di Antonio Rei

"Non riesco a immaginare un'Europa senza la Grecia". All'apice della più grave crisi politica dalla nascita dell'euro, Matteo Renzi - in un'intervista ad Al Jazeera - verga il proprio nome nella storia con questa memorabile sentenza. Per la verità, la ripete da settimane, suscitando forse un moto di tenerezza fra quelli che a Bruxelles contano qualcosa. Verrebbe da chiedergli: "Cos'è che riesce a immaginare, Presidente?".

E dire che, fin qui, la creatività non è mancata al nostro Premier. Ci vuole fantasia per concepire il terzo Paese dell'Eurozona - governato da un partito che si dice di sinistra - ridotto a servo sciocco dell'Europa a trazione tedesca. Eppure è questa la fine che abbiamo fatto, come dimostra nel modo più lampante proprio la gestione del caso greco.

Fin dall'inizio, il sostegno di Renzi a Tsipras è stato solo vuota retorica. Basti pensare a quello che accadde dopo le elezioni del 25 gennaio vinte da Syriza, quando il nostro Premier non si degnò nemmeno di commentare, mandando avanti Sandro Gozi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'Unione europea, che su Twitter scrisse: "Congratulazioni a Alexis Tsipras, pronti a lavorare con il nuovo governo greco per una più democratica e politica Ue".

All'epoca nel Pd tutti sottolineavano che il nuovo leader greco avrebbe avuto bisogno di Renzi per condurre la sua battaglia anti-austerità, e in effetti era così. Lo stesso Tsipras ha chiesto più volte al suo omologo italiano di fornirgli una sponda autorevole nel corso della trattativa, magari per iniziare a cucire un fronte dei Paesi mediterranei in grado di contrapporsi efficacemente ai falchi del Nord Europa.

Renzi questo aiuto lo ha sempre negato. Nelle conferenze stampa continua a scagliarsi contro le politiche di austerità, rivelatesi fallimentari, e a spingere per una virata in direzione della crescita: ma sono solo chiacchiere. Di concreto non c'è nulla, se non la favola della "Flessibilità", a tutt'oggi una creatura mitologica dalle sembianze indefinite.

Il nostro governo si è vantato in continuazione di aver ottenuto durante il semestre italiano di presidenza Ue "maggiore flessibilità" da Bruxelles, ma nessuno sa ancora spiegare nel dettaglio cosa questo comporti. L'unica certezza è che non arriverà alcun cambiamento significativo nelle politiche economiche europee, a meno che non si voglia considerare tale il Piano Juncker, altra creatura di fantasia che dovrebbe magicamente produrre centinaia di miliardi d'investimenti privati.

L'unica battaglia concreta in Europa contro l'austerità è stata e rimane quella di Syriza. Renzi lo sa benissimo e proprio per questo ha voluto immediatamente voltare le spalle a Tsipras. Una scelta di campo che ha superato il confine della vergogna pochi giorni prima del referendum greco, quando il Premier italiano si è schierato apertamente contro il governo di Atene, arrivando a definire la consultazione popolare "un derby fra euro e dracma".

Un vero sproloquio dovuto all'ignoranza e alla malafede del nostro Premier, che non ha il coraggio, né le capacità, né la statura politica per trattare alla pari con i grandi leader europei. Si lamenta perché è costantemente tagliato fuori da tutte le consultazioni ristrette, reclama un posto nel lettone fra papà Hollande e mamma Merkel, addirittura piagnucola per la manifesta irrilevanza della sua opinione nel corso di tutti i negoziati, ma alla fine obbedisce. Obbedisce sempre, probabilmente per paura di ricevere una scomunica in stile Berlusconi.

Tsipras, invece, non ha obbedito. Nemmeno il popolo greco lo ha fatto, consegnando un plebiscito di NO al referendum sulla proposta dei creditori. Può darsi che alla fine saranno sconfitti, sacrificati sull'altare del potere neoliberista per lanciare un segnale chiaro alle sinistre di mezza Europa (con in testa Podemos, visto che a novembre si vota in Spagna).

