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di Antonio Rei
La scuola retorica renziana, ancor più d quella berlusconiana, rende i suoi adepti dei veri maestri nell'arte di rigirare la frittata. Lo dimostrano le ultime parole di Maria Elena Boschi sulla Buona Scuola, quanto mai acrobatiche. Secondo il ministro delle Riforme, il disegno di legge presentato dal Governo "non è un prendere o lasciare", ma "è inaccettabile lasciare le cose come sono", perché "la scuola in mano solo ai sindacati non funziona".
Iniziamo dalla prima affermazione. In effetti, per una volta stiamo parlando di un Ddl (non di un decreto) su cui l'Esecutivo non intende porre la fiducia. Ciò in teoria significa che - al contrario di quanto è avvenuto con l'Italicum - almeno questo testo potrà essere discusso e modificato dalle Camere senza ricatti e forzature da parte del Governo.
Insomma, al Parlamento viene concessa una sorta di ricreazione durante la quale potrà tornare a esercitare liberamente il potere legislativo. E' questo che il ministro intende quando sottolinea che non si tratta di "un prendere o lasciare". Ma siamo sicuri che sia così? Non proprio, vediamo perché.
La misura più attesa fra quelle contenute nella Buona Scuola è l'assunzione di 100mila precari (inizialmente il premier Matteo Renzi aveva promesso la stabilizzazione di 148mila lavoratori, numero che si è poi misteriosamente ridotto di un terzo). E' bene ricordare che non siamo di fronte a uno slancio di pudore nei confronti di una delle categorie di dipendenti statali più bistrattate: a imporre queste assunzioni è l'Ue.
Lo scorso 26 novembre, infatti, la Corte europea si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente abbia diritto all'assunzione. E' quindi ovvio che le stabilizzazioni debbano avvenire quanto prima, per non incorrere nell'ira di Bruxelles.
Questa sarebbe stata certamente una ragione di "necessità e urgenza" che - Costituzione alla mano - avrebbe giustificato il ricorso a un decreto legge, strumento di cui il Governo si è già avvalso ampiamente e senza alcun motivo (si pensi alla riforma delle banche popolari). L'Esecutivo ha però scelto d'inserire le assunzioni nella legge complessiva sulla scuola e in questo modo ha messo indirettamente pressione sul Parlamento.
Se infatti il Ddl non sarà approvato in tempi brevi, risulterà impossibile siglare i nuovi contratti in tempo per l'inizio del prossimo anno scolastico. Chiunque si opporrà in Aula alla riforma, perciò, correrà il rischio di presentarsi agli occhi degli elettori e dell'Europa come il responsabile di 100mila assunzioni mancate. Vale a dire, "non è un prendere o lasciare", ma vi conviene "prendere", perché "lasciare" può rivelarsi un suicidio politico.
Passiamo ora alla seconda affermazione della Boschi ("è inaccettabile lasciare le cose come sono"). In questo caso siamo di fronte a un vero e proprio cavallo di battaglia. Come sempre, il compito numero uno del ministro delle Riforme è difendere il dirigismo del Capo presentandolo come l'unica possibilità di cambiamento.
E siccome nel vocabolario di questo Esecutivo il verbo "cambiare" è sinonimo di "migliorare", chiunque osi manifestare dissenso è un laido conservatore della Prima Repubblica, un reazionario che zavorra il Paese.
Il sillogismo, ingannevole quanto efficace, è lo stesso per ogni riforma: il rinnovamento è sempre benefico; Renzi è l'unica possibilità di rinnovamento; chi si oppone a Renzi va contro l'interesse dell'Italia. E non abbiamo dubbi che - dopo aver giocato la carta delle assunzioni per imporre la volontà del Governo al Parlamento - la Boschi prima o poi ci ripeterà per l'ennesima volta che "si discute con tutti ma alla fine si decide".
Quanto alla storia della "scuola in mano ai sindacati", sono parole che rivelano un'ostilità a priori nei confronti di chi rappresenta i lavoratori e che sarebbe lecito aspettarsi da un ministro di destra. In tema d'istruzione i sindacati hanno molte responsabilità, anche gravi, ma lasciare intendere che oggi la scuola sia in mano a loro vuol dire non avere la minima idea di quali umiliazioni sia costretto a sopportare un insegnante precario. Oppure, più semplicemente, vuol dire parlare di Buona Scuola in mala fede.
