di Antonio Rei

Uno degli obiettivi mai dichiarati ma più che evidenti di Matteo Renzi è azzerare il ruolo politico dei sindacati, ridurli a una congrega di pittoreschi buontemponi con cui si parla solo per cortesia, senza nemmeno l'idea di un dialogo. In questa miserabile verità coincidono il punto di partenza e d'arrivo delle polemiche fra il Presidente del Consiglio e i rappresentanti dei lavoratori su Jobs Act e legge di Stabilità.

Un calderone in cui lo scontro politico più rilevante è quello che da qualche giorno contrappone il Premier al segretario della Fiom, Maurizio Landini. "La modifica dell’articolo 18 preoccupa più qualche dirigente e qualche parlamentare che la nostra base", dice Renzi. "Il governo non rappresenta gli interessi dei lavoratori", replica il sindacalista. 

Di per sé, il botta e risposta non stupisce affatto. Nell'orizzonte culturale tragicamente limitato del Premier la parola "concertazione" equivale a una bestemmia che evoca il puzzo stantio dell'immobilismo passato, il primo capretto da sacrificare sull'altare del nuovo decisionismo alla fiorentina.

L'ideologia renziana prevede che a decidere sia il Capo, punto e basta. Tutto riconduce a questa unica regola fondamentale: la squadra di governo composta perlopiù yes-men (and women), ministri improvvisati il cui primo compito è essere d'accordo col boss; l'ostracismo di quella fetta di partito che - dopo aver portato i voti con cui ora il Pd è al governo - osa esprimere un punto di vista differente da quello del nuovo Padrone; lo svuotamento del potere legislativo del Parlamento, trasformato in una congrega di passacarte chiamata a votare fiducie a iosa, mettendo bocca il meno possibile.     

In un contesto del genere, che speranza possono avere i sindacati? Nessuna, è ovvio. Di qui la scena grottesca dei tre segretari confederali che si siedono a parlare della manovra con i rappresentanti del governo, per poi alzarsi e riferire attoniti che gli interlocutori "non avevano mandato a trattare". Perché il Capo aveva detto loro di andar lì a fare scena, nulla di più. Tutto ciò è assolutamente coerente con l'idea che Renzi ha del ruolo delle istituzioni.

L'unica nota stonata in questa sinfonia, altrimenti accordatissima, è proprio Landini. Quando il nuovo governo è entrato in carica sembrava che il leader dei metalmeccanici avesse un rapporto a dir poco privilegiato con il Premier. Un accenno d'intesa che però non aveva nulla a che vedere con gli interessi degli operai: Renzi teme Landini perché nella morta gora della sinistra è il solo comunicatore in grado di tenergli testa, il solo capace di raccogliere intorno a sé un consenso non trascurabile, il solo - potenziale - avversario politico. Meglio averlo come amico, no?

Il segretario della Fiom non è però l'ultimo degli sprovveduti e si sottrae al bacio della morte. Sfrutta per quanto possibile la corsia preferenziale che il capo del Governo gli riserva, ma si rende conto che dare un minimo segnale d'assenso su una delle tante assurdità contenute nella manovra e nel Jobs Act significherebbe per lui la morte politica istantanea.

"Su Renzi ho cambiato idea quando ho capito che ha scelto le politiche di Confindustria e di seguire quello che gli chiedeva l'Ue - ha detto Landini ai microfoni di In Mezz'ora -. Quando incontrai Renzi parlammo di articolo18. Lui mi disse che l'Europa premeva su di lui e io gli dissi che se avesse toccato l'articolo 18 avrebbe aperto la strada per un conflitto nel Paese. All'inizio diceva di voler cambiare Paese e io dissi 'cambiamolo insieme'". Pia illusione.