Forse, alla fine, Atene dovrà capitolare per insegnare ad altri popoli europei che è inutile farsi illusioni: il timone della politica economica europea non si tocca e chiunque si oppone può scegliere solo fra il ripensamento umiliante o il baratro. Eppure, anche se andrà così, anche se per la Grecia si realizzerà il peggiore degli scenari, un politico di sinistra come Tsipras guarderà sempre dall'alto il politicante fanfarone di Palazzo Chigi.

di Fabrizio Casari

L’ipotesi di una legge che introduca il reato di tortura nel nostro paese scatena grandi polemiche politiche con il contorno buffonesco di propaganda elettorale. Le norme previste dalla legge in discussione sono per lo meno blande, molto al di sotto di quanto altri paesi europei prevedono e non si riferiscono solo alla specie riguardanti l’operato dei pubblici ufficiali ma anche quelle dei singoli cittadini, com’è ovvio. Le proteste dei sindacati di polizia, per quanto scontate, sono quindi difficilmente comprensibili.

Perché mai una legge che non punisce l’uso della forza ma il suo abuso dovrebbe rappresentare un problema? L’abuso, quale che sia l’ambito in cui si manifesta, rappresenta di per sé una violazione. Perché dovrebbe essere punito quando operato da semplici cittadini e non invece quando sia perpetrato da chi indossa una divisa?

Le forze dell’ordine, che hanno come scopo fondativo quello di far rispettare la legalità, hanno la legittimità di ignorare o violare la legge che devono difendere? Ovvero: il loro comportamento può essere al di sopra della legge?

C’è da sottolineare come l’Italia sia uno dei pochi paesi al mondo che non ha il reato di tortura nel suo Codice Penale. Benché il nostro sia uno dei paesi con i codici più pesanti per il numero delle violazioni che si prevedono, curiosamente sulla tortura c’è stata qualche distrazione. Eppure, in Europa, l’Italia risulta presente nelle peggiori classifiche per quanto attiene al rispetto dei diritti dei detenuti, della lunghezza dei processi e dell’impunità dei reati commessi dagli apparati dello Stato, palesi o occulti che siano.

Dunque, sebbene blanda e decisamente al di sotto di quanto sarebbe necessario, una legge che punisca il reato di tortura desta polemiche accese perché interrompe una storia lunga di diritto parallelo: quello valido per chinque e quello per chi opera al servizio del potere.

Ciò che più indispone i sindacati di polizia è l’identificabilità degli agenti nel loro operare. E perché mai? Visto che gli agenti in servizio di pattugliamento sono indirettamente identificabili, dal momento che i mezzi dai quali scendono sono rintracciabili, così come lo sono i nomi di chi vi era a bordo nel momento in cui l’eventuale abuso fosse stato consumato. Perché allora per gli agenti in servizio di ordine pubblico non si dovrebbe poter identificare che commettesse abusi?

Comprensibile che i sindacati di polizia non vogliano l’esposizione di una targhetta d’identificazione con nome e cognome, ma la presenza di un numero visibile sul casco, mentre rende impossibile al comune cittadino conoscere sul momento le generalità dell’agente, consente al ministero di poter individuare facilmente di chi si tratta.

In questo modo, peraltro, si determinerebbe una selezione semplice ed immediata nelle eventuali sanzioni, identificando i soggetti con precisione e non i raparti nella loro complessità.

Dunque non vi sono ragioni oggettive, se si ritiene di dover operare nel rispetto della legge e dei poteri e limiti che le legge impone, di impedire che l’operato degli agenti sia monitorato e valutato. Se non lo si vuole è perché si ritiene di dover temere la fine della stagione della totale impunità.

Le proteste dei sindacati di polizia sono quindi sintomatiche di una concezione del ruolo istituzionale di diritto e di fatto che si ritiene legittimo: quello che assegna alle forze dell’ordine un ruolo superiore a quello che la legge gli assegna.

Il rifiuto dell’identificazione per i comportamenti illegali ( e spesso criminali, viste le violenze gratuite su manifestanti inermi e la morte per botte di persone in mano alle forze dell’ordine) significa che si pretende la conservazione assoluta del malinteso privilegio di poter operare sulla base di istinti ideologici e certezza dell’immunità nell’esercizio delle proprie funzioni.

Non è una esagerazione. Il recente esempio del dirigente della Polfer che inneggiava a Hitler e augurava il rogo per gli immigrati, o quello dell’agente in servizio la notte della macelleria cilena al G8 di Genova, che rivendicava la giustezza del massacro a manifestanti inermi, hanno infatti in comune l’appartenenza ideologica al neofascismo da parte dei due poliziotti e offrono spiegazioni convincenti sul loro operato. Non a caso chi si è immediatamente distinto nel sostegno ai sindacati di polizia è l’estrema destra, Salvini in testa, seguito da personaggi come Gasparri, e qui la questione diventa quindi meno seria.

