di Antonio Rei

Il problema non è quasi mai nel “che cosa”, ma quasi sempre nel “come”. La regola trova conferma nel nuovo bonus bebè, l’ultima mirabolante perla del premier Matteo Renzi. L’idea di base è più che condivisibile: lo Stato aiuta le famiglie con meno possibilità a sostenere le spese extra che la nascita di un figlio comporta. Sacrosanto.

Peccato che, per com’è stato concepito, il bonus rischi di trasformarsi in un folle e iniquo sperpero di denaro pubblico, buono forse per far recuperare qualche punto nei sondaggi al giovanotto in camicia bianca, magari anche per risarcire la Chiesa Cattolica di un’eventuale legge su gay e diritti civili, ma non certo per ridistribuire ricchezza e aiutare chi più avrebbe bisogno.

"Dal primo gennaio del 2015 - ha detto Renzi domenica sera - daremo gli 80 euro anche a tutte le mamme che fanno un figlio, per i primi tre anni. Si tratta del mezzo miliardo destinato alle famiglie" nella legge di Stabilità.

Che l’obiettivo sia d’immagine è confermato dalla sede in cui il Presidente del Consiglio ha scelto di annunciare l’intervento. Nonostante pochi giorni prima si trovasse a Palazzo Chigi per illustrare la legge di Stabilità davanti a una platea di giornalisti professionisti, il capo del Governo ha dato l’annuncio del bonus bebè dal salottino di Barbara D’Urso su Canale 5.

La signora, che pure si definisce “giornalista” ogni volta che può, ha passato il tempo a sorridere, ad appellare il Premier con un confidenziale “Matteo”, a farsi con lui selfie che risulterebbero imbarazzanti anche in un film per teenager. Di domande vere, ovviamente, nemmeno l’ombra. 

La signora D’Urso avrebbe potuto chiedere conto, ad esempio, della platea a cui s’intende concedere il bonus, ovvero tutte le famiglie con un reddito annuo lordo fino a 90mila euro. Una folla oceanica di persone che comprende anche parte della classe medio-alta. “E’ mai possibile, caro Matteo - avrebbe potuto dire Barbara . che in un Paese dove mancano le risorse per aiutare i poveri si trovi il modo di dare soldi a chi può permettersi due automobili?”.

Già, perché ancora una volta rimangono sullo sfondo i cosiddetti incapienti, ovvero le persone che guadagnando meno di 8mila euro l’anno, non pagano l’Irpef e perciò sono escluse dal bonus di 80 euro introdotto la scorsa primavera. A quel tempo Renzi aveva promesso che il Governo avrebbe fatto qualcosa anche per loro, ma ora che ha 500 milioni di euro da spendere decide d’includere fra i beneficiari anche gli abbienti.

Non solo. L’importo è uguale (80 euro) e al Premier fa comodo alimentare la confusione (“daremo gli 80 euro anche a tutte le mamme”), ma i soldi del bonus Irpef e quelli del bonus bebè sono due aiuti distinti e - udite e udite - addirittura cumulabili. Chi guadagna 1.500 euro netti al mese e fa un figlio intascherà un doppio sostegno da parte dello Stato. Chi invece non guadagna abbastanza per vivere, ma è abbastanza coraggioso da fare un figlio, avrà diritto solo agli 80 euro del bonus bebè. Insomma, si dà di più a chi ha di più e di meno a chi ha di meno.

“Non ritiene, Presidente, che destinare quei 500 milioni soltanto ai poveri avrebbe ridotto un po’ la crisi sociale del Paese? - avrebbe potuto chiedere Barbara -. Non pensa che sarebbe meglio intervenire per ridurre gli squilibri invece che per aumentarli?”.

Nella distribuzione delle risorse che ha a disposizione, il Governo continua a violare ogni principio di giustizia sociale e di progressività. Il bonus bebè pone un limite di reddito entro il quale non sono previste distinzioni: che si guadagnino 90mila o 10mila euro l’anno, il bonus è sempre da 80 euro.