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di Fabrizio Casari
Con l'approvazione dell’Italicum da parte del Senato, si chiude l’iter legislativo per l’approvazione di un mostro tentacolare, che in un colpo chiude con il Senato elettivo e con parte della rappresentanza popolare della Camera dei Deputati. E’ una porcata, quella di Renzi, ispirata dall’ansia di potere che ormai l’attanaglia a livelli patologici. Ma soprattutto è un sonoro “me ne frego” rivolto alla Corte Costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale il Porcellum proprio in ordine al mancato esercizio della rappresentanza dei cittadini (vedi preferenze). Impostazione che ora l’Italicum conferma e peggiora, dal momento che nega comunque le preferenze e, nei suoi effetti, trasforma un primo ministro in un duce.
Vediamo come. L’Italicum, che riscrive anche le circoscrizioni elettorali moltiplicandole, si regge su tre pilastri: la soglia di maggioranza, i capilista bloccati, la fine del Senato elettivo. L’aspetto più importante, che determina un’alterazione incostituzionale del potere legislativo e di quello esecutivo, è rappresentato dal premio di maggioranza, cui si accede in prima battuta se si ottiene il 40% dei voti. Già questo sarebbe inaccettabile, dal momento che si chiama premio di maggioranza proprio perché dovrebbe andare a chi ha la maggioranza, e non a chi ha il 40% che, a prova di matematica, maggioranza non è.
Ma il quadro è ancor più grave, perché nel caso in cui nessuna lista raggiungesse il 40%, il premio (il 55% dei seggi) non verrebbe escluso, ma invece assegnato al vincitore del ballottaggio tra le prime due liste, solo riducendolo del 2%. Non importa con quali percentuali potrebbe concludersi il ballottaggio, comunque il vincitore godrebbe del premio di maggioranza. La lista che ottenesse la maggioranza al secondo turno, quali che siano i numeri, anche solo il 20% dei voti ad esempio, avrà comunque il 53% dei seggi in Parlamento. Per meglio comprendere la porcata appena votata, giova ricordare che nel 1953 la Legge truffa venne affossata, benchè prevedesse almeno il 50% più uno come condizione per far scattare il premio.
Non bastasse l’oltraggio al criterio della rappresentanza, i capilista (100 deputati) saranno bloccati e non sottoponibili al voto di preferenza, riducendo così fortemente la volontà dei cittadini di scegliere i loro rappresentanti. Per quanto riguarda la formazione delle liste è poi fin troppo facile intendere come quei cento saranno gli scudieri affidabili del nuovo ducetto. Potranno essere candidati in 10 diversi collegi, con la possibilità quindi di opzioni multiple, da esercitare a seconda di chi è il numero due in lista.
Si tenga conto che con un premio di maggioranza che permette numeri assoluti in un Parlamento formato dai fedelissimi dell’Esecutivo, il Primo Ministro non solo azzererebbe le opposizioni, ma determinerebbe con un piccolissimo sforzo la scelta del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale, ovvero il garante della Costituzione e l’organismo istituzionale a questo deputati. Ovvero chi, promulgandole o esaminandole, devono decidere la costituzionalità o meno delle leggi che il Parlamento vota.
Per eliminare poi il rischio di un doppio passaggio legislativo, ecco che il Senato viene tolto dai poteri elettivi dei cittadini per passare a quelli dei partiti. Abolire il Senato come organo legislativo corrisponde ad un disegno autoritario, che spinge sull’acceleratore della riduzione della dialettica politica in funzione di una maggiore agilità della struttura di comando. La sua funzione prevista è meramente decorativa. Più che lo snellimento dei processi legislativi (che normalmente giacciono molto più tempo alla Camera, sia detto) questa riforma del Senato manifesta piuttosto l’intenzione di limitare i poteri di controllo e d’intervento legislativo sugli atti di governo e sulle deliberazioni della Camera.
