di Antonio Rei

Dopo lo spettacolo di Ventimiglia è difficile credere ancora in un progetto politico unitario per l'Europa. Il mancato accordo sulla proposta della commissione Juncker, che prevede la redistribuzione continentale dei richiedenti asilo, è già un fatto grave, ma ha perlomeno un peso politico generale e si può credere che le parti abbiano bisogno di tempo per ragionare sui dettagli.

Vedere però i gendarmi e i poliziotti francesi che bloccano il confine e caricano la folla per impedire il passaggio a poche decine di perone disperate smonta questa illusione. E non per l'impatto emotivo prodotto da quelle immagini, capaci di generare a loro volta una forma di populismo uguale e contraria a quella cavalcata da leghisti o lepenisti.

Si tratta di piuttosto dell'ennesima dimostrazione di un fenomeno paneuropeo. Per non perdere consenso e voti, diversi Paesi centrali dell'Ue, fra cui la Francia, non esitano a rinnegare la forma di solidarietà più elementare, quella dovuta a un essere umano che cerca di sopravvivere. Non devono fare nemmeno lo sforzo di superare uno scrupolo morale, assumendosi la responsabilità di decidere della vita o della morte di chi chiede aiuto. All'Europa lontana dalle coste africane basta girare la testa e scaricare il barile.

Quello dei migranti dalla Libia è un problema italiano per ragioni geografiche e in pochi sono disposti a condividerlo. Fra tutti i membri dell'Unione (con la poco rilevante eccezione di Malta) il nostro Paese è l'unico a non potersi concedere il lusso dell'ignavia, perché solo nel nostro caso l'indifferenza sarebbe causa diretta di stragi a ripetizione. Tanto è vero che la Germania non ha esitato a sospendere Schengen, mentre l’Austria - interpretando in chiave egoistica il Regolamento Dublino II, che obbliga i profughi a rimanere nel Paese in cui sbarcano - ci rispedisce i migranti arrivati dall'Italia, ma evita accuratamente di fermare quelli che dal suo territorio cercano di varcare il nostro confine. 

"Nei prossimi giorni - ha detto il premier Matteo Renzi al Corriere della Sera - ci giochiamo molto dell'identità europea e la nostra voce si farà sentire forte perché è la voce di un Paese fondatore. Se il consiglio europeo sceglierà la solidarietà, bene. Se non lo farà, abbiamo pronto il piano B. Ma sarebbe una ferita innanzitutto per l'Europa. Vogliamo lavorare fino all'ultimo per dare una risposta europea. Per questo vedrò nei prossimi giorni Hollande e Cameron e riparlerò con Juncker e Merkel. In Europa va cambiato il principio sancito da Dublino II e votato convintamente da chi oggi protesta contro il nostro governo".

Per il momento, il Presidente del Consiglio deve fare i conti con l'ultima bozza del documento preparatorio del Consiglio europeo in agenda per il prossimo 26 giugno. Il testo incentiva gli Stati a rimpatriare subito i migranti economici illegali, anche grazie a una non meglio precisata "mobilitazione di tutti gli strumenti possibili", ma non spende nemmeno una parola sulla questione più urgente, ovvero il protocollo da adottare nei confronti dei profughi che hanno i requisiti per ottenere l'asilo politico.

L'obiettivo principale è portare la quota dei rimpatri oltre il 39,9% registrato nel 2013 attraverso un potenziamento di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere (che ha il suo quartier generale a Varsavia, anziché in Sicilia...). Le altre misure previste comprendono anche la "velocizzazione dei negoziati con i paesi terzi (non solo quelli in rima linea); lo sviluppo di regole nel quadro della Convenzione di Cotonou; il monitoraggio dell’attuazione degli Stati della direttiva sui rientri".

Non si parla invece dei 40 mila eritrei e siriani (24 mila dall’Italia e 16 mila dalla Grecia) che secondo quanto stabilito il 27 maggio scorso dalla Commissione Juncker dovrebbero essere spartiti fra gli Stati Ue. Quello che l'Esecutivo europeo vuole imporre è un obbligo e sembra che sia proprio questo aspetto a incontrare l'ostilità della maggior parte dei Paesi - in primo luogo la Spagna -, che vorrebbero accogliere i profughi su base volontaria, evitando così di creare un precedente che in futuro potrebbe rivelarsi pericoloso.