Lo stesso difetto grava anche sul bonus Irpef, ma in quel caso il tetto di reddito lordo annuo oltre il quale non si ha più diritto al benefit è di 26mila euro. Non 90mila. L’assurdità della soglia per il bonus bebè emerge anche da confronto con la situazione attuale. Oggi il benefit legato ai figli funziona in modo diverso e sono le Regioni a stabilire il reddito-limite: nel Lazio, ad esempio, è di 20 mila euro a famiglia, mentre in Sicilia è addirittura di 5mila. Non 90mila.

Bisogna poi tenere presente il peso che la nuova misura avrà sulle casse pubbliche. Stando alle statistiche, i 500 milioni di euro saranno sufficienti per coprire il bonus bebè nel 2015. L'anno successivo, però, il conto raddoppierà, perché avranno diritto al benefit le neomamme del 2015 e del 2016. La stessa logica porterà i costi a triplicare nel 2017 fino a quota 1,5 miliardi, che dovrebbe rappresentare l'uscita costante dal 2018 in poi.

Non sono pochi soldi, soprattutto per chi imposta la legge di Stabilità quasi esclusivamente su aumento del deficit e tagli agli enti locali. Ricordiamo poi che la manovra prevede anche una mortifera clausola di salvaguardia: se non si riuscirà a raggiungere l'obiettivo di medio termine (leggi pareggio di bilancio) scatteranno aumenti automatici dell’Iva e delle altre imposte indirette per 12,4 miliardi di euro nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e ben 21,4 miliardi nel 2018. "In queste condizioni, si sentiva proprio il bisogno di regalare 80 euro a chi ogni mese ne guadagna 4mila?", avrebbe potuto chiedere Barbara. Ma la signora sapeva che Matteo era lì proprio per non rispondere.

di Fabrizio Casari

La legge di stabilità 2015 presentata dal Presidente del Consiglio è sotto la lente di Bruxelles, dopo aver già ricevuto il plauso di Confindustria e le sviolinate delle corazzate mediatiche che scrivono sottovento. Eppure, dalla lettura della bozza, anche solo focalizzandosi sui titoli, non si capisce da dove arrivi tanta soddisfazione. O, meglio, si capisce benissimo. Detto che una quota parte della manovra è a deficit, emergono diversi aspetti poco rassicuranti.

Si dirà che si deve mettere ordine nei conti. Ah sì? Beh, viene previsto il debito pubblico in aumento, al 133,4% del PIL. Ci sono 835 miliardi di spese e 786 di entrate. Vengono scaricati sulle Regioni 7 miliardi da reperire, con ovvio aumento delle tassazioni locali, per pagare lo sconto Irap di 5. Investimenti pubblici in calo, TFR in busta paga ma con quasi certo aumento dell’aliquota.

Sembra una manovra di ordinaria ingiustizia sociale in un quadro normale. Eppure il Paese è in deflazione e la disoccupazione ha assunto i livelli di un dramma nazionale. Il tessuto sociale appare slabrato e i fondamentali atipici (e positivi) dell’economia italiana, in primo luogo la sua capacità di risparmio, non riescono più a sostenere una devastazione sociale che ha incaricato il tessuto familiare di sostituirsi al welfare. In questo contesto, non si vedono proprio le scelte che “cambiano il verso”.

Non c’è nessuna politica per la crescita; in sostanza la legge di stabilità è una operazione contabile che modifica gli indirizzi dei flussi di spesa, lasciando invariato il saldo e, con esso, sia le dottrine di Tremonti sui tagli lineari per i ministeri (di per se stessi allucinanti), sia altre follie, tra le quali l’aumento delle spese militari (l'acquisto degli inutili F35, ad esempio, pur se distribuito in 5 anni è un importo pari alla manovra nel suo complesso). Non vengono previsti ulteriori aumenti alle cifre necessarie per il sistema di tutele universali - il welfare - né vengono immaginate forme di ampliamento delle forme di sussidio, a partire da quello di disoccupazione.