Salvini ritiene che “la polizia deve fare il suo lavoro” e offre così, con un’affermazione freudiana, la sostanza di quello che pensa. In sostanza ritiene che la polizia debba poter fare quello che vuole senza curarsi molto delle conseguenze, che sarebbero affari di chi le subisce. Non apporta un gande contributo alla causa della polizia, ma tant'è.

Non parlava così Salvini quando la polizia fece irruzione nel covo della Lega in Via Bellerio, quando definì con Bossi l’operato delle forze dell’ordine come “lo stato coloniale che manda gli sbirri”. Cannoni sugli immigrati e botte sui residenti: deve essere stato il bagno di cultura nelle università di Tirana che ha portato la Lega a nuove riflessioni sul tema dei diritti.

Ormai tutti sanno chi è Salvini, dunque non stupisce che, come su ogni tema, cerchi la risposta più ignorante e approssimativa possibile. Lo fa perché vive in propaganda elettorale 24 ore al giorno, saltando su ogni telecamera accesa. E lo fa tanto per solleticare l’istinto più basso dell’elettorato, quanto perché un ragionamento complesso gli risulta oltremodo ostico per la sua capacità di elaborazione di temi, anche i più semplici.

Ma volendo ampliare le conoscenze di Salvini con uno sguardo che vada oltre il Po, un po' più a sud di Pontida, si possono trovare interessanti ispirazioni. Il Messico, cimitero a cielo aperto e laboratorio globale per l’applicazione delle più feroci tecniche di repressione, negli ultimi due anni ha visto sporgere 1241 denunce per tortura, ma solo 7 (!) di queste hanno passato il primo step giudiziario. Non fosse che il Messico è il maggior fornitore di migranti del mondo, ci sarebbe da pensare che sia quello messicano il modello cui s’ispira lo xenofobo Salvini. Per dare una mano, il Trota è già lì che lo studia.

di Fabrizio Casari

Dopo la sberla presa più o meno ovunque in lungo e largo del Paese, Matteo Renzi non ha ritenuto di dover riflettere sulla ormai evidente fine della luna di miele con gli italiani, anzi. Si è ben guardato dall’interpretare il voto contro il governo e contro il Presidente del Consiglio, come pure è lampante. Avrebbe potuto cogliere l’occasione per fermarsi a riflettere su come ormai venga percepito dagli italiani che votano chiunque purché sia un suo avversario. E invece no.

Nella convinzione che il risultato elettorale sia colpa di “gufi”, “rosiconi” e “profeti di sventura”, si è messo in ascolto dei cartomanti variamente allocati nelle redazioni dei principali media ed ha deciso che l’unico modo per riprendere il consenso perso a sinistra è quello di continuare a colpire ancora la sinistra e il mondo del lavoro.

In preda ad un delirio di autocompiacimento davvero ingiustificabile, visti i risultati, dopo la sberla nelle urne ha stabilito l’esistenza di un “Renzi 1” decisionista e veloce che è stato soppiantato dal “Renzi 2” che di grazia lui reputa “dialogante e accondiscendente”. A questo punto il Renzi 3 tornerà ai fasti del Renzi 1. C’è da crederci. Il primo segnale lo si è visto con lo scarico di Marino da Roma, in tutto simile a quanto avvenne con Letta a Palazzo Chigi, con il famoso “Enrico stai sereno”.

Con un atteggiamento ricattatorio e vendicativo, ha quindi minacciato il Parlamento dal mantenere gli emendamenti al suo disegno di legge sulla scuola pena la mancata assunzione dei 100.000 precari. Come il bambino viziato che porta via il gioco se non vince, si è presentato a Porta a Porta dal suo agiografo e gemello di nei ed ha annunciato l’intenzione di addossare all’opposizione alla sua controriforma la mancata assunzione dei precari.

Un comportamento ignobile dal punto di vista politico ed indegno da quello umano, a maggior ragione per chi nemmeno un giorno della sua vita ha dovuto recarsi al lavoro.

Ci sono due aspetti da evidenziare nella vicenda scuola: l’assunzione dei precari, che Renzi spaccia come fiore all’occhiello della sua riforma, non sono parte della riforma. Sono in realtà un obbligo imposto dall’Europa che ha letteralmente ordinato l’assunzione di 150.000 precari. Dunque l’unica cosa che Renzi ha messo di suo è la riduzione da 150.000 a 100.000 delle assunzioni.