Francia e Germania - secondo alcune fonti europee - sarebbero disposte ad accettare temporaneamente i profughi ad una condizione: che Italia e Grecia s'impegnino a fare un lavoro migliore in termini di fotosegnalazioni e raccolta d'impronte digitali dei profughi, così da ridurre i casi in cui è difficile ricostruire il luogo di sbarco. Un dettaglio che la dice lunga su quanto Parigi e Berlino siano disponibili a cambiare le regole attuali.

di Antonio Rei

"Qualcosa non ha funzionato". Sembra esordire bene Matteo Renzi quando sabato, durante un'intervista fiume con Ezio Mauro, inizia a parlare della riforma della scuola. Peccato che si tratti solo di quella grottesca figura retorica tanto cara al nostro Premier: la finta ammissione di colpa (un po' gigiona) che solitamente precede il colpo di frusta dirigista.

"Il colpevole sono io, riaprirò la discussione", dice il Presidente del Consiglio riferendosi alla gigantesca opposizione sindacale e sociale che si è sollevata contro la legge Renzi-Giannini. Subito dopo, però, si concede una di quelle esilaranti gag che lasciano intendere chiaramente quali siano le sue reali intenzioni di dialogo: "Non è possibile... Assumiamo 100mila persone - sottolinea -, mettiamo un miliardo in più e li abbiamo fatti arrabbiare. Io non cerco alibi, cerco soluzioni. Se è così è colpa mia. Ho fatto un capolavoro a far arrabbiare tutti...".

Come a dire: io cerco di cambiare le cose e questi comunisti ammuffiti non capiscono che sto facendo loro del bene. E' sempre questo il sottotesto ipocrita alle parole del Premier, abilissimo a non citare neanche per sbaglio i veri punti centrali della riforma e gli aspetti su cui si concentra la contestazione generale.

Di sicuro non si tratta delle assunzioni, anche perché quelle, vale la pena di ripeterlo fino alla noia, sono l'unico punto del disegno di legge che non è stato scritto dall'attuale Governo. A imporle è una sentenza della Corte europea, che lo scorso 26 novembre si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente abbia diritto all'assunzione. Sotto questo profilo, quando l'Esecutivo ci ha messo del suo è stato solo per ridurre di un terzo il numero degli insegnanti da stabilizzare: inizialmente Renzi aveva promesso l'assunzione di 148mila lavoratori, numero che si è poi misteriosamente ridotto a 100mila.

Com'è ovvio, il problema della Buona Scuola non è neanche nei soldi stanziati per l'edilizia scolastica (anche se ancora non è chiaro quanti siano davvero e, soprattutto, da dove arrivino). Casomai, a voler parlare di denari, uno degli abomini previsti dalla riforma è il bonus fiscale stanziato per chi intende mandare i figli, fino alla terza media, in una scuola parificata (leggi cattolica), tanto più assurdo perché non è limitato da alcun tetto di reddito: spetterà anche ai figli di notai e chirurghi.

"Le priorità sono due: risorse per l'edilizia e stop alle classi pollaio", dice il Premier, ma non è così. Il vero cuore della riforma è la definitiva aziendalizzazione della scuola pubblica italiana alla luce del modello anglosassone, dove l'istruzione è un business, gli alunni sono clienti e gli insegnanti nulla più che impiegati aziendali chiamati a soddisfare l'utenza.

Questa prospettiva si realizza con la figura del super-preside, il top manager a cui sarà affidato il potere di scegliere i docenti e i collaboratori, assegnando incarichi e supplenze anche senza specifica abilitazione. Non ci vuole Sherlock Holmes per prevedere che una norma simile si trasformerà in un incentivo agli accordi sottobanco, una novità di cui forse non avevamo bisogno, essendo già il Paese con il tasso di corruzione più alto d'Europa.

Eppure, le cose stanno così: chiunque penserà che il preside possa chiedere  tangenti, appoggi politici o favori sessuali in cambio di un poso di lavoro nella propria scuola commetterà sicuramente peccato, ma, parafrasando Andreotti, in molti casi indovinerà.