Che un Parlamento delegittimato dalla sentenza della Consulta voti una legge incostituzionale è il paradosso di un sistema politico ormai avviato verso la vocazione autoritaria. Che Renzi ne sia il massimo esponente non stupisce: il personaggio è un brutto arnese del sottobosco della politica democristiana che ha potuto passeggiare sui resti di un partito distrutto da chi lo aveva preceduto. Dunque a confermare che Renzi sia abile fare quello che non dice e a dire quello che poi non fa, basti vedere come questa legge elettorale sia la negazione completa di quanto aveva affermato nel suo programma alle primarie del PD.
Si dirà d’altra parte che quasi tutto ciò che promise è stato negato con forza, dal rifiuto del consociativismo al famoso “Enrico stai sereno” rivolto a Letta mentre lo pugnalava alle spalle così come aveva fatto prima con Prodi, fino all’affermazione per la quale le riforme elettorali andavano fatte con un consenso bipartisan mentre ora si mette la fiducia senza avere nemmeno il consenso di tutto il suo partito. Ma la coerenza è un inutile sofisma per l’arrivista di Pontassieve, perché la vera posta in gioco è trasformare in un duce un premier. Renzi del resto, non risente di problemi di decenza e senso delle proporzioni, vista la sua propensione a governare il paese con piglio autoritario senza essere mai stato eletto dai cittadini.
I cantori del renzismo sostengono che questa legge risolve il problema della governabilità, dimenticandosi però che la governabilità è una subordinata rispetto alla rappresentatività che è invece la principale. Le elezioni sono fatte per dare la parola al popolo, non per togliergliela. Una legge elettorale, che pure deve tenere insieme rappresentatività e governabilità, non può vedere il prevalere della seconda sulla prima. Ogni legge elettorale decente, del resto, ha insito il principio della governabilità in quello della rappresentanza, non viceversa. Una legge che invece afferma il primato della governabilità su quello della rappresentanza, prefigura un oggettivo sistema autoritario.
Nonostante gli appelli dei costituzionalisti per fermare questa legge, che rappresenta in profondità un’alterazione dell’equilibrio tra i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) e che, con la riduzione dei contrappesi eleva oltre ogni decenza i pesi, difficilmente Mattarella troverà uno scatto d’orgoglio rifiutandosi di firmare una legge che in primo luogo lui, per competenze giuridiche, sa essere incostituzionale. Rimandare la legge alle Camere comporterebbe l’assunzione di un ruolo politico diretto del Presidente che il giurista siciliano, almeno per ora, non pare intenzionato a perseguire. Non ci sono allora strade diverse se non il referendum per abrogare questo sistema elettorale che nemmeno in una repubblica delle banane potrebbero trovare legittimo.
Le responsabilità di quanto approvato sono in buona misura anche della cosiddetta opposizione, dai Cinque Stelle alla minoranza interna del PD, che avrebbero potuto abbandonare il minuetto delle ridicole tecniche parlamentari per imporre sempre il voto segreto. Ma la minaccia del bulletto di andare al voto ha profilato negli onorevoli oppositori, M5S compresi, il panico per un eventuale uscita anticipata de Montecitorio con tutto quel che ne consegue. Hanno dunque parlato molto e agito poco. Sarà bene che i cittadini che si mobiliteranno per chiedere alla Consulta di bocciare l’Italicum, risentano di energie da vendere e memoria da conservare.
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di Antonio Rei
La svolta bulgara di Matteo Renzi sull'Italicum frantuma il Partito Democratico e non convince gli italiani. Ma al Premier non interessa, ormai la decisione è presa. L'attuale Parlamento - delegittimato politicamente in quanto eletto con il Porcellum, dichiarato incostituzionale dalla Consulta - voterà una raffica di fiducie e seguirà una tabella di marcia a tappe forzate per approvare una legge elettorale che, in combinazione con la riforma del Senato, distorce l'assetto istituzionale del nostro Paese in senso autoritario.