Non viene cancellato il blocco delle assunzioni nella PP. AA. e le misure di riduzione del precariato, per quanto utili, risultano del tutto insufficienti. Meno che mai vengono ipotizzate misure come il reddito di cittadinanza, che pure nel resto d’Europa - le si chiami come si vuole - ci sono. Non ci sono operazioni urgenti, prima ancora che giuste, come quella dell’eliminazione degli enti inutili. E non c’è nessuna notizia sull’utilizzo dei 44 miliardi di Euro dei fondi strutturali europei da quest’anno fino al 2020.

In compenso viene confermato il bonus degli 80 Euro per chi però ha già comunque un reddito. Gli 80 Euro arrivano ad alcuni e lasciano completamente all’asciutto chi quel reddito nemmeno se lo sogna. Invece di affrontare a muso duro le sacche di povertà autentiche e la disoccupazione crescente, si aggiunge un rinforzino limitato ad un area comunque occupata.

La stortura dell’iniziativa appare duplice: in molti casi i redditi su cui arrivano sono due nella stessa famiglia e creano quindi un ultra bonus che lascia il sapore di un privilegio in confronto a chi non riceve niente; al contrario, in altri casi, producendosi una modifica dell’aliquota che risulta penalizzante a consuntivo, si peggiora la situazione del saldo.

Infatti si dovrebbe valutare compiutamente quanto la misura sia effettivamente a sostegno; in molti casi, si è verificato come una volta che l’inserimento degli 80 Euro viene misurato nelle modifiche delle aliquote sul reddito che inevitabilmente produce, vanifica, con il maggior prelievo fiscale, il contributo netto ricevuto.

Ma fatto salvo il banalissimo concetto per cui avere più soldi sia comunque un bene, va poi sottolineato come un provvedimento di questo tipo riguarda solo una parte delle famiglie e, comunque, proprio per la sua estemporaneità, non contribuisce in nessuna misura - come già è stato verificato fino ad ora - all’aumento dei consumi.

Risulta in sostanza un provvedimento propagandistico, inutile ai fini della ripartenza dell’economia interna e del suo ciclo virtuoso di produzione, distribuzione e consumo, mentre acuisce le differenze tra garantiti e non garantiti, come avrebbe detto Asor Rosa, in un paese con il 52 % di disoccupazione giovanile.

Ma è l’intervento sulla riduzione dell’Irap per 5 miliardi di Euro che lascia sconcertati. Invece di investire quel denaro nella riduzione del cuneo fiscale, stimolando con ciò la possibilità per le aziende di ridurre i costi per gli assunti e mettendo davvero nelle tasche dei lavoratori un aumento non sporadico, s’interviene sulla tassa sulle imprese senza vincolare l’investimento all’effettiva assunzione di personale.

Dunque si rendono felici le aziende che si vedono abbattere l’Irap ma senza che esse si sentano minimamente obbligate ad assumere. Ha tenuto a specificarlo il Presidente di Confindustria, a scanso di equivoci, rispondendo all’annunciatore che gli diceva “ora non avete alibi, assumete”.

Insomma siamo di nuovo all’epoca dei finanziamenti a pioggia per le imprese che un tempo, invece d’investirli nell’innovazione di prodotto e in nuove imprese, li portavano all’estero o li utilizzavano per le riconversioni in chiave finanziaria della loro dimensione industriale. Invece di una patrimoniale, da diversi economisti considerata inevitabile, si continua a versare l’obolo, magari sotto la slide del brand italiano. Trattasi di una regalìa, non di una politica industriale.

