di Fabrizio Casari

Dopo la sberla presa più o meno ovunque in lungo e largo del Paese, Matteo Renzi non ha ritenuto di dover riflettere sulla ormai evidente fine della luna di miele con gli italiani, anzi. Si è ben guardato dall’interpretare il voto contro il governo e contro il Presidente del Consiglio, come pure è lampante. Avrebbe potuto cogliere l’occasione per fermarsi a riflettere su come ormai venga percepito dagli italiani che votano chiunque purché sia un suo avversario. E invece no.

Nella convinzione che il risultato elettorale sia colpa di “gufi”, “rosiconi” e “profeti di sventura”, si è messo in ascolto dei cartomanti variamente allocati nelle redazioni dei principali media ed ha deciso che l’unico modo per riprendere il consenso perso a sinistra è quello di continuare a colpire ancora la sinistra e il mondo del lavoro.

In preda ad un delirio di autocompiacimento davvero ingiustificabile, visti i risultati, dopo la sberla nelle urne ha stabilito l’esistenza di un “Renzi 1” decisionista e veloce che è stato soppiantato dal “Renzi 2” che di grazia lui reputa “dialogante e accondiscendente”. A questo punto il Renzi 3 tornerà ai fasti del Renzi 1. C’è da crederci. Il primo segnale lo si è visto con lo scarico di Marino da Roma, in tutto simile a quanto avvenne con Letta a Palazzo Chigi, con il famoso “Enrico stai sereno”.

Con un atteggiamento ricattatorio e vendicativo, ha quindi minacciato il Parlamento dal mantenere gli emendamenti al suo disegno di legge sulla scuola pena la mancata assunzione dei 100.000 precari. Come il bambino viziato che porta via il gioco se non vince, si è presentato a Porta a Porta dal suo agiografo e gemello di nei ed ha annunciato l’intenzione di addossare all’opposizione alla sua controriforma la mancata assunzione dei precari.

Un comportamento ignobile dal punto di vista politico ed indegno da quello umano, a maggior ragione per chi nemmeno un giorno della sua vita ha dovuto recarsi al lavoro.

Ci sono due aspetti da evidenziare nella vicenda scuola: l’assunzione dei precari, che Renzi spaccia come fiore all’occhiello della sua riforma, non sono parte della riforma. Sono in realtà un obbligo imposto dall’Europa che ha letteralmente ordinato l’assunzione di 150.000 precari. Dunque l’unica cosa che Renzi ha messo di suo è la riduzione da 150.000 a 100.000 delle assunzioni.

Non c’è nessun rapporto tra la riforma della scuola e l’assunzione dei docenti precari. L’assunzione dei 150.000 precari, così come prevede la sentenza della Corte Europea di Giustizia, può essere ordinata con un Decreto, anzi dovrebbe esserlo.

La riforma, invece, ha un suo percorso legislativo complesso e tempi tutt’altro che simili ad un Decreto. Mettere in relazione il primo col secondo è una mossa della disperazione prima ancora che un ricatto ignobile.

Quanto all’idea che gli emendamenti siano troppi, emerge la natura del kim-il-sung di Pontassieve, il quale ritiene che il Parlamento non possa svolgere la funzione che istituzionalmente gli spetta, ovvero quella di legiferare. Nel suo modello nordcoreano il Parlamento si limita a ratificare le leggi che lui propone.

Ma dalle riforme alla politica economica, dalla politica estera all’immigrazione, Renzi non è in grado di avere né un piano A, né uno B. Non ha nessuna capacità di elaborazione, non rappresenta altro che gli interessi di chi lo ha voluto a Palazzo Chigi (ben ricordati dall’ex direttore del Corsera, Ferruccio De Bortoli) e ha nel ricatto continuo e nell’arroganza dei modi contenuti e stile del governare.

Il personaggio ha ormai la sua capacità di valutazione fortemente annebbiata dall’ego smisurato e dall’appetito smodato. Mentre infatti minaccia il Parlamento con la mancata assunzione dei precari della scuola se non lo fanno contento, lavora alacremente - ed ormai apertamente - per mettere le mani sul denaro della Cassa Depositi e Prestiti, attualmente diretta da Franco Bassanini. Per carità, Bassanini non è intoccabile, né qualcuno è in ansia per il suo personale destino; dopo essersi seduto su ogni poltrona possibile ne troverà un’altra.