"Rimetteremo mano al testo - ha chiosato Renzi -, ma non cederemo a chi si crede intoccabile. Io non faccio tutto bene, ci metteremo una settimana in più, ascolteremo tutte le voci e ci arriveremo". Anche questo è ormai un classico della retorica renziana, una variazione sul tema del "si discute con tutti ma poi si decide", con il sottinteso "e alla fine si fa come dico io". Peccato per il Pd che anche studenti (maggiorenni) e insegnanti abbiano diritto di voto. E che dovrebbero essere un pilastro del corpo elettorale di sinistra.

di Antonio Rei

Più che del Partito democratico, le ultime elezioni regionali sono state la sconfitta di Matteo Renzi. Il Premier-segretario, tanto per cambiare, si bulla, sostenendo che il 5-2 sia comunque un risultato positivo per il centrosinistra, perché conferma i rapporti numerici precedenti. Ma non è così. E' vero che il Pd ha guadagnato per il rotto della cuffia la Campania - dove Caldoro si era presentato con una squadra ancora più improponibile di quella messa insieme da De Luca - ma ha lasciato per strada un'altra roccaforte storica, la Liguria.

A ben vedere, il partito di governo è stato battuto soltanto nelle Regioni in cui correvano candidati imposti da Renzi (Paita e Moretti), mentre ha vinto laddove erano in lizza nomi che con il segretario non avevano nulla a che vedere (Rossi, Marini, Emiliano e Ceriscioli, oltre al buon De Luca). Le due débacle hanno però un peso specifico molto diverso.

La sconfitta della Moretti era più che attesa: impensabile trovare il modo di rubare al sovrano gelatinato Luca Zaia le chiavi del regno veneto. A impressionare sono però le proporzioni della disfatta.

Era lecito aspettarsi un distacco di quattro, forse di cinque punti percentuali; invece la renziana dell'ultima ora (già, perché fino alle ultime politiche era la portavoce di Pier Luigi Bersani) è stata più che doppiata dall'avversario leghista: addirittura 50,08 a 22,74%. Con una differenza del genere non si può nemmeno dire di aver perso, perché di fatto la partita non si è giocata, è stata assegnata a tavolino.

A livello politico, in ogni caso, l'importanza maggiore è da attribuire al caso ligure. Con il suo 27,84%, Raffaella Paita, preferita a Sergio Cofferati dopo le solite primarie sporcate dal sospetto dei brogli, è arrivata più vicina alla terza classificata (la grillina Alice Salvatore, che ha preso il 24,84%), piuttosto che al berlusconiano di ferro Giovanni Toti, che ha trionfato con il 34,44% delle preferenze.

Sono bastate due sortite del Cavaliere in riviera per strappare al Pd una regione storicamente rossa, e questo la dice lunga sull'adeguatezza della candidatura imposta con ottusa presunzione da Renzi. E' infatti assolutamente ridicolo sostenere che la débacle ligure sia colpa dello scisma di Pippo Civati a sinistra o dal ricompattamento a destra di Forza Italia con Ncd, che ha sostenuto Toti.

Per quanto pittoreschi risultino i due fenomeni, in nessuna dimensione spazio-temporale la loro somma ha la potenza di fuoco di spostare quasi il 7% dei voti. E sostenere una tesi del genere, come non ha mancato di fare l'ineffabile Debora Serracchiani (un'altra delle banderuole neorenziane), vuol dire avere più fantasia del fratelli Grimm o essere semplicemente (e goffamente) in malafede.

La verità è soltanto che gli elettori liguri conoscono lo scempio che in tanti anni Claudio Burlando ha fatto della loro regione, e si sono rifiutati di dare la presidenza della giunta alla sua diretta emanazione. Hanno detto no al candidato vicino a Renzi, che ancora una volta si è rivelato un rottamatore soltanto a chiacchiere.

Non solo. La sconfitta del Pd renziano in Liguria, ancor più di quella in Veneto, è spia di un fenomeno ormai attivo su scala nazionale e di cui il Premier farebbe bene a prendere atto quanto prima. Il principio di fondo, in verità, dovrebbe essere intuitivo: se fai la guerra a tutte le categorie sociali che ti dovrebbero votare, nelle urne non potrai che essere punito.

il dato saliente è che il PD ha perso più di 2 milioni di voti. Che Renzi affermi oggi che la sconfitta non lo riguardi perchè non si votava per il governo segnala solo la furberia reiterata, visto che nemmeno alle europee si votava per il governo ma il premier sìintestò personalmente l'affermazione del PD al 40,8%. Dunque se si vince vince lui, se si perde perdono gli altri.