E non a caso Squinzi, che di una politica industriale vera ha timore, ha detto che “Renzi realizza i miei sogni”. Che sono quelli di un padrone che vorrebbe incassare e non pagare, come è naturale che sia in una imprenditoria ad alta voracità e a dimostrata incapacità. L’imprenditoria italiana, priva di idee e capitali, vede nella riduzione del costo del lavoro e delle imposte la sua unica possibilità di realizzare margini operativi. Si conferma così essere del tutto priva dei connotati di responsabilità sociale, che pure la Costituzione prevede e che i governi dovrebbero ricordargli, a maggior ragione in una fase come questa.

La sola riduzione dell’Irap sarebbe comunque stata accettabile se fosse stata prevista a consuntivo per quelle aziende che avessero assunto a tempo indeterminato. Qui sì le “tutele crescenti” avrebbero trovato una applicazione positiva. Ma l’autonomia personale e politica di Renzi dalla finanza è decisamente limitata e pensare che l’annunciatore seriale possa in qualche modo svolgere un ruolo di governo nei confronti delle pulsioni ancestrali del padronato sarebbe ingenuo, un non sense.

Ma il peggio è sul versante del risparmio necessario alla regalìa. Scaricare sulle spalle del sistema degli Enti Locali il peso dell’ennesimo regalo al padronato è opera di folle vigliaccheria. La riduzione di sette miliardi nei trasferimenti dallo Stato alle Regioni è il colpo di grazia e pone in forse persino i livelli minimi delle prestazioni sanitarie e la loro applicabilità omogenea sul territorio.

Renzi, con un trucco ereditato dal suo socio di Arcore (e dal quale ha imparato a far finta di stare all’opposizione mentre governa), scarica in basso l’inevitabile aumento delle tasse, accollando agli Enti Locali le nuove imposte mentre va in tv con le slide dei cretini del bullet-point a raccontare che il governo non aumenta le tasse. Alle proteste delle Regioni ha risposto, con la classe che lo contraddistingue, di ridurre gli sprechi, dimenticandosi che pochi mesi fa, da sindaco di Firenze, diceva l’opposto.

Inutile sperare in un soprassalto di valori da parte dei deputati del PD, tutti impegnati a garantirsi uno strapuntino sicuro nel futuro incerto. Ma l’amarezza resta e l’auspicio unico è che il 25 Ottobre la Cgil e la Fiom riempiano le piazze per dimostrare che c’è ancora un Paese che vede e che parla, che grida persino. Perché che la politica attraversi una crisi profonda di uomini e idee, di credibilità e progetti, è risaputo; ma che dopo l’illusione gravosa del cavaliere nero si sia passati a quella del bullo in camicia bianca fa pensare che gli italiani davvero si meritino quest’Italia.

di Antonio Rei

Tanti numeri, ma nessuna direzione chiara, se non quella scelta per il moribondo articolo 18. Il Presidente del Consiglio ha annunciato ieri durante l'incontro con i sindacati che la prossima legge di Stabilità conterrà una manovra da 23-24 miliardi. Di questi, sette serviranno a stabilizzare il bonus Irpef da 80 euro e uno ad allentare il patto di stabilità dei Comuni.

Le spese indifferibili come le missioni peseranno per quattro miliardi, mentre l'assunzione dei precari della scuola richiederà un miliardo e mezzo e la proroga al 2015 dell'ecobonus al 65% non dovrebbe costare più di 600 milioni. Agli ammortizzatori sociali sarà concesso un altro miliardo e mezzo, mentre resta da definire l'impatto di un eventuale primo intervento per anticipare il Tfr in busta paga.

Su questi due ultimi punti si misura tutta la vacuità e la miopia del programma economico renziano, oltre al talento dimostrato ancora una volta dal Premier nel prendere in giro gli italiani mentre finge di salvarli.