Ma la questione è: perchè Renzi vuole a tutti i costi allungare le mani sull'istituto pubblico? Presto detto: la Cassa depositi e Prestiti é un istituto pubblico controllato dallo Stato attraverso il Ministero dell'economia. Il suo scopo originario (dal 1850) era la raccolta del risparmio postale dei cittadini e, dal 2003, è diventata una SpA controllata al 70% dallo Stato e al 30% da 66 fondazioni bancarie. Dalla raccolta del risparmio la sua attività si è ampliata all'intervento nella finanza italiana e in quella internazionale.

La CDP non ha finalità istituzionali direttamente riconducibili a Palazzo Chigi, ma è un istituto solido, detentore pressocchè unico di liquidità (stimata in oltre 230 miliardi di euro) e non intossicato da derivati. Dunque l’idea è quella, attraverso uno spoil system di cui non si avverte l'urgenza, di mettere i suoi uomini dove ci siano risorse, in questo caso pare sia Costamagna il destinato. Idea del resto coerente con la pervicacia dimostrata nel piazzare i suoi sottopancia nei ruoli-chiave delle aziende di Stato e negli interessi evidenti dei suoi supporters nella finanza, nell’economia e nella politica, che ormai impone anche a chi vuole voltarsi dall’altra parte un giudizio attento e severo.

Renzi e la sua banda sono da un anno all’attacco di tutto ciò che produce denaro e potere ed è arrivato il momento che il Parlamento, in uno scatto di dignità, rimandi a casa il bullo affamato e riapra una dialettica parlamentare soffocata dal sistematico ricorso alla fiducia e alle minacce.

La durata della legislatura non può rappresentare l'unico scopo per il mantenimento in vita di un governo che ha peggiorato tutti gli indicatori e si è rivelato incapace di cogliere i pur timidi segnali di ripresa europea, preferendo concentrarsi sulla guerra ai lavoratori, ai pensionati, agli stuenti e ai sindacati.

Si dice che Mattarella abbia cominciato a vagliare le candidature per una eventuale successione a Renzi, ma l'esito di una eventuale crisi parlamentare è ora difficile da ipotizzare concretamente.

Resta però il fatto che con un quadro politico incartato, con un partito di maggioranza ridotto ad una lotta intestina di camarille e affari, un governo mai eletto ed un primo ministro che si sente un imperatore, non è pensabile proseguire. E non c’è altra strada che uscire dal commissariamento politico del Paese e riconsegnare la parola agli elettori, che hanno visto passare tre governi sulla loro pelle senza averli mai votati.

di Fabrizio Casari

La debacle elettorale del renzismo è il vero dato politico della tornata elettorale amministrativa, conclusasi ieri con la sconfitta storica di Venezia, città da due decenni in mano al cento sinistra, anche quando la regione risultava essere uno dei principali feudi del centrodestra italiano. Il pur bravo Felice Casson, benché in vantaggio al primo turno, è riuscito a farsi superare dal candidato del centrodestra.

Solo La Repubblica può scrivere che Casson ha perso per non essere renziano, alla lingua pendula non c’è rimedio. Invece, così come già successo con la Paita in Liguria e con la Moretti in Veneto, gli abbracci e la spinta di Renzi sembrano esser stati la penalizzazione decisiva per Casson. Per quanto l’ex magistrato non sia annoverabile tra il cerchio magico renziano, il sostegno del premier non gli ha giovato.

Non è un paradosso, ma l’esatta conseguenza di quello che si determina quando un candidato viene identificato con il governo. Quando il capo del governo si sovrappone a quello del partito, il voto, anche se locale, diventa inevitabilmente un voto al governo e il candidato spesso subisce il dissenso su di lui insieme a quello sul governo e sul loro reciproco sostenersi.