Il 40% ottenuto dal Pd alle europee dell'anno scorso è ormai solo un pallido ricordo. Da allora, con provvedimenti ottusi e atteggiamenti di rara arroganza, Renzi è riuscito a mettersi contro una quantità record di categorie sociali: dagli imprenditori della vecchia guardia (quelli del "capitalismo di relazione") agli operai, dai sindacati ai pensionati, dagli insegnanti agli studenti, passando per i lavoratori della pubblica amministrazione e diversi tipi di professionisti.

Pensare di conservare il 40% dei voti in condizioni del genere vuol dire essere accecati da un preoccupante delirio di onnipotenza. Oppure immaginare che in Italia abbia diritto di voto soltanto Sergio Marchionne.

di Antonio Rei

La scuola retorica renziana, ancor più d quella berlusconiana, rende i suoi adepti dei veri maestri nell'arte di rigirare la frittata. Lo dimostrano le ultime parole di Maria Elena Boschi sulla Buona Scuola, quanto mai acrobatiche. Secondo il ministro delle Riforme, il disegno di legge presentato dal Governo "non è un prendere o lasciare", ma "è inaccettabile lasciare le cose come sono", perché "la scuola in mano solo ai sindacati non funziona".

Iniziamo dalla prima affermazione. In effetti, per una volta stiamo parlando di un Ddl (non di un decreto) su cui l'Esecutivo non intende porre la fiducia. Ciò in teoria significa che - al contrario di quanto è avvenuto con l'Italicum - almeno questo testo potrà essere discusso e modificato dalle Camere senza ricatti e forzature da parte del Governo.

Insomma, al Parlamento viene concessa una sorta di ricreazione durante la quale potrà tornare a esercitare liberamente il potere legislativo. E' questo che il ministro intende quando sottolinea che non si tratta di "un prendere o lasciare". Ma siamo sicuri che sia così? Non proprio, vediamo perché.

La misura più attesa fra quelle contenute nella Buona Scuola è l'assunzione di 100mila precari (inizialmente il premier Matteo Renzi aveva promesso la stabilizzazione di 148mila lavoratori, numero che si è poi misteriosamente ridotto di un terzo). E' bene ricordare che non siamo di fronte a uno slancio di pudore nei confronti di una delle categorie di dipendenti statali più bistrattate: a imporre queste assunzioni è l'Ue.

Lo scorso 26 novembre, infatti, la Corte europea si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente abbia diritto all'assunzione. E' quindi ovvio che le stabilizzazioni debbano avvenire quanto prima, per non incorrere nell'ira di Bruxelles.

Questa sarebbe stata certamente una ragione di "necessità e urgenza" che - Costituzione alla mano - avrebbe giustificato il ricorso a un decreto legge, strumento di cui il Governo si è già avvalso ampiamente e senza alcun motivo (si pensi alla riforma delle banche popolari). L'Esecutivo ha però scelto d'inserire le assunzioni nella legge complessiva sulla scuola e in questo modo ha messo indirettamente pressione sul Parlamento.

Se infatti il Ddl non sarà approvato in tempi brevi, risulterà impossibile siglare i nuovi contratti in tempo per l'inizio del prossimo anno scolastico. Chiunque si opporrà in Aula alla riforma, perciò, correrà il rischio di presentarsi agli occhi degli elettori e dell'Europa come il responsabile di 100mila assunzioni mancate. Vale a dire, "non è un prendere o lasciare", ma vi conviene "prendere", perché "lasciare" può rivelarsi un suicidio politico.

Passiamo ora alla seconda affermazione della Boschi ("è inaccettabile lasciare le cose come sono"). In questo caso siamo di fronte a un vero e proprio cavallo di battaglia. Come sempre, il compito numero uno del ministro delle Riforme è difendere il dirigismo del Capo presentandolo come l'unica possibilità di cambiamento.