Non c’è nessun rapporto tra la riforma della scuola e l’assunzione dei docenti precari. L’assunzione dei 150.000 precari, così come prevede la sentenza della Corte Europea di Giustizia, può essere ordinata con un Decreto, anzi dovrebbe esserlo.

La riforma, invece, ha un suo percorso legislativo complesso e tempi tutt’altro che simili ad un Decreto. Mettere in relazione il primo col secondo è una mossa della disperazione prima ancora che un ricatto ignobile.

Quanto all’idea che gli emendamenti siano troppi, emerge la natura del kim-il-sung di Pontassieve, il quale ritiene che il Parlamento non possa svolgere la funzione che istituzionalmente gli spetta, ovvero quella di legiferare. Nel suo modello nordcoreano il Parlamento si limita a ratificare le leggi che lui propone.

Ma dalle riforme alla politica economica, dalla politica estera all’immigrazione, Renzi non è in grado di avere né un piano A, né uno B. Non ha nessuna capacità di elaborazione, non rappresenta altro che gli interessi di chi lo ha voluto a Palazzo Chigi (ben ricordati dall’ex direttore del Corsera, Ferruccio De Bortoli) e ha nel ricatto continuo e nell’arroganza dei modi contenuti e stile del governare.

Il personaggio ha ormai la sua capacità di valutazione fortemente annebbiata dall’ego smisurato e dall’appetito smodato. Mentre infatti minaccia il Parlamento con la mancata assunzione dei precari della scuola se non lo fanno contento, lavora alacremente - ed ormai apertamente - per mettere le mani sul denaro della Cassa Depositi e Prestiti, attualmente diretta da Franco Bassanini. Per carità, Bassanini non è intoccabile, né qualcuno è in ansia per il suo personale destino; dopo essersi seduto su ogni poltrona possibile ne troverà un’altra.

Ma la questione è: perchè Renzi vuole a tutti i costi allungare le mani sull'istituto pubblico? Presto detto: la Cassa depositi e Prestiti é un istituto pubblico controllato dallo Stato attraverso il Ministero dell'economia. Il suo scopo originario (dal 1850) era la raccolta del risparmio postale dei cittadini e, dal 2003, è diventata una SpA controllata al 70% dallo Stato e al 30% da 66 fondazioni bancarie. Dalla raccolta del risparmio la sua attività si è ampliata all'intervento nella finanza italiana e in quella internazionale.

La CDP non ha finalità istituzionali direttamente riconducibili a Palazzo Chigi, ma è un istituto solido, detentore pressocchè unico di liquidità (stimata in oltre 230 miliardi di euro) e non intossicato da derivati. Dunque l’idea è quella, attraverso uno spoil system di cui non si avverte l'urgenza, di mettere i suoi uomini dove ci siano risorse, in questo caso pare sia Costamagna il destinato. Idea del resto coerente con la pervicacia dimostrata nel piazzare i suoi sottopancia nei ruoli-chiave delle aziende di Stato e negli interessi evidenti dei suoi supporters nella finanza, nell’economia e nella politica, che ormai impone anche a chi vuole voltarsi dall’altra parte un giudizio attento e severo.

Renzi e la sua banda sono da un anno all’attacco di tutto ciò che produce denaro e potere ed è arrivato il momento che il Parlamento, in uno scatto di dignità, rimandi a casa il bullo affamato e riapra una dialettica parlamentare soffocata dal sistematico ricorso alla fiducia e alle minacce.

La durata della legislatura non può rappresentare l'unico scopo per il mantenimento in vita di un governo che ha peggiorato tutti gli indicatori e si è rivelato incapace di cogliere i pur timidi segnali di ripresa europea, preferendo concentrarsi sulla guerra ai lavoratori, ai pensionati, agli stuenti e ai sindacati.

Si dice che Mattarella abbia cominciato a vagliare le candidature per una eventuale successione a Renzi, ma l'esito di una eventuale crisi parlamentare è ora difficile da ipotizzare concretamente.