Che gli elettori del M5S abbiano abbandonato Casson al suo destino era del resto inevitabile, proprio perché ben oltre l’apprezzamento per Casson (che pure si era pronunciato ripetutamente a favore di una collaborazione con i grillini) la volontà di colpire il governo Renzi è risultata essere maggiore di quella di sostenere un candidato onesto e dalla storia specchiata.

Per i grillini non fa molta differenza la vittoria del centrodestra o del centrosinistra e il non comprendere la distanza sarà anche un limite di quel popolo; ma è altrettanto vero che se invece di proporre un progetto ed un programma di alternativa si propone solo il meno peggio, se la vicinanza tra coloro che dovrebbero battersi risulta evidente, allora diventa legittima anche l’equidistanza. E la vittoria nei ballottaggi siciliani dei 5 stelle indica una crescita del movimento che ora risce a misurarsi anche sui temi dei singoli territori. Naturale credere che la sua capacità d'attrattiva aumenterà ulteriormente.

Non si capisce proprio chi e perché, al di fuori del PD, avrebbe dovuto correre a sostenere i candidati del partito di governo. Non a caso dove i candidati del PD si sono affermati è perché le figure presentate brillano di luce propria, cacicchi e capipopolo forti del loro insediamento territoriale, che non obbediscono a Renzi e che si sono ben guardati dall’averlo vicino nella campagna elettorale.

La lezione subìta alle amministrative vale anche per le politiche. Se Renzi aveva immaginato nel suo Italicum un’idea di vittoria derivante da un ballottaggio tra PD da un lato e Forza Italia-Lega dall’altro, contando che il voto grillino arrivasse al secondo turno a sostegno del centrosinistra, a Venezia ha avuto la conferma di come, prima che un obbrobrio, l’Italicum sia un errore di valutazione colossale, tipico di un personale politico non all’altezza per competenza, esperienza e capacità politica.

Immaginare un sistema bipolare in un quadro tripolare è già abbastanza idiota, ma pensare che il terzo blocco elettorale si sposti su quello di prossimità, significa non cogliere come l’unica vera prossimità ed affinità sia rappresentabile proprio nella somiglianza tra PD e PDL, suggellata dal patto del Nazareno e confermata dall’azione di governo quotidiana. Di conseguenza, con il voto o anche solo con l’astensione, chi rifiuta l’indegna mescolanza non darà mai il suo voto.

L’altro errore, non meno grave, è aver ritenuto Berlusconi e il berlusconismo ormai archiviati, magari con l’illusione che le simpatie per il nuovo mandarino e il suo cerchio magico, fatto di ancelle furbette e filibustieri con il colpo in canna, potesse comportare una migrazione di voti dal centrodestra al centrosinistra.

Errore madornale: l’unica migrazione è stata quella dell’elettorato di sinistra che è rimasto a casa o ha scelto i 5 stelle. Renzi dovrebbe almeno farsi spiegare una regola elettorale semplice: non si tratta solo di sommare voti nuovi, ma di non perdere quelli che si avevano. Succede infatti che prendere voti nuovi non sempre fa vincere, ma lasciare quelli vecchi quasi sempre fa perdere.

Quanto a Berlusconi è tutt’altro che sepolto: pur privo di quella forza e quella spregiudicatezza di un tempo, è comunque un personaggio capace di far convergere sul suo nome un elettorato che viaggia intorno al 20 per cento. Un elettorato comunque disponibile ad una convergenza con la destra più oscurantista se il patto politico con la Lega e il neofascismo (due entità ormai inscindibili) viene in qualche modo garantito da Forza Italia nella vesta di azionista di maggioranza della bad company.

Berlusconi e Salvini hanno un'identica consapevolezza: nessuno dei due, senza l'altro, può vincere. Ma Salvini sa che Berlusconi dispone di risorse in grado di unire le varie anime della destra, mentre la Lega e Casa Pound insieme non potrebbero mai presentarsi agli occhi del'elettorato moderato come una soluzione praticabile e vincente.

Il renzismo è già in affanno, però lo strascico negativo di una concezione de-ideologizzata della politica è ancora tutto da vivere. Il PD, privo di ogni riferimento ideale ed etico persino, viene ormai - anche quando così non è - identificato con il partito del malaffare e della corruzione, dell’incapacità di governare e delle ambizioni smodate. Sebbene la destra italiana sia per definizione una combriccola di affaristi e corrotti, priva di dignità ideologica e imperniata solo sul qualunquismo, l’elettorato progressista non perdona al centrosinistra di somigliargli ogni giorno di più.