Landini assicura poi di non puntare alla politica: "Io voglio continuare a fare il sindacalista, voglio che sia chiaro che a me di fare la minoranza non me ne frega proprio nulla. Voglio rappresentare le persone. Per cambiare un Paese lo devi governare, non devi stare all’opposizione". E allora, intanto, via libera agli scioperi e alle manifestazioni "in piazza il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli" contro le politiche del governo che "non stanno andando verso più tutele, più diritti, meno precarietà, un rilancio degli investimenti - chiosa Landini - Vogliamo conquistare un confronto che Renzi ci nega".

Se il Premier non spegnerà questo incendio da lui stesso appiccato rischierà di perdere non pochi voti, considerando che un sondaggio dell’Istituto Piepoli accredita un eventuale partito Fiom attorno al 10%. Renzi lo sa, ma, per il momento, nemmeno questo basta a fargli mettere in dubbio la sua concezione del potere come esercizio solitario. "Se si arrivasse a una scissione, ma non ci si arriverà - si bulla il Capo del Governo -, la nostra gente sarebbe la prima a chiedere: che state facendo?". Non sono d'accordo con lei, Presidente. E' ancora legale.

di Fabrizio Casari

Più di un milione di lavoratori, studenti e pensionati, precari e disoccupati, hanno deciso di dare al governo Renzi il benvenuto in società. Poco importa che il premier, asserragliato tra manager e boyscout nel recinto futurista della Leopolda, dove si svolgono le prove generali del prossimo PD, affermi che “sono finiti i tempi nei quali la mobilitazione di piazza faceva cadere i governi”; è un’ennesima smargiassata tra le tante. Quando quei milioni di vittime delle sue politiche al servizio dei sogni di Confindustria si recheranno alle urne, il bulletto di Pontassieve si accorgerà cosa significa provare a governare senza e contro il mondo del lavoro.

A Roma, ieri straordinariamente colorata di rosso, ha preso residenza per una giornata quel pezzo di Paese che non indossa i completini stretch della Boschi e non dice insulsaggini come una Picierno qualunque. E’ quell’Italia che quando parla della sua esistenza sa di cosa parla, quando scende in piazza per rivendicare i suoi diritti sa riconoscere senza suggeritori chi è a favore e chi è contro. Anche quando, diversamente da ciò che è avvenuto durante gli ultimi 90 anni, il partito che dovrebbe sostenere le ragioni del mondo del lavoro s’innamora degli squali della finanza e rifiuta di ascoltare i lavoratori.

La caratteristica principale del corteo di Roma, infatti, è che per la prima volta una mobilitazione sindacale, una vera e propria manifestazione di popolo, ha come avversario dichiarato un partito di centrosinistra, che applica ricette identiche a quelle della destra che per vent’anni ha intossicato il paese. Quando il premier diventa l’oggetto di slogan e insulti da parte dei lavoratori, e quel premier è anche il segretario del partito che viene dalla storia del PCI, allora davvero si può dire che un passaggio storico si è compiuto.

Una immensa piazza rossa ed operaia, mobilitata contro Renzi con le stesse modalità con le quali si mobilitò contro i governi pentapartito prima e Berlusconi poi, racconta che alla continuità delle politiche - e persino degli atteggiamenti - corrisponde una continuità del rifiuto e delle mobilitazioni. Questo ha detto al PD il corteo immenso di oggi: le politiche di destra, chi le applichi poco importa, troveranno sempre una risposta di sinistra.

Il presidente del consiglio, come al solito copiando Berlusconi, ha ricordato come un milione in piazza sia meno dei sessanta a casa, dimenticando che i numeri non sono mai così netti in politica. Renzi, ormai diverso da Berlusconi solo per le modalità delle sue cene, non pare rendersi conto della fine prematura della sua luna di miele con il Paese e ritiene che la passione di Marchionne e Farinetti, i soldi di Serra e il plauso di Verdini siano sufficienti per governare. Una visione limitata, coerente del resto con la cultura politica dell’ex sindaco.