Resta però il fatto che con un quadro politico incartato, con un partito di maggioranza ridotto ad una lotta intestina di camarille e affari, un governo mai eletto ed un primo ministro che si sente un imperatore, non è pensabile proseguire. E non c’è altra strada che uscire dal commissariamento politico del Paese e riconsegnare la parola agli elettori, che hanno visto passare tre governi sulla loro pelle senza averli mai votati.

di Fabrizio Casari

La debacle elettorale del renzismo è il vero dato politico della tornata elettorale amministrativa, conclusasi ieri con la sconfitta storica di Venezia, città da due decenni in mano al cento sinistra, anche quando la regione risultava essere uno dei principali feudi del centrodestra italiano. Il pur bravo Felice Casson, benché in vantaggio al primo turno, è riuscito a farsi superare dal candidato del centrodestra.

Solo La Repubblica può scrivere che Casson ha perso per non essere renziano, alla lingua pendula non c’è rimedio. Invece, così come già successo con la Paita in Liguria e con la Moretti in Veneto, gli abbracci e la spinta di Renzi sembrano esser stati la penalizzazione decisiva per Casson. Per quanto l’ex magistrato non sia annoverabile tra il cerchio magico renziano, il sostegno del premier non gli ha giovato.

Non è un paradosso, ma l’esatta conseguenza di quello che si determina quando un candidato viene identificato con il governo. Quando il capo del governo si sovrappone a quello del partito, il voto, anche se locale, diventa inevitabilmente un voto al governo e il candidato spesso subisce il dissenso su di lui insieme a quello sul governo e sul loro reciproco sostenersi.

Che gli elettori del M5S abbiano abbandonato Casson al suo destino era del resto inevitabile, proprio perché ben oltre l’apprezzamento per Casson (che pure si era pronunciato ripetutamente a favore di una collaborazione con i grillini) la volontà di colpire il governo Renzi è risultata essere maggiore di quella di sostenere un candidato onesto e dalla storia specchiata.

Per i grillini non fa molta differenza la vittoria del centrodestra o del centrosinistra e il non comprendere la distanza sarà anche un limite di quel popolo; ma è altrettanto vero che se invece di proporre un progetto ed un programma di alternativa si propone solo il meno peggio, se la vicinanza tra coloro che dovrebbero battersi risulta evidente, allora diventa legittima anche l’equidistanza. E la vittoria nei ballottaggi siciliani dei 5 stelle indica una crescita del movimento che ora risce a misurarsi anche sui temi dei singoli territori. Naturale credere che la sua capacità d'attrattiva aumenterà ulteriormente.

Non si capisce proprio chi e perché, al di fuori del PD, avrebbe dovuto correre a sostenere i candidati del partito di governo. Non a caso dove i candidati del PD si sono affermati è perché le figure presentate brillano di luce propria, cacicchi e capipopolo forti del loro insediamento territoriale, che non obbediscono a Renzi e che si sono ben guardati dall’averlo vicino nella campagna elettorale.

La lezione subìta alle amministrative vale anche per le politiche. Se Renzi aveva immaginato nel suo Italicum un’idea di vittoria derivante da un ballottaggio tra PD da un lato e Forza Italia-Lega dall’altro, contando che il voto grillino arrivasse al secondo turno a sostegno del centrosinistra, a Venezia ha avuto la conferma di come, prima che un obbrobrio, l’Italicum sia un errore di valutazione colossale, tipico di un personale politico non all’altezza per competenza, esperienza e capacità politica.

Immaginare un sistema bipolare in un quadro tripolare è già abbastanza idiota, ma pensare che il terzo blocco elettorale si sposti su quello di prossimità, significa non cogliere come l’unica vera prossimità ed affinità sia rappresentabile proprio nella somiglianza tra PD e PDL, suggellata dal patto del Nazareno e confermata dall’azione di governo quotidiana. Di conseguenza, con il voto o anche solo con l’astensione, chi rifiuta l’indegna mescolanza non darà mai il suo voto.

L’altro errore, non meno grave, è aver ritenuto Berlusconi e il berlusconismo ormai archiviati, magari con l’illusione che le simpatie per il nuovo mandarino e il suo cerchio magico, fatto di ancelle furbette e filibustieri con il colpo in canna, potesse comportare una migrazione di voti dal centrodestra al centrosinistra.

Errore madornale: l’unica migrazione è stata quella dell’elettorato di sinistra che è rimasto a casa o ha scelto i 5 stelle. Renzi dovrebbe almeno farsi spiegare una regola elettorale semplice: non si tratta solo di sommare voti nuovi, ma di non perdere quelli che si avevano. Succede infatti che prendere voti nuovi non sempre fa vincere, ma lasciare quelli vecchi quasi sempre fa perdere.