Il Presidente del Consiglio, che pure all’inizio aveva incantato i più ingenui, ormai si è rivelato ormai in tutto il suo progetto. Appetito vorace su enti, banche ed aziende di stato destinate ad allargare l’area di consolidamento presso i poteri forti; concezione spiccata del comando in superamento all’arte di governo; instaurazione di un cerchio magico di fedelissime e fedelissimi al netto di qualunque qualità con lo scopo di azzerare il personale politico del PD; pressioni violente sul sistema mediatico utile alla diffusione urbi et orbi della sua persona; disegno riformatore destinato a comprimere i capisaldi democratici del sistema al fine di azzerarne anche quel residuo di sovranità politica. Quanto allo stile personale, esso si è caratterizzato per una diffusa arroganza verso la sua sinistra e simultanei abbracci verso la destra.

La stessa azione di governo, del resto, ha confermato la tendenza al regime autoritario: eliminazione del sistema di tutele per il lavoro, di cui l’abolizione dell’art. 18 è solo il primo passaggio: si proseguirà con l’abolizione dei contratti nazionali di lavoro per rendere il sindacato un inutile residuo delle politiche industriali e la contrattazione collettiva un lontano ricordo. Quindi le mani sull’istruzione, che insieme alla sanità ed al sistema previdenziale formano le grandi praterie dove far correre i profitti dei grandi gruppi bancari ed assicurativi ai quali è particolarmente legato. Politiche sociali ambigue, con elemosine scambiate per welfare e welfare concepito come elemosina.

Lavoratori, pensionati, studenti e professori, pubblica amministrazione ed Enti Locali, sono stati i bersagli scelti da Renzi per autopromuoversi verso padronato, banche e istituzioni sovrannazionali affatto trasparenti. Spartito sotto dettatura di Marchionne, Guerra e Carrai, mentre a Camusso e Landini si riservano gli insulti.

Resta agli atti un rovescio elettorale storico per quello che fu un partito del centrosinistra, caduto in mano ad una congrega di apprendisti stregoni improvvisamente sentitisi la mano sinistra di dio. Intanto, in attesa che Landini scelga cosa fare da grande, aspettando che la minoranza del PD scelga di che morte morire spalmata sulle poltrone che la “ditta” gli garantisce, l’onda lunga del berlusconismo ha ripreso a spazzare le coste.

A mettersi in favore, come si fosse su una tavola di wind surf, accarezzandola e senza mai contrastarla, nella speranza di andare in alto e rimanere in piedi, si finisce per affogare.

di Antonio Rei

Dopo lo spettacolo di Ventimiglia è difficile credere ancora in un progetto politico unitario per l'Europa. Il mancato accordo sulla proposta della commissione Juncker, che prevede la redistribuzione continentale dei richiedenti asilo, è già un fatto grave, ma ha perlomeno un peso politico generale e si può credere che le parti abbiano bisogno di tempo per ragionare sui dettagli.

Vedere però i gendarmi e i poliziotti francesi che bloccano il confine e caricano la folla per impedire il passaggio a poche decine di perone disperate smonta questa illusione. E non per l'impatto emotivo prodotto da quelle immagini, capaci di generare a loro volta una forma di populismo uguale e contraria a quella cavalcata da leghisti o lepenisti.

Si tratta di piuttosto dell'ennesima dimostrazione di un fenomeno paneuropeo. Per non perdere consenso e voti, diversi Paesi centrali dell'Ue, fra cui la Francia, non esitano a rinnegare la forma di solidarietà più elementare, quella dovuta a un essere umano che cerca di sopravvivere. Non devono fare nemmeno lo sforzo di superare uno scrupolo morale, assumendosi la responsabilità di decidere della vita o della morte di chi chiede aiuto. All'Europa lontana dalle coste africane basta girare la testa e scaricare il barile.