Se pensava però che il sindacato fosse ormai ai margini, delegittimato e isolato, in crisi di consensi e di credibilità, Renzi ha fatto male i suoi conti. Se credeva che la sua capacità di mobilitazione fosse ormai un ricordo e che lo scendere in piazza contro un governo di centrosinistra sarebbe stato difficile per molti dei suoi iscritti e simpatizzanti, ha sbagliato di grosso. E se pensa che si può governare non solo "senza", ma soprattutto "contro" il mondo del lavoro, compie l’ultimo, fatale sbaglio. Quei lavoratori che hanno riportato Roma al ruolo di città aperta, vivono, protestano contro le ingiustizie e poi votano.

Ed è qui che la questione politica emerge dirompente. La manifestazione di oggi chiede con forza una sua rappresentanza politica. C’è la necessità d’intercettare e organizzare un fiume di rabbia e impotenza che scorre lungo tutte le dorsali dell’Italia. C’è un pezzo importante del Paese che ha compreso come il lavoro abbia cessato di rappresentare il motore della società e come il fare impresa sia ormai un detto senza senso. Il lavoro è ormai un fastidioso ostacolo al processo di accumulazione basato sull’utilizzo del denaro per fare denaro, sulla pura speculazione per produrre ricchezza.

Chi ritiene invece che non la modernità ma il progresso siano l’orizzonte da puntare, che debba essere il lavoro a rappresentare il motore principale dello sviluppo socioeconomico di un modello di società progressista, era in marcia nelle strade di Roma, idealmente accompagnato da altri milioni di persone che, pur condividendo, non hanno potuto partecipare.

Un partito del lavoro è la necessaria contrapposizione al partito della nazione per il quale il presidente dl consiglio lavora alacremente. Un partito del lavoro capace di riunire le sensibilità più eterogenee tenendole insieme nella rivendicazione di una società costruita sulla dignità del lavoro, sulla sacralità dei principi costituzionali, può e deve essere la barriera giusta contro la destra, quale che sia il nome con cui si presenta. Il partito della nazione che ha in mente Renzi è un partito di centro a venature di destra nella concezione del modello sociale ed economico, appena sfrangiato da una spolveratina di diritti civili ad impatto relativo sulle sensibilità ecclesiali, peraltro ormai decisamente più disponibili con l’avvento di Papa Francesco.

Non è più tempo di indugi e di distinguo. Se si vuole riportare la dignità del lavoro nell’agenda della politica italiana, non c’è altro percorso che non quello politico. La dimensione sindacale, pur fondamentale, non è sufficiente se non c’è rappresentanza politica. Dunque per il leader della Fiom, Landini, è arrivato il momento di sciogliere i nodi e le riserve che, legittimamente, ha avuto ed ha nei confronti di una riconversione politica del suo impegno sindacale. Chiamarsi fuori dall’urgenza di offrire rappresentanza politica al lavoro, da oggi non è più possibile. “Se non ora quando?” dice uno splendido slogan delle donne che annuncia l’impossibilità di rimanere chiusi nel proprio recinto.

Le crepe e il disincanto apertosi negli iscritti ed elettori del PD, dove solo uno su cinque ha rinnovato l’iscrizione; il superamento del Rubicone politico di tanti che oggi sono scesi in piazza contro il governo guidato dal partito che hanno votato; la disponibilità ad azzerarsi delle frattaglie della sinistra antagonista a fronte di un processo aggregativo a carattere ampio, sono il capitale di partenza della nuova, improcrastinabile, impresa politica. Si possono quindi comprendere - ma non più condividere - esitazioni e timori di essere considerati alla stregua del già visto, della scorciatoia politicista, di essere accusati magari di arrivismo personale.

Ci sono momenti nei quali il bene comune deve prevalere anche sulle ragioni, pur legittime, dei singoli. Quando la richiesta di modifica della destinazione originaria viene dalle piazze, quando riceve una investitura popolare, quando raccoglie istanze declamate in ogni modo dalla società, un processo di organizzazione politico rappresenta tutt’altra cosa dalle unificazioni in laboratorio.