Quanto a Berlusconi è tutt’altro che sepolto: pur privo di quella forza e quella spregiudicatezza di un tempo, è comunque un personaggio capace di far convergere sul suo nome un elettorato che viaggia intorno al 20 per cento. Un elettorato comunque disponibile ad una convergenza con la destra più oscurantista se il patto politico con la Lega e il neofascismo (due entità ormai inscindibili) viene in qualche modo garantito da Forza Italia nella vesta di azionista di maggioranza della bad company.

Berlusconi e Salvini hanno un'identica consapevolezza: nessuno dei due, senza l'altro, può vincere. Ma Salvini sa che Berlusconi dispone di risorse in grado di unire le varie anime della destra, mentre la Lega e Casa Pound insieme non potrebbero mai presentarsi agli occhi del'elettorato moderato come una soluzione praticabile e vincente.

Il renzismo è già in affanno, però lo strascico negativo di una concezione de-ideologizzata della politica è ancora tutto da vivere. Il PD, privo di ogni riferimento ideale ed etico persino, viene ormai - anche quando così non è - identificato con il partito del malaffare e della corruzione, dell’incapacità di governare e delle ambizioni smodate. Sebbene la destra italiana sia per definizione una combriccola di affaristi e corrotti, priva di dignità ideologica e imperniata solo sul qualunquismo, l’elettorato progressista non perdona al centrosinistra di somigliargli ogni giorno di più.

Il Presidente del Consiglio, che pure all’inizio aveva incantato i più ingenui, ormai si è rivelato ormai in tutto il suo progetto. Appetito vorace su enti, banche ed aziende di stato destinate ad allargare l’area di consolidamento presso i poteri forti; concezione spiccata del comando in superamento all’arte di governo; instaurazione di un cerchio magico di fedelissime e fedelissimi al netto di qualunque qualità con lo scopo di azzerare il personale politico del PD; pressioni violente sul sistema mediatico utile alla diffusione urbi et orbi della sua persona; disegno riformatore destinato a comprimere i capisaldi democratici del sistema al fine di azzerarne anche quel residuo di sovranità politica. Quanto allo stile personale, esso si è caratterizzato per una diffusa arroganza verso la sua sinistra e simultanei abbracci verso la destra.

La stessa azione di governo, del resto, ha confermato la tendenza al regime autoritario: eliminazione del sistema di tutele per il lavoro, di cui l’abolizione dell’art. 18 è solo il primo passaggio: si proseguirà con l’abolizione dei contratti nazionali di lavoro per rendere il sindacato un inutile residuo delle politiche industriali e la contrattazione collettiva un lontano ricordo. Quindi le mani sull’istruzione, che insieme alla sanità ed al sistema previdenziale formano le grandi praterie dove far correre i profitti dei grandi gruppi bancari ed assicurativi ai quali è particolarmente legato. Politiche sociali ambigue, con elemosine scambiate per welfare e welfare concepito come elemosina.

Lavoratori, pensionati, studenti e professori, pubblica amministrazione ed Enti Locali, sono stati i bersagli scelti da Renzi per autopromuoversi verso padronato, banche e istituzioni sovrannazionali affatto trasparenti. Spartito sotto dettatura di Marchionne, Guerra e Carrai, mentre a Camusso e Landini si riservano gli insulti.

Resta agli atti un rovescio elettorale storico per quello che fu un partito del centrosinistra, caduto in mano ad una congrega di apprendisti stregoni improvvisamente sentitisi la mano sinistra di dio. Intanto, in attesa che Landini scelga cosa fare da grande, aspettando che la minoranza del PD scelga di che morte morire spalmata sulle poltrone che la “ditta” gli garantisce, l’onda lunga del berlusconismo ha ripreso a spazzare le coste.

A mettersi in favore, come si fosse su una tavola di wind surf, accarezzandola e senza mai contrastarla, nella speranza di andare in alto e rimanere in piedi, si finisce per affogare.

di Antonio Rei

Dopo lo spettacolo di Ventimiglia è difficile credere ancora in un progetto politico unitario per l'Europa. Il mancato accordo sulla proposta della commissione Juncker, che prevede la redistribuzione continentale dei richiedenti asilo, è già un fatto grave, ma ha perlomeno un peso politico generale e si può credere che le parti abbiano bisogno di tempo per ragionare sui dettagli.

