di Fabrizio Casari

Più di un milione di lavoratori, studenti e pensionati, precari e disoccupati, hanno deciso di dare al governo Renzi il benvenuto in società. Poco importa che il premier, asserragliato tra manager e boyscout nel recinto futurista della Leopolda, dove si svolgono le prove generali del prossimo PD, affermi che “sono finiti i tempi nei quali la mobilitazione di piazza faceva cadere i governi”; è un’ennesima smargiassata tra le tante. Quando quei milioni di vittime delle sue politiche al servizio dei sogni di Confindustria si recheranno alle urne, il bulletto di Pontassieve si accorgerà cosa significa provare a governare senza e contro il mondo del lavoro.

A Roma, ieri straordinariamente colorata di rosso, ha preso residenza per una giornata quel pezzo di Paese che non indossa i completini stretch della Boschi e non dice insulsaggini come una Picierno qualunque. E’ quell’Italia che quando parla della sua esistenza sa di cosa parla, quando scende in piazza per rivendicare i suoi diritti sa riconoscere senza suggeritori chi è a favore e chi è contro. Anche quando, diversamente da ciò che è avvenuto durante gli ultimi 90 anni, il partito che dovrebbe sostenere le ragioni del mondo del lavoro s’innamora degli squali della finanza e rifiuta di ascoltare i lavoratori.

La caratteristica principale del corteo di Roma, infatti, è che per la prima volta una mobilitazione sindacale, una vera e propria manifestazione di popolo, ha come avversario dichiarato un partito di centrosinistra, che applica ricette identiche a quelle della destra che per vent’anni ha intossicato il paese. Quando il premier diventa l’oggetto di slogan e insulti da parte dei lavoratori, e quel premier è anche il segretario del partito che viene dalla storia del PCI, allora davvero si può dire che un passaggio storico si è compiuto.

Una immensa piazza rossa ed operaia, mobilitata contro Renzi con le stesse modalità con le quali si mobilitò contro i governi pentapartito prima e Berlusconi poi, racconta che alla continuità delle politiche - e persino degli atteggiamenti - corrisponde una continuità del rifiuto e delle mobilitazioni. Questo ha detto al PD il corteo immenso di oggi: le politiche di destra, chi le applichi poco importa, troveranno sempre una risposta di sinistra.

Il presidente del consiglio, come al solito copiando Berlusconi, ha ricordato come un milione in piazza sia meno dei sessanta a casa, dimenticando che i numeri non sono mai così netti in politica. Renzi, ormai diverso da Berlusconi solo per le modalità delle sue cene, non pare rendersi conto della fine prematura della sua luna di miele con il Paese e ritiene che la passione di Marchionne e Farinetti, i soldi di Serra e il plauso di Verdini siano sufficienti per governare. Una visione limitata, coerente del resto con la cultura politica dell’ex sindaco.

Se pensava però che il sindacato fosse ormai ai margini, delegittimato e isolato, in crisi di consensi e di credibilità, Renzi ha fatto male i suoi conti. Se credeva che la sua capacità di mobilitazione fosse ormai un ricordo e che lo scendere in piazza contro un governo di centrosinistra sarebbe stato difficile per molti dei suoi iscritti e simpatizzanti, ha sbagliato di grosso. E se pensa che si può governare non solo "senza", ma soprattutto "contro" il mondo del lavoro, compie l’ultimo, fatale sbaglio. Quei lavoratori che hanno riportato Roma al ruolo di città aperta, vivono, protestano contro le ingiustizie e poi votano.

Ed è qui che la questione politica emerge dirompente. La manifestazione di oggi chiede con forza una sua rappresentanza politica. C’è la necessità d’intercettare e organizzare un fiume di rabbia e impotenza che scorre lungo tutte le dorsali dell’Italia. C’è un pezzo importante del Paese che ha compreso come il lavoro abbia cessato di rappresentare il motore della società e come il fare impresa sia ormai un detto senza senso. Il lavoro è ormai un fastidioso ostacolo al processo di accumulazione basato sull’utilizzo del denaro per fare denaro, sulla pura speculazione per produrre ricchezza.

Chi ritiene invece che non la modernità ma il progresso siano l’orizzonte da puntare, che debba essere il lavoro a rappresentare il motore principale dello sviluppo socioeconomico di un modello di società progressista, era in marcia nelle strade di Roma, idealmente accompagnato da altri milioni di persone che, pur condividendo, non hanno potuto partecipare.

Un partito del lavoro è la necessaria contrapposizione al partito della nazione per il quale il presidente dl consiglio lavora alacremente. Un partito del lavoro capace di riunire le sensibilità più eterogenee tenendole insieme nella rivendicazione di una società costruita sulla dignità del lavoro, sulla sacralità dei principi costituzionali, può e deve essere la barriera giusta contro la destra, quale che sia il nome con cui si presenta. Il partito della nazione che ha in mente Renzi è un partito di centro a venature di destra nella concezione del modello sociale ed economico, appena sfrangiato da una spolveratina di diritti civili ad impatto relativo sulle sensibilità ecclesiali, peraltro ormai decisamente più disponibili con l’avvento di Papa Francesco.

Non è più tempo di indugi e di distinguo. Se si vuole riportare la dignità del lavoro nell’agenda della politica italiana, non c’è altro percorso che non quello politico. La dimensione sindacale, pur fondamentale, non è sufficiente se non c’è rappresentanza politica. Dunque per il leader della Fiom, Landini, è arrivato il momento di sciogliere i nodi e le riserve che, legittimamente, ha avuto ed ha nei confronti di una riconversione politica del suo impegno sindacale. Chiamarsi fuori dall’urgenza di offrire rappresentanza politica al lavoro, da oggi non è più possibile. “Se non ora quando?” dice uno splendido slogan delle donne che annuncia l’impossibilità di rimanere chiusi nel proprio recinto.

Le crepe e il disincanto apertosi negli iscritti ed elettori del PD, dove solo uno su cinque ha rinnovato l’iscrizione; il superamento del Rubicone politico di tanti che oggi sono scesi in piazza contro il governo guidato dal partito che hanno votato; la disponibilità ad azzerarsi delle frattaglie della sinistra antagonista a fronte di un processo aggregativo a carattere ampio, sono il capitale di partenza della nuova, improcrastinabile, impresa politica. Si possono quindi comprendere - ma non più condividere - esitazioni e timori di essere considerati alla stregua del già visto, della scorciatoia politicista, di essere accusati magari di arrivismo personale.

Ci sono momenti nei quali il bene comune deve prevalere anche sulle ragioni, pur legittime, dei singoli. Quando la richiesta di modifica della destinazione originaria viene dalle piazze, quando riceve una investitura popolare, quando raccoglie istanze declamate in ogni modo dalla società, un processo di organizzazione politico rappresenta tutt’altra cosa dalle unificazioni in laboratorio.

Landini non deve ripetere l’errore gravissimo di Cofferati. Deve assumere la leadership della sinistra italiana. Può e deve trasformare le ragioni del mondo del lavoro in un progetto politico. Tirarsi indietro sarebbe come tradire quella piazza e la storia comune. Portare la piazza di oggi dentro a un progetto politico è invece un imperativo categorico. Ci sono più di un milione di ragioni per farlo.

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