Landini non deve ripetere l’errore gravissimo di Cofferati. Deve assumere la leadership della sinistra italiana. Può e deve trasformare le ragioni del mondo del lavoro in un progetto politico. Tirarsi indietro sarebbe come tradire quella piazza e la storia comune. Portare la piazza di oggi dentro a un progetto politico è invece un imperativo categorico. Ci sono più di un milione di ragioni per farlo.

di Antonio Rei

Il problema non è quasi mai nel “che cosa”, ma quasi sempre nel “come”. La regola trova conferma nel nuovo bonus bebè, l’ultima mirabolante perla del premier Matteo Renzi. L’idea di base è più che condivisibile: lo Stato aiuta le famiglie con meno possibilità a sostenere le spese extra che la nascita di un figlio comporta. Sacrosanto.

Peccato che, per com’è stato concepito, il bonus rischi di trasformarsi in un folle e iniquo sperpero di denaro pubblico, buono forse per far recuperare qualche punto nei sondaggi al giovanotto in camicia bianca, magari anche per risarcire la Chiesa Cattolica di un’eventuale legge su gay e diritti civili, ma non certo per ridistribuire ricchezza e aiutare chi più avrebbe bisogno.

"Dal primo gennaio del 2015 - ha detto Renzi domenica sera - daremo gli 80 euro anche a tutte le mamme che fanno un figlio, per i primi tre anni. Si tratta del mezzo miliardo destinato alle famiglie" nella legge di Stabilità.

Che l’obiettivo sia d’immagine è confermato dalla sede in cui il Presidente del Consiglio ha scelto di annunciare l’intervento. Nonostante pochi giorni prima si trovasse a Palazzo Chigi per illustrare la legge di Stabilità davanti a una platea di giornalisti professionisti, il capo del Governo ha dato l’annuncio del bonus bebè dal salottino di Barbara D’Urso su Canale 5.

La signora, che pure si definisce “giornalista” ogni volta che può, ha passato il tempo a sorridere, ad appellare il Premier con un confidenziale “Matteo”, a farsi con lui selfie che risulterebbero imbarazzanti anche in un film per teenager. Di domande vere, ovviamente, nemmeno l’ombra. 

La signora D’Urso avrebbe potuto chiedere conto, ad esempio, della platea a cui s’intende concedere il bonus, ovvero tutte le famiglie con un reddito annuo lordo fino a 90mila euro. Una folla oceanica di persone che comprende anche parte della classe medio-alta. “E’ mai possibile, caro Matteo - avrebbe potuto dire Barbara . che in un Paese dove mancano le risorse per aiutare i poveri si trovi il modo di dare soldi a chi può permettersi due automobili?”.

Già, perché ancora una volta rimangono sullo sfondo i cosiddetti incapienti, ovvero le persone che guadagnando meno di 8mila euro l’anno, non pagano l’Irpef e perciò sono escluse dal bonus di 80 euro introdotto la scorsa primavera. A quel tempo Renzi aveva promesso che il Governo avrebbe fatto qualcosa anche per loro, ma ora che ha 500 milioni di euro da spendere decide d’includere fra i beneficiari anche gli abbienti.

Non solo. L’importo è uguale (80 euro) e al Premier fa comodo alimentare la confusione (“daremo gli 80 euro anche a tutte le mamme”), ma i soldi del bonus Irpef e quelli del bonus bebè sono due aiuti distinti e - udite e udite - addirittura cumulabili. Chi guadagna 1.500 euro netti al mese e fa un figlio intascherà un doppio sostegno da parte dello Stato. Chi invece non guadagna abbastanza per vivere, ma è abbastanza coraggioso da fare un figlio, avrà diritto solo agli 80 euro del bonus bebè. Insomma, si dà di più a chi ha di più e di meno a chi ha di meno.