Come altro si può definire, se non come una canzonatura, quel miliardino e mezzo destinato agli ammortizzatori sociali? Non è nemmeno poco, è una somma ridicola. Per avere un termine di paragone è sufficiente dare un'occhiata all’ultimo Bilancio sociale Inps:?su una spesa di 22,7 miliardi versata nel 2012 per cassa integrazione, disoccupazione e mobilità, la percentuale coperta da imprese e lavoratori è stata del 37,5% (8,5 miliardi), mentre il resto (62,3 %, pari a 14,3 miliardi) è stato a carico dello Stato.

Una vera riforma degli ammortizzatori sociali richiederebbe quindi all'incirca dieci volte la somma stanziata dal governo. Non si può fare, perché i soldi non ci sono, a meno di non sforare il beneamato tetto del 3% imposto dal trattato di Maastricht per il rapporto deficit-Pil. E noi non abbiamo alcuna intenzione di fare i cattivi bambini come i francesi: "Non ci tratti da studentelli", dice Renzi alla cancelliera Merkel, ma poi ubbidisce alla maestra e fa tutti i compiti a casa che gli vengono assegnati.

Veniamo ora al capitolo Tfr e chiariamo subito che con questa follia il Tesoro non c'entra. Anzi, i tecnici di Padoan - in prima battuta - hanno rigettato esplicitamente la paternità dell'iniziativa. L’idea è di anticipare nelle buste paga dei dipendenti del settore privato, a partire dal 2015, il Trattamento di fine rapporto (per intero o in parte). I lavoratori potrebbero scegliere se accettare o meno e l'anticipo avverrebbe grazie alla mediazione delle banche, che si sostituirebbero ai dipendenti nel ruolo di creditori delle imprese o dell'Inps.

Da parte loro, le aziende e l'Istituto nazionale di previdenza continuerebbero a versare gli importi dovuti al termine dei rapporti di lavoro, come hanno sempre fatto, solo che darebbero quei soldi agli istituti di credito e non più ai lavoratori, che li avrebbero già incassati.

Con questo passaggio si eviterebbe di affossare i bilanci dell'Inps (che gestisce un fondo del Tesoro in cui le aziende con più di 50 dipendenti parcheggiano i Tfr lasciati in azienda dai dipendenti) e delle Pmi con meno di 50 dipendenti (che tengono in cassa i fondi dei Tfr). Non è chiarissimo cosa ci guadagnino le banche, perché pensare che lo facciano per amor di patria è assai complesso.

L'altro grande problema è fiscale. Ad oggi il Tfr gode di una tassazione privilegiata e il suo spostamento in busta paga rischia di aumentare il reddito, alzando così l'aliquota marginale Irpef. Risultato: su quei soldi, che sono già nostri, pagheremmo più tasse. Per evitare uno smacco simile a danno dei lavoratori il governo potrebbe scegliere la strada della ritenuta alla fonte o della tassazione separata rispetto allo stipendio, magari corrispondendo il Tfr in una sola busta paga l'anno.

Se anche tutte queste difficoltà tecniche fossero superate, tuttavia, rimarrebbe comunque un problema di prospettiva. Il Tfr può già essere anticipato al lavoratore, ma solo per l’acquisto della prima casa o per sostenere spese mediche. Insomma, la motivazione deve essere seria, altrimenti quei soldi non si toccano, sono una forma di risparmio forzato che servirà in futuro, quando il rapporto fra popolazione attiva e pensionati sarà più svantaggioso e il sistema previdenziale ancora meno sostenibile.

Anticipare il Tfr vuol dire trasferire il reddito futuro nel presente, scaricando il costo dei consumi di oggi sulle spalle delle future generazioni. Una specialità in cui l'Italia è campione del mondo. E dire che dovevamo cambiare verso.  

di Fabrizio Casari

Prima di uno scontro tra “vecchia guardia” e nuovisti, più che una divergenza sul tema dell'applicazione dell'articolo 18, lo scontro interno alla direzione del PD ha raccontato un dato difficile da confutare: Matteo Renzi è l’ultima, fastidiosa iperbole della vicenda politica italiana. Quella cioè che vede un uomo con idee di destra dirigere un partito che si vorrebbe del centrosinistra.