Quello dei migranti dalla Libia è un problema italiano per ragioni geografiche e in pochi sono disposti a condividerlo. Fra tutti i membri dell'Unione (con la poco rilevante eccezione di Malta) il nostro Paese è l'unico a non potersi concedere il lusso dell'ignavia, perché solo nel nostro caso l'indifferenza sarebbe causa diretta di stragi a ripetizione. Tanto è vero che la Germania non ha esitato a sospendere Schengen, mentre l’Austria - interpretando in chiave egoistica il Regolamento Dublino II, che obbliga i profughi a rimanere nel Paese in cui sbarcano - ci rispedisce i migranti arrivati dall'Italia, ma evita accuratamente di fermare quelli che dal suo territorio cercano di varcare il nostro confine. 

"Nei prossimi giorni - ha detto il premier Matteo Renzi al Corriere della Sera - ci giochiamo molto dell'identità europea e la nostra voce si farà sentire forte perché è la voce di un Paese fondatore. Se il consiglio europeo sceglierà la solidarietà, bene. Se non lo farà, abbiamo pronto il piano B. Ma sarebbe una ferita innanzitutto per l'Europa. Vogliamo lavorare fino all'ultimo per dare una risposta europea. Per questo vedrò nei prossimi giorni Hollande e Cameron e riparlerò con Juncker e Merkel. In Europa va cambiato il principio sancito da Dublino II e votato convintamente da chi oggi protesta contro il nostro governo".

Per il momento, il Presidente del Consiglio deve fare i conti con l'ultima bozza del documento preparatorio del Consiglio europeo in agenda per il prossimo 26 giugno. Il testo incentiva gli Stati a rimpatriare subito i migranti economici illegali, anche grazie a una non meglio precisata "mobilitazione di tutti gli strumenti possibili", ma non spende nemmeno una parola sulla questione più urgente, ovvero il protocollo da adottare nei confronti dei profughi che hanno i requisiti per ottenere l'asilo politico.

L'obiettivo principale è portare la quota dei rimpatri oltre il 39,9% registrato nel 2013 attraverso un potenziamento di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere (che ha il suo quartier generale a Varsavia, anziché in Sicilia...). Le altre misure previste comprendono anche la "velocizzazione dei negoziati con i paesi terzi (non solo quelli in rima linea); lo sviluppo di regole nel quadro della Convenzione di Cotonou; il monitoraggio dell’attuazione degli Stati della direttiva sui rientri".

Non si parla invece dei 40 mila eritrei e siriani (24 mila dall’Italia e 16 mila dalla Grecia) che secondo quanto stabilito il 27 maggio scorso dalla Commissione Juncker dovrebbero essere spartiti fra gli Stati Ue. Quello che l'Esecutivo europeo vuole imporre è un obbligo e sembra che sia proprio questo aspetto a incontrare l'ostilità della maggior parte dei Paesi - in primo luogo la Spagna -, che vorrebbero accogliere i profughi su base volontaria, evitando così di creare un precedente che in futuro potrebbe rivelarsi pericoloso.

Francia e Germania - secondo alcune fonti europee - sarebbero disposte ad accettare temporaneamente i profughi ad una condizione: che Italia e Grecia s'impegnino a fare un lavoro migliore in termini di fotosegnalazioni e raccolta d'impronte digitali dei profughi, così da ridurre i casi in cui è difficile ricostruire il luogo di sbarco. Un dettaglio che la dice lunga su quanto Parigi e Berlino siano disponibili a cambiare le regole attuali.

di Antonio Rei

"Qualcosa non ha funzionato". Sembra esordire bene Matteo Renzi quando sabato, durante un'intervista fiume con Ezio Mauro, inizia a parlare della riforma della scuola. Peccato che si tratti solo di quella grottesca figura retorica tanto cara al nostro Premier: la finta ammissione di colpa (un po' gigiona) che solitamente precede il colpo di frusta dirigista.