“Non ritiene, Presidente, che destinare quei 500 milioni soltanto ai poveri avrebbe ridotto un po’ la crisi sociale del Paese? - avrebbe potuto chiedere Barbara -. Non pensa che sarebbe meglio intervenire per ridurre gli squilibri invece che per aumentarli?”.

Nella distribuzione delle risorse che ha a disposizione, il Governo continua a violare ogni principio di giustizia sociale e di progressività. Il bonus bebè pone un limite di reddito entro il quale non sono previste distinzioni: che si guadagnino 90mila o 10mila euro l’anno, il bonus è sempre da 80 euro.

Lo stesso difetto grava anche sul bonus Irpef, ma in quel caso il tetto di reddito lordo annuo oltre il quale non si ha più diritto al benefit è di 26mila euro. Non 90mila. L’assurdità della soglia per il bonus bebè emerge anche da confronto con la situazione attuale. Oggi il benefit legato ai figli funziona in modo diverso e sono le Regioni a stabilire il reddito-limite: nel Lazio, ad esempio, è di 20 mila euro a famiglia, mentre in Sicilia è addirittura di 5mila. Non 90mila.

Bisogna poi tenere presente il peso che la nuova misura avrà sulle casse pubbliche. Stando alle statistiche, i 500 milioni di euro saranno sufficienti per coprire il bonus bebè nel 2015. L'anno successivo, però, il conto raddoppierà, perché avranno diritto al benefit le neomamme del 2015 e del 2016. La stessa logica porterà i costi a triplicare nel 2017 fino a quota 1,5 miliardi, che dovrebbe rappresentare l'uscita costante dal 2018 in poi.

Non sono pochi soldi, soprattutto per chi imposta la legge di Stabilità quasi esclusivamente su aumento del deficit e tagli agli enti locali. Ricordiamo poi che la manovra prevede anche una mortifera clausola di salvaguardia: se non si riuscirà a raggiungere l'obiettivo di medio termine (leggi pareggio di bilancio) scatteranno aumenti automatici dell’Iva e delle altre imposte indirette per 12,4 miliardi di euro nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e ben 21,4 miliardi nel 2018. "In queste condizioni, si sentiva proprio il bisogno di regalare 80 euro a chi ogni mese ne guadagna 4mila?", avrebbe potuto chiedere Barbara. Ma la signora sapeva che Matteo era lì proprio per non rispondere.

di Fabrizio Casari

La legge di stabilità 2015 presentata dal Presidente del Consiglio è sotto la lente di Bruxelles, dopo aver già ricevuto il plauso di Confindustria e le sviolinate delle corazzate mediatiche che scrivono sottovento. Eppure, dalla lettura della bozza, anche solo focalizzandosi sui titoli, non si capisce da dove arrivi tanta soddisfazione. O, meglio, si capisce benissimo. Detto che una quota parte della manovra è a deficit, emergono diversi aspetti poco rassicuranti.

Si dirà che si deve mettere ordine nei conti. Ah sì? Beh, viene previsto il debito pubblico in aumento, al 133,4% del PIL. Ci sono 835 miliardi di spese e 786 di entrate. Vengono scaricati sulle Regioni 7 miliardi da reperire, con ovvio aumento delle tassazioni locali, per pagare lo sconto Irap di 5. Investimenti pubblici in calo, TFR in busta paga ma con quasi certo aumento dell’aliquota.

Sembra una manovra di ordinaria ingiustizia sociale in un quadro normale. Eppure il Paese è in deflazione e la disoccupazione ha assunto i livelli di un dramma nazionale. Il tessuto sociale appare slabrato e i fondamentali atipici (e positivi) dell’economia italiana, in primo luogo la sua capacità di risparmio, non riescono più a sostenere una devastazione sociale che ha incaricato il tessuto familiare di sostituirsi al welfare. In questo contesto, non si vedono proprio le scelte che “cambiano il verso”.