E siccome nel vocabolario di questo Esecutivo il verbo "cambiare" è sinonimo di "migliorare", chiunque osi manifestare dissenso è un laido conservatore della Prima Repubblica, un reazionario che zavorra il Paese.

Il sillogismo, ingannevole quanto efficace, è lo stesso per ogni riforma: il rinnovamento è sempre benefico; Renzi è l'unica possibilità di rinnovamento; chi si oppone a Renzi va contro l'interesse dell'Italia. E non abbiamo dubbi che - dopo aver giocato la carta delle assunzioni per imporre la volontà del Governo al Parlamento - la Boschi prima o poi ci ripeterà per l'ennesima volta che "si discute con tutti ma alla fine si decide".

Quanto alla storia della "scuola in mano ai sindacati", sono parole che rivelano un'ostilità a priori nei confronti di chi rappresenta i lavoratori e che sarebbe lecito aspettarsi da un ministro di destra. In tema d'istruzione i sindacati hanno molte responsabilità, anche gravi, ma lasciare intendere che oggi la scuola sia in mano a loro vuol dire non avere la minima idea di quali umiliazioni sia costretto a sopportare un insegnante precario. Oppure, più semplicemente, vuol dire parlare di Buona Scuola in mala fede.

di Fabrizio Casari

Con l'approvazione dell’Italicum da parte del Senato, si chiude l’iter legislativo per l’approvazione di un mostro tentacolare, che in un colpo chiude con il Senato elettivo e con parte della rappresentanza popolare della Camera dei Deputati. E’ una porcata, quella di Renzi, ispirata dall’ansia di potere che ormai l’attanaglia a livelli patologici. Ma soprattutto è un sonoro “me ne frego” rivolto alla Corte Costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale il Porcellum proprio in ordine al mancato esercizio della rappresentanza dei cittadini (vedi preferenze). Impostazione che ora l’Italicum conferma e peggiora, dal momento che nega comunque le preferenze e, nei suoi effetti, trasforma un primo ministro in un duce.

Vediamo come. L’Italicum, che riscrive anche le circoscrizioni elettorali moltiplicandole, si regge su tre pilastri: la soglia di maggioranza, i capilista bloccati, la fine del Senato elettivo. L’aspetto più importante, che determina un’alterazione incostituzionale del potere legislativo e di quello esecutivo, è rappresentato dal premio di maggioranza, cui si accede in prima battuta se si ottiene il 40% dei voti. Già questo sarebbe inaccettabile, dal momento che si chiama premio di maggioranza proprio perché dovrebbe andare a chi ha la maggioranza, e non a chi ha il 40% che, a prova di matematica, maggioranza non è.

Ma il quadro è ancor più grave, perché nel caso in cui nessuna lista raggiungesse il 40%, il premio (il 55% dei seggi) non verrebbe escluso, ma invece assegnato al vincitore del ballottaggio tra le prime due liste, solo riducendolo del 2%. Non importa con quali percentuali potrebbe concludersi il ballottaggio, comunque il vincitore godrebbe del premio di maggioranza. La lista che ottenesse la maggioranza al secondo turno, quali che siano i numeri, anche solo il 20% dei voti ad esempio, avrà comunque il 53% dei seggi in Parlamento. Per meglio comprendere la porcata appena votata, giova ricordare che nel 1953 la Legge truffa venne affossata, benchè prevedesse almeno il 50% più uno come condizione per far scattare il premio.

Non bastasse l’oltraggio al criterio della rappresentanza, i capilista (100 deputati) saranno bloccati e non sottoponibili al voto di preferenza, riducendo così fortemente la volontà dei cittadini di scegliere i loro rappresentanti. Per quanto riguarda la formazione delle liste è poi fin troppo facile intendere come quei cento saranno gli scudieri affidabili del nuovo ducetto. Potranno essere candidati in 10 diversi collegi, con la possibilità quindi di opzioni multiple, da esercitare a seconda di chi è il numero due in lista.

Si tenga conto che con un premio di maggioranza che permette numeri assoluti in un Parlamento formato dai fedelissimi dell’Esecutivo, il Primo Ministro non solo azzererebbe le opposizioni, ma determinerebbe con un piccolissimo sforzo la scelta del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale, ovvero il garante della Costituzione e l’organismo istituzionale a questo deputati. Ovvero chi, promulgandole o esaminandole, devono decidere la costituzionalità o meno delle leggi che il Parlamento vota.