"Il colpevole sono io, riaprirò la discussione", dice il Presidente del Consiglio riferendosi alla gigantesca opposizione sindacale e sociale che si è sollevata contro la legge Renzi-Giannini. Subito dopo, però, si concede una di quelle esilaranti gag che lasciano intendere chiaramente quali siano le sue reali intenzioni di dialogo: "Non è possibile... Assumiamo 100mila persone - sottolinea -, mettiamo un miliardo in più e li abbiamo fatti arrabbiare. Io non cerco alibi, cerco soluzioni. Se è così è colpa mia. Ho fatto un capolavoro a far arrabbiare tutti...".

Come a dire: io cerco di cambiare le cose e questi comunisti ammuffiti non capiscono che sto facendo loro del bene. E' sempre questo il sottotesto ipocrita alle parole del Premier, abilissimo a non citare neanche per sbaglio i veri punti centrali della riforma e gli aspetti su cui si concentra la contestazione generale.

Di sicuro non si tratta delle assunzioni, anche perché quelle, vale la pena di ripeterlo fino alla noia, sono l'unico punto del disegno di legge che non è stato scritto dall'attuale Governo. A imporle è una sentenza della Corte europea, che lo scorso 26 novembre si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente abbia diritto all'assunzione. Sotto questo profilo, quando l'Esecutivo ci ha messo del suo è stato solo per ridurre di un terzo il numero degli insegnanti da stabilizzare: inizialmente Renzi aveva promesso l'assunzione di 148mila lavoratori, numero che si è poi misteriosamente ridotto a 100mila.

Com'è ovvio, il problema della Buona Scuola non è neanche nei soldi stanziati per l'edilizia scolastica (anche se ancora non è chiaro quanti siano davvero e, soprattutto, da dove arrivino). Casomai, a voler parlare di denari, uno degli abomini previsti dalla riforma è il bonus fiscale stanziato per chi intende mandare i figli, fino alla terza media, in una scuola parificata (leggi cattolica), tanto più assurdo perché non è limitato da alcun tetto di reddito: spetterà anche ai figli di notai e chirurghi.

"Le priorità sono due: risorse per l'edilizia e stop alle classi pollaio", dice il Premier, ma non è così. Il vero cuore della riforma è la definitiva aziendalizzazione della scuola pubblica italiana alla luce del modello anglosassone, dove l'istruzione è un business, gli alunni sono clienti e gli insegnanti nulla più che impiegati aziendali chiamati a soddisfare l'utenza.

Questa prospettiva si realizza con la figura del super-preside, il top manager a cui sarà affidato il potere di scegliere i docenti e i collaboratori, assegnando incarichi e supplenze anche senza specifica abilitazione. Non ci vuole Sherlock Holmes per prevedere che una norma simile si trasformerà in un incentivo agli accordi sottobanco, una novità di cui forse non avevamo bisogno, essendo già il Paese con il tasso di corruzione più alto d'Europa.

Eppure, le cose stanno così: chiunque penserà che il preside possa chiedere  tangenti, appoggi politici o favori sessuali in cambio di un poso di lavoro nella propria scuola commetterà sicuramente peccato, ma, parafrasando Andreotti, in molti casi indovinerà.


"Rimetteremo mano al testo - ha chiosato Renzi -, ma non cederemo a chi si crede intoccabile. Io non faccio tutto bene, ci metteremo una settimana in più, ascolteremo tutte le voci e ci arriveremo". Anche questo è ormai un classico della retorica renziana, una variazione sul tema del "si discute con tutti ma poi si decide", con il sottinteso "e alla fine si fa come dico io". Peccato per il Pd che anche studenti (maggiorenni) e insegnanti abbiano diritto di voto. E che dovrebbero essere un pilastro del corpo elettorale di sinistra.

di Antonio Rei

Più che del Partito democratico, le ultime elezioni regionali sono state la sconfitta di Matteo Renzi. Il Premier-segretario, tanto per cambiare, si bulla, sostenendo che il 5-2 sia comunque un risultato positivo per il centrosinistra, perché conferma i rapporti numerici precedenti. Ma non è così. E' vero che il Pd ha guadagnato per il rotto della cuffia la Campania - dove Caldoro si era presentato con una squadra ancora più improponibile di quella messa insieme da De Luca - ma ha lasciato per strada un'altra roccaforte storica, la Liguria.