Non c’è nessuna politica per la crescita; in sostanza la legge di stabilità è una operazione contabile che modifica gli indirizzi dei flussi di spesa, lasciando invariato il saldo e, con esso, sia le dottrine di Tremonti sui tagli lineari per i ministeri (di per se stessi allucinanti), sia altre follie, tra le quali l’aumento delle spese militari (l'acquisto degli inutili F35, ad esempio, pur se distribuito in 5 anni è un importo pari alla manovra nel suo complesso). Non vengono previsti ulteriori aumenti alle cifre necessarie per il sistema di tutele universali - il welfare - né vengono immaginate forme di ampliamento delle forme di sussidio, a partire da quello di disoccupazione.

Non viene cancellato il blocco delle assunzioni nella PP. AA. e le misure di riduzione del precariato, per quanto utili, risultano del tutto insufficienti. Meno che mai vengono ipotizzate misure come il reddito di cittadinanza, che pure nel resto d’Europa - le si chiami come si vuole - ci sono. Non ci sono operazioni urgenti, prima ancora che giuste, come quella dell’eliminazione degli enti inutili. E non c’è nessuna notizia sull’utilizzo dei 44 miliardi di Euro dei fondi strutturali europei da quest’anno fino al 2020.

In compenso viene confermato il bonus degli 80 Euro per chi però ha già comunque un reddito. Gli 80 Euro arrivano ad alcuni e lasciano completamente all’asciutto chi quel reddito nemmeno se lo sogna. Invece di affrontare a muso duro le sacche di povertà autentiche e la disoccupazione crescente, si aggiunge un rinforzino limitato ad un area comunque occupata.

La stortura dell’iniziativa appare duplice: in molti casi i redditi su cui arrivano sono due nella stessa famiglia e creano quindi un ultra bonus che lascia il sapore di un privilegio in confronto a chi non riceve niente; al contrario, in altri casi, producendosi una modifica dell’aliquota che risulta penalizzante a consuntivo, si peggiora la situazione del saldo.

Infatti si dovrebbe valutare compiutamente quanto la misura sia effettivamente a sostegno; in molti casi, si è verificato come una volta che l’inserimento degli 80 Euro viene misurato nelle modifiche delle aliquote sul reddito che inevitabilmente produce, vanifica, con il maggior prelievo fiscale, il contributo netto ricevuto.

Ma fatto salvo il banalissimo concetto per cui avere più soldi sia comunque un bene, va poi sottolineato come un provvedimento di questo tipo riguarda solo una parte delle famiglie e, comunque, proprio per la sua estemporaneità, non contribuisce in nessuna misura - come già è stato verificato fino ad ora - all’aumento dei consumi.

Risulta in sostanza un provvedimento propagandistico, inutile ai fini della ripartenza dell’economia interna e del suo ciclo virtuoso di produzione, distribuzione e consumo, mentre acuisce le differenze tra garantiti e non garantiti, come avrebbe detto Asor Rosa, in un paese con il 52 % di disoccupazione giovanile.

Ma è l’intervento sulla riduzione dell’Irap per 5 miliardi di Euro che lascia sconcertati. Invece di investire quel denaro nella riduzione del cuneo fiscale, stimolando con ciò la possibilità per le aziende di ridurre i costi per gli assunti e mettendo davvero nelle tasche dei lavoratori un aumento non sporadico, s’interviene sulla tassa sulle imprese senza vincolare l’investimento all’effettiva assunzione di personale.

Dunque si rendono felici le aziende che si vedono abbattere l’Irap ma senza che esse si sentano minimamente obbligate ad assumere. Ha tenuto a specificarlo il Presidente di Confindustria, a scanso di equivoci, rispondendo all’annunciatore che gli diceva “ora non avete alibi, assumete”.

Insomma siamo di nuovo all’epoca dei finanziamenti a pioggia per le imprese che un tempo, invece d’investirli nell’innovazione di prodotto e in nuove imprese, li portavano all’estero o li utilizzavano per le riconversioni in chiave finanziaria della loro dimensione industriale. Invece di una patrimoniale, da diversi economisti considerata inevitabile, si continua a versare l’obolo, magari sotto la slide del brand italiano. Trattasi di una regalìa, non di una politica industriale.

