luogo, non è assolutamente vero che questa presunta flessibilità aggiuntiva sia in qualche modo legata al varo di riforme strutturali. Nemmeno di questo si trova esplicitamente traccia nero su bianco, com'era prevedibile. In effetti, di quali riforme stiamo parlando? Non si capisce davvero per quale ragione l'Europa dovrebbe interessarsi allo stravolgimento del Senato italiano e addirittura premiarci per questo.

Quanto al decretone sulla Pubblica amministrazione, non piace agli uffici tecnici del Quirinale, di conseguenza è lecito pensare che nemmeno Bruxelles ne sarà entusiasta, essendo Giorgio Napolitano il più riconosciuto alfiere dell'eurocrazia nel nostro Paese.

Renzi potrà anche atteggiarsi a risoluto sostenitore delle politiche per la crescita, ma nei fatti non lo è. Non lo è mai stato. La sua azione politica sembra guidata piuttosto dalla stella polare di una smodata ambizione personale. Le vittorie che si attribuisce oggi sono solo l'ennesimo colpo di teatro.


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