Grazie al doppio turno e al premio di maggioranza previsto per la Camera, chi otterrà la maggioranza relativa nelle urne porterà a casa una quantità di seggi oceanica nell'unica Aula che avrà ancora potere decisionale sulle leggi ordinarie, visto che Palazzo Madama si trasformerà in un dopolavoro per enti locali. Addio ai pesi e ai contrappesi previsti dai padri costituenti: quello che ci attende è un presidenzialismo forte e mascherato, in cui il capo del governo avrà molto più margine decisionale rispetto ad oggi.
Il tutto amplificherà il meccanismo già in atto che attribuisce all'Esecutivo anche il potere legislativo tramite la pratica illegittima di moltiplicare l'associazione decreto-legge-voto-di-fiducia. Con tanti saluti al principio di rappresentanza e alla divisione dei poteri, evidentemente derubricati come inutili vezzi costituzionali. D'altra parte, la legge elettorale deve assicurare governabilità, no? Si parla e si discute, ma alla fine qualcuno deve pur decidere, giusto? Poco importa che questa strada logica, se percorsa fino in fondo, riesca a giustificare il dispotismo (in fondo, nel Ventennio mancavano i diritti, non certo la governabilità...).
"Il capo dello Stato conosce bene le prerogative del Parlamento e del governo - commenta Rosy Bindi, facendo seguito alle critiche di Pier Luigi Bersani -. Io comunque non faccio previsioni né do consigli a Capo dello Stato ma mettere la fiducia vuol dire tradire i rapporti fra governo e Parlamento e tradire la nostra vita democratica. La richiesta di fiducia sull'Italicum sarebbe una prova di debolezza da parte del governo e da Renzi non ce lo aspettiamo, ci aspettiamo prove di coraggio". Anche secondo il capogruppo dimissionario Roberto Speranza "Renzi sta commettendo un errore grave nel procedere con questa legge elettorale senza alcuna modifica. La scelta della fiducia è irricevibile, sarebbe errore politico madornale, una violenza vera e propria al Parlamento italiano".
I 5 Stelle minacciano "azioni extraparlamentari" e Arturo Scotto, capogruppo di Sel e Montecitorio, sottolinea che "la fiducia sulla legge elettorale è un'aberrazione: parliamo di una legge di rango costituzionale e sulla Costituzione nessun governo guidato dal buonsenso porrebbe mai la questione di fiducia".
Intanto, un sondaggio Ipsos pubblicato dal Corriere della Sera fotografa una situazione inquietante: il 35 percento degli italiani dichiara di non sapere quale sia il contenuto dell'Italicum (e l'ignoranza è in crescita, visto che a dicembre era il 29 percento), il 51 percento è contrario al provvedimento e solo il 34 percento si dice favorevole (un dato che sta cadendo a picco: dopo l’insediamento di Renzi, nel febbraio 2014, era al 58%, mentre lo scorso dicembre era al 45%). Il 61 percento, infine, ha una particolare avversione per i capilista bloccati.
Quest'ultimo punto è di particolare rilevanza. Di per sé, in verità, il tema generale delle preferenze assomiglia molto a uno specchietto per le allodole. La vulgata sostiene che bloccare le liste o i capilista significhi limitare la libertà di scelta degli elettori per favorire un sistema meno democratico di nomine. In realtà, si tratta di una considerazione parziale: anche con le preferenze gli elettori possono scegliere solo all'interno di una rosa limitata di nomi indicata dai partiti, perciò è evidente che non stiamo parlando di chissà quale strumento di democrazia diretta.
Tutto questo però non toglie che proprio l'avversione dello stomaco degli italiani al concetto di "blocco" nelle liste potrebbe spostare in modo decisivo l'ago della bilancia quando gli elettori saranno chiamati alle urne per il previsto referendum confermativo (o abrogativo?) sulle riforme. L'Italicum, insomma, otterrà quasi certamente il via libera Parlamento e non si trasformerà nella pietra su cui si consumerà la caduta del governo. Ma potrebbe comunque non sopravvivere fino alle prossime elezioni.
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di Fabrizio Casari
Sono passati 70 anni da quando la lotta partigiana contro il fascismo e l’occupazione nazista ebbe il suo epilogo vittorioso. Da quel 25 Aprile del 1945 i partigiani, che avevano dato il loro sangue e il loro coraggio per la liberazione della Patria, riscattarono la dignità di un paese che era stato piegato e piagato da 20 anni di fascismo e dalla guerra che Mussolini volle combattere al fianco di Hitler.