E non a caso Squinzi, che di una politica industriale vera ha timore, ha detto che “Renzi realizza i miei sogni”. Che sono quelli di un padrone che vorrebbe incassare e non pagare, come è naturale che sia in una imprenditoria ad alta voracità e a dimostrata incapacità. L’imprenditoria italiana, priva di idee e capitali, vede nella riduzione del costo del lavoro e delle imposte la sua unica possibilità di realizzare margini operativi. Si conferma così essere del tutto priva dei connotati di responsabilità sociale, che pure la Costituzione prevede e che i governi dovrebbero ricordargli, a maggior ragione in una fase come questa.

La sola riduzione dell’Irap sarebbe comunque stata accettabile se fosse stata prevista a consuntivo per quelle aziende che avessero assunto a tempo indeterminato. Qui sì le “tutele crescenti” avrebbero trovato una applicazione positiva. Ma l’autonomia personale e politica di Renzi dalla finanza è decisamente limitata e pensare che l’annunciatore seriale possa in qualche modo svolgere un ruolo di governo nei confronti delle pulsioni ancestrali del padronato sarebbe ingenuo, un non sense.

Ma il peggio è sul versante del risparmio necessario alla regalìa. Scaricare sulle spalle del sistema degli Enti Locali il peso dell’ennesimo regalo al padronato è opera di folle vigliaccheria. La riduzione di sette miliardi nei trasferimenti dallo Stato alle Regioni è il colpo di grazia e pone in forse persino i livelli minimi delle prestazioni sanitarie e la loro applicabilità omogenea sul territorio.

Renzi, con un trucco ereditato dal suo socio di Arcore (e dal quale ha imparato a far finta di stare all’opposizione mentre governa), scarica in basso l’inevitabile aumento delle tasse, accollando agli Enti Locali le nuove imposte mentre va in tv con le slide dei cretini del bullet-point a raccontare che il governo non aumenta le tasse. Alle proteste delle Regioni ha risposto, con la classe che lo contraddistingue, di ridurre gli sprechi, dimenticandosi che pochi mesi fa, da sindaco di Firenze, diceva l’opposto.

Inutile sperare in un soprassalto di valori da parte dei deputati del PD, tutti impegnati a garantirsi uno strapuntino sicuro nel futuro incerto. Ma l’amarezza resta e l’auspicio unico è che il 25 Ottobre la Cgil e la Fiom riempiano le piazze per dimostrare che c’è ancora un Paese che vede e che parla, che grida persino. Perché che la politica attraversi una crisi profonda di uomini e idee, di credibilità e progetti, è risaputo; ma che dopo l’illusione gravosa del cavaliere nero si sia passati a quella del bullo in camicia bianca fa pensare che gli italiani davvero si meritino quest’Italia.

di Antonio Rei

Tanti numeri, ma nessuna direzione chiara, se non quella scelta per il moribondo articolo 18. Il Presidente del Consiglio ha annunciato ieri durante l'incontro con i sindacati che la prossima legge di Stabilità conterrà una manovra da 23-24 miliardi. Di questi, sette serviranno a stabilizzare il bonus Irpef da 80 euro e uno ad allentare il patto di stabilità dei Comuni.

Le spese indifferibili come le missioni peseranno per quattro miliardi, mentre l'assunzione dei precari della scuola richiederà un miliardo e mezzo e la proroga al 2015 dell'ecobonus al 65% non dovrebbe costare più di 600 milioni. Agli ammortizzatori sociali sarà concesso un altro miliardo e mezzo, mentre resta da definire l'impatto di un eventuale primo intervento per anticipare il Tfr in busta paga.