Bastava vederlo da Fazio, domenica scorsa, per cogliere questa semplicissima verità, che d’un tratto persino il solitamente fin troppo felpato Fazio è stato costretto a mostrargli, probabilmente infastidito dalla retorica berlusconiana del premier che, imitando Brunetta ripeteva come una litanìa come di tutto ciò che non va nel paese è colpa della sinistra e dei sindacati, lanciandosi in una appassionata difesa delle imprese.

Indicandone un modello buono a prescindere, con i padroni che vogliono bene ai loro dipendenti e che quindi devono sentirsi liberi di licenziare,  è ansioso di dimostrare a chi conta che lui può riuscire dove altri hanno fallito: ridurre a zero i diritti dei lavoratori per ampliare ulteriormente i privilegi dei datori di lavoro. Il senso della sua agenda è qui.

Di Berlusconi, con il quale Renzi governa, ha ormai assorbito l’indecente naturalezza nel raccontare bugie clamorose, di dare numeri esistenti solo nella sua propaganda, d’inventare successi mai avuti o infilare luoghi comuni banali e mai dimostrati come fossero verità rivelate. I contenuti, la prosa torrenziale e priva di contenuto, l’ignoranza dei problemi e l’assenza di cultura generale, persino le pose sono ispirate al cavaliere, così come l’abitudine di dire di aver fatto cose che ha solo annunciato e di negare le responsabilità per quanto effettivamente fatto.

Vedendo Renzi da Fazio sembrava infatti di assistere a una delle comparsate di Berlusconi davanti alle telecamere; come il suo alleato accusava la sinistra di ogni sciagura, incluse le piogge acide. E quando Fazio obiettava che non capiva perché l’incerta ripresa economica dovesse essere pagata con la soppressione certa dei diritti, il premier mai eletto non riusciva a fornire risposte di merito.

Quando parla di imprese è più marchionista di Marchionne, suo generoso mèntore (e non solo) e racconta la vicenda oscura e vergognosa della Fiat come Berlusconi raccontava del suo primo matrimonio; quando parla di sindacato ripete a memoria gli insegnamenti di Brunetta e Sacconi; quando parla di politica ripete quanto gli dice Verdini e quando parla di magistratura scimmiotta Alfano.

Particolarmente odioso ascoltarlo addossare ai sindacati e alla sinistra la precarietà del lavoro, come se le leggi che lo hanno inventato prima e trasformato in un modello poi fossero state scritte dalla CGIL e non dai suoi amici di Forza Italia. Fabio Fazio si è visto costretto a ricordagli garbatamente che lui in teoria sarebbe il segretario del partito della sinistra.

D’altra parte Renzi è un portatore sano di opinioni variabili: è quello che accusava Letta di governare con Alfano e ora lui c’ha aggiunto Berlusconi; accusava Monti e Letta di non essere stati eletti e lui non lo è mai stato, sosteneva l’intangibilità dell’articolo 18 che invece ora identifica con i mali dell’economia italiana. D’Alema sosteneva tempo addietro che la mescolanza tra la cultura socialista e cattolica voluta dagli inventori del PD era stata una pessima idea e su questo non ci piove: una fusione fredda, un esperimento di laboratorio sbagliato e dannoso, ma comunque fino a pochi mesi orsono orientato a mantenere un’idea progressista di società. Con Renzi è invece finita anche quella pallida intenzione.