Leggi razziali e guerre coloniali, cessione del paese all’occupante straniero, gas contro le popolazioni africane e uccisioni, fine della libertà politica e sindacale, galere e confino contro gli oppositori, sono solo alcuni dei caratteri emblematici del fascismo, che ha avuto nella partecipazione attiva all’Olocausto la cifra simbolica della sua storia ributtante.
Dagli scioperi del 1943 fino all’insurrezione del 1945, il lavoro clandestino politico e militare della Resistenza, guidata dal Partito Comunista, dal Partito Socialista, dal Partito D’Azione e dalla Democrazia Cristiana, cambiò in profondità sia il volto dell’Italia che l’epilogo del dominio nazifascista. Il cuore combattente, nelle montagne e nelle città fu certamente quello del PCI guidato da Luigi Longo, ma anche il contributo socialista, azionista e cattolico non va sminuito. Da quel 25 Aprile proprio le Brigate Partigiane, contribuirono a formare la cintura di sicurezza di un Paese che nella sconfitta del nazifascismo cominciava a costruire il suo futuro di democrazia partecipativa.
Il 25 Aprile sanciva, infatti, la data spartiacque di due epoche storiche. Dichiarava, senza possibilità di replica, la nuova dimensione dell’Italia che iniziava la sua ricostruzione con sulle spalle l’esperienza della lotta di liberazione. E se oggi continuiamo ad avere una Costituzione tra le più avanzate al mondo, forse la migliore dei paesi occidentali, è proprio grazie alla Resistenza.
Vanno dunque accolte con soddisfazione le parole del Presidente della Repubblica, Mattarella, che ha voluto ribadire con forza come “la Costituzione sia il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra”. Anche per questo è stato quindi un atto dovuto, ma bello, vedere pochi giorni orsono i partigiani festeggiati dall’aula di Montecitorio, che grazie alle loro armi cessò di essere “l’aula sorda e grigia” di mussoliniana memoria.
Una storiografia faziosa e revisionista, che vorrebbe vergognosamente equiparare la legittimità di vincitori e vinti, assegna all’intervento angloamericano il merito della resa nazifascista e della liberazione del Paese dall’occupazione straniera. Ma è bene ricordare come il contributo della lotta di liberazione partigiana sia stata determinante, sia per l’indebolimento politico e militare dell’occupante e del suo alleato fascista, sia per aprire la strada all’ingresso delle truppe alleate.
Tedeschi e fascisti dovettero subire l’incessante attività militare partigiana che ne fiaccò non poco la loro tenuta e spazzò via la loro presunta invincibilità. In montagna come nelle valli e nelle città: in nessun luogo gli invasori e i loro alleati fascisti poterono sentirsi al sicuro.
Senza l’azione militare partigiana i tempi e il costo in vite umane dell’arrivo degli alleati sarebbero stati di gran lunga maggiori e le truppe naziste avrebbero potuto disporre di più tempo per tentare di opporre una maggiore resistenza agli sbarchi alleati.
Il contributo militare della Resistenza, dunque, in faccia al revisionismo destrorso che lo vorrebbe limitato nella partecipazione e negli effetti, fu invece fondamentale, come del resto riconosciuto anche dal comando alleato. Basti pensare a Milano o a Genova, dove i tedeschi trattarono la resa direttamente con i partigiani, ben prima dell’arrivo delle truppe angloamericane.
Ma prima ancora che i suoi indiscutibili meriti militari, la resistenza antifascista fu fondamentale per aver offerto al popolo italiano la possibilità di alzare la testa, di trovare la strada possibile per la sua ribellione contro l’oppressore nazifascista. Questo furono i partigiani: il nuovo collante delle classi lavoratrici, che seppero unire il desiderio di libertà al sogno di una società di eguali.
Settant’anni dopo quel 25 Aprile, si possono anche ricordare tutti i tentativi, falliti ma non cessati, di riscrivere la storia di quella guerra e di quella ribellione in chiave revisionista, e nello spacciare una sorta di dolore per tutte le vittime, si tenta di azzerarne le scelte in un indistinto calderone che piega la storia alle convenienze politiche.