Su questi due ultimi punti si misura tutta la vacuità e la miopia del programma economico renziano, oltre al talento dimostrato ancora una volta dal Premier nel prendere in giro gli italiani mentre finge di salvarli.

Come altro si può definire, se non come una canzonatura, quel miliardino e mezzo destinato agli ammortizzatori sociali? Non è nemmeno poco, è una somma ridicola. Per avere un termine di paragone è sufficiente dare un'occhiata all’ultimo Bilancio sociale Inps:?su una spesa di 22,7 miliardi versata nel 2012 per cassa integrazione, disoccupazione e mobilità, la percentuale coperta da imprese e lavoratori è stata del 37,5% (8,5 miliardi), mentre il resto (62,3 %, pari a 14,3 miliardi) è stato a carico dello Stato.

Una vera riforma degli ammortizzatori sociali richiederebbe quindi all'incirca dieci volte la somma stanziata dal governo. Non si può fare, perché i soldi non ci sono, a meno di non sforare il beneamato tetto del 3% imposto dal trattato di Maastricht per il rapporto deficit-Pil. E noi non abbiamo alcuna intenzione di fare i cattivi bambini come i francesi: "Non ci tratti da studentelli", dice Renzi alla cancelliera Merkel, ma poi ubbidisce alla maestra e fa tutti i compiti a casa che gli vengono assegnati.

Veniamo ora al capitolo Tfr e chiariamo subito che con questa follia il Tesoro non c'entra. Anzi, i tecnici di Padoan - in prima battuta - hanno rigettato esplicitamente la paternità dell'iniziativa. L’idea è di anticipare nelle buste paga dei dipendenti del settore privato, a partire dal 2015, il Trattamento di fine rapporto (per intero o in parte). I lavoratori potrebbero scegliere se accettare o meno e l'anticipo avverrebbe grazie alla mediazione delle banche, che si sostituirebbero ai dipendenti nel ruolo di creditori delle imprese o dell'Inps.

Da parte loro, le aziende e l'Istituto nazionale di previdenza continuerebbero a versare gli importi dovuti al termine dei rapporti di lavoro, come hanno sempre fatto, solo che darebbero quei soldi agli istituti di credito e non più ai lavoratori, che li avrebbero già incassati.

Con questo passaggio si eviterebbe di affossare i bilanci dell'Inps (che gestisce un fondo del Tesoro in cui le aziende con più di 50 dipendenti parcheggiano i Tfr lasciati in azienda dai dipendenti) e delle Pmi con meno di 50 dipendenti (che tengono in cassa i fondi dei Tfr). Non è chiarissimo cosa ci guadagnino le banche, perché pensare che lo facciano per amor di patria è assai complesso.

L'altro grande problema è fiscale. Ad oggi il Tfr gode di una tassazione privilegiata e il suo spostamento in busta paga rischia di aumentare il reddito, alzando così l'aliquota marginale Irpef. Risultato: su quei soldi, che sono già nostri, pagheremmo più tasse. Per evitare uno smacco simile a danno dei lavoratori il governo potrebbe scegliere la strada della ritenuta alla fonte o della tassazione separata rispetto allo stipendio, magari corrispondendo il Tfr in una sola busta paga l'anno.

Se anche tutte queste difficoltà tecniche fossero superate, tuttavia, rimarrebbe comunque un problema di prospettiva. Il Tfr può già essere anticipato al lavoratore, ma solo per l’acquisto della prima casa o per sostenere spese mediche. Insomma, la motivazione deve essere seria, altrimenti quei soldi non si toccano, sono una forma di risparmio forzato che servirà in futuro, quando il rapporto fra popolazione attiva e pensionati sarà più svantaggioso e il sistema previdenziale ancora meno sostenibile.

Anticipare il Tfr vuol dire trasferire il reddito futuro nel presente, scaricando il costo dei consumi di oggi sulle spalle delle future generazioni. Una specialità in cui l'Italia è campione del mondo. E dire che dovevamo cambiare verso.  


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