Nel suo pedissequo peregrinare verso ogni posizione, purché di destra, emerge il suo fastidio istintivo non solo per il sistema di valori che ha fatto da sfondo alla storia del PCI da cui il PD comunque proviene, ma persino di quella storia della sinistra democristiana che nel PD ha inteso essere in qualche modo rappresentata. Una storia importante, che ha avuto in La Pira, Tina Anselmi, Donat Cattin, Aldo Moro, Luigi Granelli, Romano Prodi o nella stessa Rosy Bindi alcune delle personalità più rilevanti. E invece, la democristianità di Renzi é quella più destrorsa, innamorata dei tecnocrati e inginocchiata davanti a Washington; la democristianità gladiatoria e papalina, che vede nella sinistra il nemico giurato.

Renzi crede il mutamento dei rapporti politici debba produrre immediatamente quello del tessuto sociale. Qui vede la sua missione. Ritiene cioè che la crisi della sinistra debba essere confermata anche dalla rottura definitiva del patto sociale e costituzionale sui quali la società italiana si è costruita dopo la Liberazione e che la sinistra, moderata o radicale che sia, difende. Azzerare la rappresentanza politica del mondo del lavoro e le istanze di giustizia sociale ed eguaglianza non è sufficiente; si deve cancellare l’impianto giuridico e normativo che a sostenerli era stato voluto dai padri costituenti e, insieme, a quel complesso di disposizioni che tutelano i diritti del lavoro.

Perché il permanere dei diritti dei lavoratori comporta anche, in automatico, quello di una dialettica nelle relazioni industriali che pone alle imprese di fronte anche alla loro responsabilità sociale e non solo alla ricerca del massimo profitto. E garantisce la piena libertà d’impresa sì, ma all’interno di un complesso di norme che la rendono compatibile con la i diritti e la libertà di tutti gli attori della scena sociale.

Non può esserci, dunque, un doppio binario: i comportamenti illegittimi e illeciti devono essere sanzionati ovunque, aziende comprese. L’idea che il datore di lavoro sia il deux ex machina del modello produttivo, che possa permettersi tutto e il contrario di tutto senza per questo dover subire sanzioni a fronte di illeciti, è inconcepibile per quanti non hanno un’idea gerarchica e piramidale della società in spregio a qualunque idea di eguaglianza.

Renzi non è un uomo della sinistra e non è al servizio del Paese. E’ un uomo assetato di potere e dotato di una ambizione personale seconda solo all’ipertrofia del suo ego. Le sue idee, i suoi atteggiamenti, il suo modo di fare politica, la sua propaganda, sono una miscela di idee provenienti dalla destra demagogica in cui s’innesta una generale incompetenza del merito dei problemi che l’Italia ha di fronte. Incompetenza della quale è esempio recentissimo la sesquipedale sciocchezza del salario differito dato mensilmente, che provocherebbe spese insostenibili per le aziende e remissione in termini fiscali e previdenziali per i lavoratori.

La minoranza del PD può e deve votare contro in Senato e alla Camera alla porcheria del Jobs act, miscela di promesse irrealizzabili e guai facili e rapidi da realizzare. Dovrà chiedere i voti a Berlusconi se vuol applicare il programma di Berlusconi. Ogni altro ragionamento è aria fritta. Ogni altro distinguo sarebbe una moina.

di Antonio Rei

Matteo Renzi parla di "superare l'articolo 18" dello Statuto dei lavoratori, mantenendo il reintegro soltanto per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. Il Premier attribuisce al chiacchierato articolo colpe gravissime: spaventa le imprese, frena gli investimenti e quindi la ripresa, ingessa il mercato del lavoro. Molti giovani gli danno ragione, nauseati dalla discussione infinita su qualcosa che non li riguarderà mai.

Sono i precari e i disoccupati nati negli anni Ottanta e Novanta, le generazioni che la Cgil e la Cisl hanno perso per strada. Alle loro orecchie la difesa dell'articolo 18 suona come operaismo anacronistico a tutela dei pochi fortunati che godono di un contratto a tempo indeterminato. La loro rabbia è comprensibile e giusta, ma hanno torto.  