Un'operazione politica alla quale anche presunti esponenti della sinistra come l’ex Presidente della Camera Violante hanno offerto il loro contributo, insieme a qualche penna pentita, convertitasi per denaro e rancore alla causa della rilettura di destra della storia. Lo hanno fatto cercando di raccontare quella vicenda assoluta e tragica come una guerra civile tra opposte fazioni e negando così, in profondità, i crimini del fascismo e la resistenza ad essi.
Ma, come scrisse Italo Calvino, “tutti uguali davanti alla morte, ma non davanti alla storia. Come ha ben detto il Presidente Mattarella, “non c'è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall'altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?".
La società italiana e la sua vicenda politica non rispecchia, a tanti anni di distanza, quel sistema di valori per il quale i partigiani furono disposti a combattere e a morire e che, certamente, sognavano un’altra Italia e non quella che si andò costruendo. Non a caso e non per errore si è parlato spesso di “Resistenza tradita”, proprio per significare la distanza ideale, politica, sociale, civile e morale dai valori della Resistenza a quelli oggi imperanti.
Ma, settant’anni dopo, il ricordo e la testimonianza di coloro che ebbero l’onore di scrivere nelle città e nelle montagne le pagine più belle della storia italiana, non possono che rappresentare un incitamento a non arrendersi, a cercare il cammino della giustizia sociale e della democrazia.
La libertà e la giustizia sociale sono le due gambe su cui cammina la democrazia e affermarle insieme contro la barbarie fascista di ritorno è il modo migliore di celebrare il settantesimo anniversario della rinascita dell’Italia.
Oggi la Resistenza può continuare a rappresentare la parte migliore della storia dell’Italia se saremo capaci di non dimenticare, di non perdonare, di non indietreggiare; se saremo capaci di vigilare e opporsi con forza all’ignoranza barbara del fascismo di ritorno. Impedendo in primo luogo che venga sbianchettata la pagina più nobile della nostra storia in nome d’insopportabili riconciliazioni nazionali, che vogliono azzerare le responsabilità criminali dei vinti e i meriti storici dei vincitori.
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di Fabrizio Casari
Settecento morti, forse novecento, sono l’ultimo tragico numero con cui l’Occidente può ritenersi un muro invalicabile. Una ecatombe che trasforma il Canale di Sicilia in un cimitero acquatico disegna un confine di morte che supera le acque territoriali e lo spazio aereo e disegna l’unico confine esistente, quello tra la vita e la morte. Stipati, anzi strizzati, in un barcone di 20-30 metri partito dalla zona est di Tripoli, hanno viaggiato come animali e sono morti come nessuno mai dovrebbe morire.
Altre fonti parlano di 950 persone che si trovavano a bordo dell'imbarcazione, dunque i morti potrebbero essere oltre 900. Ventotto i superstiti. Difficilmente verranno ripescati tutti i corpi, ancor più difficilmente verranno ricordati i nomi. Dal 1996 ad oggi, sono ormai decine di migliaia (quasi seimila dal 2013) i corpi sepolti nel Canale di Sicilia, il braccio di mare che per i dannati della terra dovrebbe separare l’orrore dalla speranza.
L’Africa e il Medio Oriente ci restituiscono con decine di migliaia di corpi di disperati il saccheggio del loro territorio e l’indegno supporto a dittatori sanguinari che combattono con l’orecchio teso alle convenienze delle multinazionali e l’occhio aperto sulle vendette tribali che caratterizza la barbarie del combattere. Da questo inferno di povertà e morte gli esseri umani fuggono.
A secoli di sfruttamento delle sue risorse minerali, si sono aggiunti gli appetiti dei trafficanti di armi e delle compagnie petrolifere. Avvoltoi che hanno trovato il menù preferito nelle decine di migliaia di disperati che per un salario combattono e uccidono e in altri avvoltoi quelli che organizzano il traffico di esseri umani che dall’inferno provano a fuggire.