Vedere però i gendarmi e i poliziotti francesi che bloccano il confine e caricano la folla per impedire il passaggio a poche decine di perone disperate smonta questa illusione. E non per l'impatto emotivo prodotto da quelle immagini, capaci di generare a loro volta una forma di populismo uguale e contraria a quella cavalcata da leghisti o lepenisti.

Si tratta di piuttosto dell'ennesima dimostrazione di un fenomeno paneuropeo. Per non perdere consenso e voti, diversi Paesi centrali dell'Ue, fra cui la Francia, non esitano a rinnegare la forma di solidarietà più elementare, quella dovuta a un essere umano che cerca di sopravvivere. Non devono fare nemmeno lo sforzo di superare uno scrupolo morale, assumendosi la responsabilità di decidere della vita o della morte di chi chiede aiuto. All'Europa lontana dalle coste africane basta girare la testa e scaricare il barile.

Quello dei migranti dalla Libia è un problema italiano per ragioni geografiche e in pochi sono disposti a condividerlo. Fra tutti i membri dell'Unione (con la poco rilevante eccezione di Malta) il nostro Paese è l'unico a non potersi concedere il lusso dell'ignavia, perché solo nel nostro caso l'indifferenza sarebbe causa diretta di stragi a ripetizione. Tanto è vero che la Germania non ha esitato a sospendere Schengen, mentre l’Austria - interpretando in chiave egoistica il Regolamento Dublino II, che obbliga i profughi a rimanere nel Paese in cui sbarcano - ci rispedisce i migranti arrivati dall'Italia, ma evita accuratamente di fermare quelli che dal suo territorio cercano di varcare il nostro confine. 

"Nei prossimi giorni - ha detto il premier Matteo Renzi al Corriere della Sera - ci giochiamo molto dell'identità europea e la nostra voce si farà sentire forte perché è la voce di un Paese fondatore. Se il consiglio europeo sceglierà la solidarietà, bene. Se non lo farà, abbiamo pronto il piano B. Ma sarebbe una ferita innanzitutto per l'Europa. Vogliamo lavorare fino all'ultimo per dare una risposta europea. Per questo vedrò nei prossimi giorni Hollande e Cameron e riparlerò con Juncker e Merkel. In Europa va cambiato il principio sancito da Dublino II e votato convintamente da chi oggi protesta contro il nostro governo".

Per il momento, il Presidente del Consiglio deve fare i conti con l'ultima bozza del documento preparatorio del Consiglio europeo in agenda per il prossimo 26 giugno. Il testo incentiva gli Stati a rimpatriare subito i migranti economici illegali, anche grazie a una non meglio precisata "mobilitazione di tutti gli strumenti possibili", ma non spende nemmeno una parola sulla questione più urgente, ovvero il protocollo da adottare nei confronti dei profughi che hanno i requisiti per ottenere l'asilo politico.

L'obiettivo principale è portare la quota dei rimpatri oltre il 39,9% registrato nel 2013 attraverso un potenziamento di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere (che ha il suo quartier generale a Varsavia, anziché in Sicilia...). Le altre misure previste comprendono anche la "velocizzazione dei negoziati con i paesi terzi (non solo quelli in rima linea); lo sviluppo di regole nel quadro della Convenzione di Cotonou; il monitoraggio dell’attuazione degli Stati della direttiva sui rientri".

Non si parla invece dei 40 mila eritrei e siriani (24 mila dall’Italia e 16 mila dalla Grecia) che secondo quanto stabilito il 27 maggio scorso dalla Commissione Juncker dovrebbero essere spartiti fra gli Stati Ue. Quello che l'Esecutivo europeo vuole imporre è un obbligo e sembra che sia proprio questo aspetto a incontrare l'ostilità della maggior parte dei Paesi - in primo luogo la Spagna -, che vorrebbero accogliere i profughi su base volontaria, evitando così di creare un precedente che in futuro potrebbe rivelarsi pericoloso.

Francia e Germania - secondo alcune fonti europee - sarebbero disposte ad accettare temporaneamente i profughi ad una condizione: che Italia e Grecia s'impegnino a fare un lavoro migliore in termini di fotosegnalazioni e raccolta d'impronte digitali dei profughi, così da ridurre i casi in cui è difficile ricostruire il luogo di sbarco. Un dettaglio che la dice lunga su quanto Parigi e Berlino siano disponibili a cambiare le regole attuali.


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