In primo luogo perché troppo spesso perdono di vista, come buona parte della classe politica, quello che nell'articolo 18 c'è scritto davvero. Purtroppo il testo non è facile da leggere, perché è lungo e scritto in legal-burocratese, lingua nemica dell'italiano e degli italiani. Ma c'è una frase chiave che non presenta alcuna difficoltà. Questa: "Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso (...)annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro".

Vale a dire che l'articolo 18 impone il reintegro dei lavoratori licenziati ingiustamente. Non è vero che in Italia non si può licenziare: non si può licenziare ingiustamente. L'azienda non può mandare a casa qualcuno dicendo di avere problemi economici se in realtà non è vero. Non può liberarsi di un lavoratore sostenendo che si è comportato male se il comportamento in questione è inventato di sana pianta. Quanto al licenziamento discriminatorio, non serve nemmeno l'articolo 18 per vietarlo: è proibito dalla Costituzione e dal Codice Civile. 

Tutto ciò implica anche l'altro lato della medaglia: le imprese possono licenziare per motivi economici se hanno davvero problemi con i conti, così come possono mandar via qualcuno per ragioni disciplinari se il lavoratore si è davvero comportato nel modo sbagliato. La realtà è già questa.

Bisogna ricordare poi che l'articolo 18 non è più un totem immodificabile ormai da qualche anno, dal momento che è stato cambiato con la riforma Fornero del 2012. In sintesi, la legge firmata dalla Professoressa stabilisce che in caso di licenziamento ingiusto per motivi disciplinari il giudice può imporre il reintegro con risarcimento oppure il pagamento di un'indennità risarcitoria; quanto ai licenziamenti ingiusti per motivi economici, il giudice può condannare l'azienda al pagamento di un'indennità in misura ridotta, ma se ritiene che il licenziamento sia "manifestamente infondato" può stabilire il reintegro.

Questa libertà di scelta non piace alle imprese, perché quasi sempre i giudici italiani scelgono il reintegro, ben sapendo che il lavoratore avrebbe difficoltà a ricollocarsi e che non merita di ritrovarsi in una posizione di così grande difficoltà, essendo stato licenziato ingiustamente.

Ed è proprio contro questa libertà di scelta che Renzi intende scagliarsi, escludendo a monte l'opzione del reintegro per i licenziamenti ingiusti per motivi economici. Ciò significa che le aziende potranno mandar via chi vorranno sapendo in partenza che, se perderanno la causa, al massimo dovranno pagare un indennizzo. "E' una riforma molto più radicale della mia", ha commentato di recente Fornero in un'intervista a Linkiesta.

E' evidente che dopo il Jobs Act, se chiunque potrà essere licenziato ingiustamente, i contratti a tempo indeterminato avranno molto meno valore. Saranno meno convincenti anche agli occhi delle banche, quando si tratterà di decidere se concedere o meno un mutuo.

Ma di panzane sull'articolo 18 Renzi ne ha detta più d'una. Il primo settembre si espresse in questi termini: "Il problema non è l’articolo 18, non lo è mai stato... Ogni anno ci sono circa 40mila casi risolti sulla base dell’articolo 18, di questi l’80% sono risolti con un accordo. Ne restano 8mila, in 4.500 il lavoratore perde totalmente, in 3.500 il lavoratore vince e in due terzi dei casi ha il reintegro. Stiamo discutendo di una cosa importantissima che riguarda 3mila persone l’anno".

E' una sciocchezza evidente. Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, su oltre 11 milioni di lavoratori dipendenti nel nostro Paese, più di sei milioni e mezzo lavorano per aziende con più di 15 dipendenti, soglia oltre la quale si applica l’articolo 18. La tutela interessa quindi il 57,6% dei dipendenti. Quanto al fatto che l'80% delle dispute si risolva ogni anno con un accordo, ciò avviene perché sullo sfondo esiste l'articolo 18. Se così non fosse, è facile prevedere che migliaia di trattative finirebbero in modo assai meno pacifico. 









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