A ben vedere, il partito di governo è stato battuto soltanto nelle Regioni in cui correvano candidati imposti da Renzi (Paita e Moretti), mentre ha vinto laddove erano in lizza nomi che con il segretario non avevano nulla a che vedere (Rossi, Marini, Emiliano e Ceriscioli, oltre al buon De Luca). Le due débacle hanno però un peso specifico molto diverso.

La sconfitta della Moretti era più che attesa: impensabile trovare il modo di rubare al sovrano gelatinato Luca Zaia le chiavi del regno veneto. A impressionare sono però le proporzioni della disfatta.

Era lecito aspettarsi un distacco di quattro, forse di cinque punti percentuali; invece la renziana dell'ultima ora (già, perché fino alle ultime politiche era la portavoce di Pier Luigi Bersani) è stata più che doppiata dall'avversario leghista: addirittura 50,08 a 22,74%. Con una differenza del genere non si può nemmeno dire di aver perso, perché di fatto la partita non si è giocata, è stata assegnata a tavolino.

A livello politico, in ogni caso, l'importanza maggiore è da attribuire al caso ligure. Con il suo 27,84%, Raffaella Paita, preferita a Sergio Cofferati dopo le solite primarie sporcate dal sospetto dei brogli, è arrivata più vicina alla terza classificata (la grillina Alice Salvatore, che ha preso il 24,84%), piuttosto che al berlusconiano di ferro Giovanni Toti, che ha trionfato con il 34,44% delle preferenze.

Sono bastate due sortite del Cavaliere in riviera per strappare al Pd una regione storicamente rossa, e questo la dice lunga sull'adeguatezza della candidatura imposta con ottusa presunzione da Renzi. E' infatti assolutamente ridicolo sostenere che la débacle ligure sia colpa dello scisma di Pippo Civati a sinistra o dal ricompattamento a destra di Forza Italia con Ncd, che ha sostenuto Toti.

Per quanto pittoreschi risultino i due fenomeni, in nessuna dimensione spazio-temporale la loro somma ha la potenza di fuoco di spostare quasi il 7% dei voti. E sostenere una tesi del genere, come non ha mancato di fare l'ineffabile Debora Serracchiani (un'altra delle banderuole neorenziane), vuol dire avere più fantasia del fratelli Grimm o essere semplicemente (e goffamente) in malafede.

La verità è soltanto che gli elettori liguri conoscono lo scempio che in tanti anni Claudio Burlando ha fatto della loro regione, e si sono rifiutati di dare la presidenza della giunta alla sua diretta emanazione. Hanno detto no al candidato vicino a Renzi, che ancora una volta si è rivelato un rottamatore soltanto a chiacchiere.

Non solo. La sconfitta del Pd renziano in Liguria, ancor più di quella in Veneto, è spia di un fenomeno ormai attivo su scala nazionale e di cui il Premier farebbe bene a prendere atto quanto prima. Il principio di fondo, in verità, dovrebbe essere intuitivo: se fai la guerra a tutte le categorie sociali che ti dovrebbero votare, nelle urne non potrai che essere punito.

il dato saliente è che il PD ha perso più di 2 milioni di voti. Che Renzi affermi oggi che la sconfitta non lo riguardi perchè non si votava per il governo segnala solo la furberia reiterata, visto che nemmeno alle europee si votava per il governo ma il premier sìintestò personalmente l'affermazione del PD al 40,8%. Dunque se si vince vince lui, se si perde perdono gli altri.

Il 40% ottenuto dal Pd alle europee dell'anno scorso è ormai solo un pallido ricordo. Da allora, con provvedimenti ottusi e atteggiamenti di rara arroganza, Renzi è riuscito a mettersi contro una quantità record di categorie sociali: dagli imprenditori della vecchia guardia (quelli del "capitalismo di relazione") agli operai, dai sindacati ai pensionati, dagli insegnanti agli studenti, passando per i lavoratori della pubblica amministrazione e diversi tipi di professionisti.

Pensare di conservare il 40% dei voti in condizioni del genere vuol dire essere accecati da un preoccupante delirio di onnipotenza. Oppure immaginare che in Italia abbia diritto di voto soltanto Sergio Marchionne.


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