Per eliminare poi il rischio di un doppio passaggio legislativo, ecco che il Senato viene tolto dai poteri elettivi dei cittadini per passare a quelli dei partiti. Abolire il Senato come organo legislativo corrisponde ad un disegno autoritario, che spinge sull’acceleratore della riduzione della dialettica politica in funzione di una maggiore agilità della struttura di comando. La sua funzione prevista è meramente decorativa. Più che lo snellimento dei processi legislativi (che normalmente giacciono molto più tempo alla Camera, sia detto) questa riforma del Senato manifesta piuttosto l’intenzione di limitare i poteri di controllo e d’intervento legislativo sugli atti di governo e sulle deliberazioni della Camera.

Che un Parlamento delegittimato dalla sentenza della Consulta voti una legge incostituzionale è il paradosso di un sistema politico ormai avviato verso la vocazione autoritaria. Che Renzi ne sia il massimo esponente non stupisce: il personaggio è un brutto arnese del sottobosco della politica democristiana che ha potuto passeggiare sui resti di un partito distrutto da chi lo aveva preceduto. Dunque a confermare che Renzi sia abile fare quello che non dice e a dire quello che poi non fa, basti vedere come questa legge elettorale sia la negazione completa di quanto aveva affermato nel suo programma alle primarie del PD.

Si dirà d’altra parte che quasi tutto ciò che promise è stato negato con forza, dal rifiuto del consociativismo al famoso “Enrico stai sereno” rivolto a Letta mentre lo pugnalava alle spalle così come aveva fatto prima con Prodi, fino all’affermazione per la quale le riforme elettorali andavano fatte con un consenso bipartisan mentre ora si mette la fiducia senza avere nemmeno il consenso di tutto il suo partito. Ma la coerenza è un inutile sofisma per l’arrivista di Pontassieve, perché la vera posta in gioco è trasformare in un duce un premier. Renzi del resto, non risente di problemi di decenza e senso delle proporzioni, vista la sua propensione a governare il paese con piglio autoritario senza essere mai stato eletto dai cittadini.

I cantori del renzismo sostengono che questa legge risolve il problema della governabilità, dimenticandosi però che la governabilità è una subordinata rispetto alla rappresentatività che è invece la principale. Le elezioni sono fatte per dare la parola al popolo, non per togliergliela. Una legge elettorale, che pure deve tenere insieme rappresentatività e governabilità, non può vedere il prevalere della seconda sulla prima. Ogni legge elettorale decente, del resto, ha insito il principio della governabilità in quello della rappresentanza, non viceversa. Una legge che invece afferma il primato della governabilità su quello della rappresentanza, prefigura un oggettivo sistema autoritario.

Nonostante gli appelli dei costituzionalisti per fermare questa legge, che rappresenta in profondità un’alterazione dell’equilibrio tra i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) e che, con la riduzione dei contrappesi eleva oltre ogni decenza i pesi, difficilmente Mattarella troverà uno scatto d’orgoglio rifiutandosi di firmare una legge che in primo luogo lui, per competenze giuridiche, sa essere incostituzionale. Rimandare la legge alle Camere comporterebbe l’assunzione di un ruolo politico diretto del Presidente che il giurista siciliano, almeno per ora, non pare intenzionato a perseguire. Non ci sono allora strade diverse se non il referendum per abrogare questo sistema elettorale che nemmeno in una repubblica delle banane potrebbero trovare legittimo.

Le responsabilità di quanto approvato sono in buona misura anche della cosiddetta opposizione, dai Cinque Stelle alla minoranza interna del PD, che avrebbero potuto abbandonare il minuetto delle ridicole tecniche parlamentari per imporre sempre il voto segreto. Ma la minaccia del bulletto di andare al voto ha profilato negli onorevoli oppositori, M5S compresi, il panico per un eventuale uscita anticipata de Montecitorio con tutto quel che ne consegue. Hanno dunque parlato molto e agito poco. Sarà bene che i cittadini che si mobiliteranno per chiedere alla Consulta di bocciare l’Italicum, risentano di energie da vendere e memoria da conservare.


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