Le guerre scatenate in tutto il Maghreb, la formazione di organizzazioni militari come l’Isis che ha alzato ulteriormente il livello della macelleria nordafricana e mediorientale. Dalla Libia alla Siria, dall’Iraq allo Yemen, il risiko geopolitico che garantisce il dominio occidentale sui paesi produttori di petrolio ha trasformato l’intero Medio Oriente e l’area del Golfo in una pozza di sangue, dollari e petrolio. Ma se il petrolio finisce nella disponibilità delle dinastie e degli emiri e i dollari vanno nelle tasche delle multinazionali, i poveri ci mettono il sangue.
E gli innocenti fuggono, perché restare significa morire. Sanno perfettamente che il loro viaggio non è privo di rischi, ma il morire in mare viene considerato meno brutto e più veloce che morire nel deserto. Morire cercando di sopravvivere rappresenta comunque una possibilità, per quanto scarsa, rispetto alla certezza di non sopravvivere.
Le parole di Papa Bergoglio, il miglior Vescovo di Roma in tutta la storia pontificia, rimbombano nel vuoto assoluto della politica che, per definizione, dovrebbe lasciare alla Chiesa il lavoro sulle anime, occupandosi invece lei quello sui corpi. I campioni del cattolicesimo variamente allocati che straparlano quando si tratta di negare i diritti civili, tacciono sui diritti umani.
La politica italiana, a dimostrazione di come il suo livello rasenti ormai il fondo del fondo, è costretta a subire persino l’ascolto delle parole (per modo di dire) di Salvini, un balubba per il quale dobbiamo augurarci possa provare almeno un giorno della sua vita quello che provano tutti i giorni di tutta la vita i migranti.
Ma se quello che esprime Salvini altro non sono che flautolenze del pensiero alla ricerca di voti dei balubba come lui, ben più preoccupante risulta l’incapacità del governo di porre con forza in sede europea il tema dell’assistenza ai migrati.
L’indifferenza di Bruxelles, covo di fanatici funzionari al servizio della grande finanza, non può diventare l’alibi per fermare operazioni come Mare Nostrum. Ci sono modi e forme per far scontare all’Unione Europea il mancato contributo e il mancato rispetto degli impegni assunti in tema di assistenza ai migranti.
A Bruxelles si dovrà dire che o s’impegnano le risorse necessarie all’amministrazione del problema che ha, ovviamente, dimensione europea, oppure saremo noi a ridurre il filtro, a consentire cioè che l’Italia diventi sbarco e terra di passaggio verso i restanti paesi dell’Unione. A questi cialtroni dai colletti bianchi e dalle scarpe nere, che prevedono la libertà assoluta di circolazione per il denaro e il divieto assoluto per gli uomini, non può che essere presentato lo scenario peggiore come scenario unico.
Lungi dal poter pensare che l’Italia possa farsi carico di ricevere e ospitare ogni quantità di migrazione, Roma non può però invocare l’assenza di validi contributi europei per ridurre la presenza umanitaria nelle sue acque territoriali e in quelle di prossimità. L’Italia deve muoversi, Europa o no.
E non è certo con i gulag a cielo aperto come i CIE che potrà essere affrontato il tema dello smistamento dell’accoglienza. Europa o no non possiamo rimanere fermi al limite delle nostre acque a fornire assistenza ai corpi già in mare, ma possiamo e dobbiamo intervenire contro le organizzazioni internazionali degli scafisti ovunque esse si trovino ed operino.
Atteso che non sono nemmeno ipotizzabili politiche preventive e repressive nel fenomeno della migrazione, che riguarda l’intero pianeta, dobbiamo rendere in qualche modo governabile l’immigrazione.
Non solo perché un dovere etico e umanitario, ma proprio perché il tema della salvezza di decine e decine di migliaia di vite umane non può e non deve subire le regole della contabilità. Il valore della vita, l’aiuto ai più deboli e l’assistenza agli innocenti non può essere misurato con la compatibilità dei ragionieri.
E, se proprio si vuole mettere mano alle compatibilità delle risorse finanziarie con quelle dell’animo, si cominci ad indagare quali e quanti sono i costi maggiorati causa corruzione e appalti a “cooperative” nate alla bisogna dalle tasche dei comprimari della politica per riportare le cifre sotto la cifra delle decenza dovuta.