di Fabrizio Casari

Dopo la sberla presa più o meno ovunque in lungo e largo del Paese, Matteo Renzi non ha ritenuto di dover riflettere sulla ormai evidente fine della luna di miele con gli italiani, anzi. Si è ben guardato dall’interpretare il voto contro il governo e contro il Presidente del Consiglio, come pure è lampante. Avrebbe potuto cogliere l’occasione per fermarsi a riflettere su come ormai venga percepito dagli italiani che votano chiunque purché sia un suo avversario. E invece no.

Nella convinzione che il risultato elettorale sia colpa di “gufi”, “rosiconi” e “profeti di sventura”, si è messo in ascolto dei cartomanti variamente allocati nelle redazioni dei principali media ed ha deciso che l’unico modo per riprendere il consenso perso a sinistra è quello di continuare a colpire ancora la sinistra e il mondo del lavoro.

In preda ad un delirio di autocompiacimento davvero ingiustificabile, visti i risultati, dopo la sberla nelle urne ha stabilito l’esistenza di un “Renzi 1” decisionista e veloce che è stato soppiantato dal “Renzi 2” che di grazia lui reputa “dialogante e accondiscendente”. A questo punto il Renzi 3 tornerà ai fasti del Renzi 1. C’è da crederci. Il primo segnale lo si è visto con lo scarico di Marino da Roma, in tutto simile a quanto avvenne con Letta a Palazzo Chigi, con il famoso “Enrico stai sereno”.

Con un atteggiamento ricattatorio e vendicativo, ha quindi minacciato il Parlamento dal mantenere gli emendamenti al suo disegno di legge sulla scuola pena la mancata assunzione dei 100.000 precari. Come il bambino viziato che porta via il gioco se non vince, si è presentato a Porta a Porta dal suo agiografo e gemello di nei ed ha annunciato l’intenzione di addossare all’opposizione alla sua controriforma la mancata assunzione dei precari.

Un comportamento ignobile dal punto di vista politico ed indegno da quello umano, a maggior ragione per chi nemmeno un giorno della sua vita ha dovuto recarsi al lavoro.

Ci sono due aspetti da evidenziare nella vicenda scuola: l’assunzione dei precari, che Renzi spaccia come fiore all’occhiello della sua riforma, non sono parte della riforma. Sono in realtà un obbligo imposto dall’Europa che ha letteralmente ordinato l’assunzione di 150.000 precari. Dunque l’unica cosa che Renzi ha messo di suo è la riduzione da 150.000 a 100.000 delle assunzioni.

Non c’è nessun rapporto tra la riforma della scuola e l’assunzione dei docenti precari. L’assunzione dei 150.000 precari, così come prevede la sentenza della Corte Europea di Giustizia, può essere ordinata con un Decreto, anzi dovrebbe esserlo.

La riforma, invece, ha un suo percorso legislativo complesso e tempi tutt’altro che simili ad un Decreto. Mettere in relazione il primo col secondo è una mossa della disperazione prima ancora che un ricatto ignobile.

Quanto all’idea che gli emendamenti siano troppi, emerge la natura del kim-il-sung di Pontassieve, il quale ritiene che il Parlamento non possa svolgere la funzione che istituzionalmente gli spetta, ovvero quella di legiferare. Nel suo modello nordcoreano il Parlamento si limita a ratificare le leggi che lui propone.

Ma dalle riforme alla politica economica, dalla politica estera all’immigrazione, Renzi non è in grado di avere né un piano A, né uno B. Non ha nessuna capacità di elaborazione, non rappresenta altro che gli interessi di chi lo ha voluto a Palazzo Chigi (ben ricordati dall’ex direttore del Corsera, Ferruccio De Bortoli) e ha nel ricatto continuo e nell’arroganza dei modi contenuti e stile del governare.

Il personaggio ha ormai la sua capacità di valutazione fortemente annebbiata dall’ego smisurato e dall’appetito smodato. Mentre infatti minaccia il Parlamento con la mancata assunzione dei precari della scuola se non lo fanno contento, lavora alacremente - ed ormai apertamente - per mettere le mani sul denaro della Cassa Depositi e Prestiti, attualmente diretta da Franco Bassanini. Per carità, Bassanini non è intoccabile, né qualcuno è in ansia per il suo personale destino; dopo essersi seduto su ogni poltrona possibile ne troverà un’altra.

Ma la questione è: perchè Renzi vuole a tutti i costi allungare le mani sull'istituto pubblico? Presto detto: la Cassa depositi e Prestiti é un istituto pubblico controllato dallo Stato attraverso il Ministero dell'economia. Il suo scopo originario (dal 1850) era la raccolta del risparmio postale dei cittadini e, dal 2003, è diventata una SpA controllata al 70% dallo Stato e al 30% da 66 fondazioni bancarie. Dalla raccolta del risparmio la sua attività si è ampliata all'intervento nella finanza italiana e in quella internazionale.

La CDP non ha finalità istituzionali direttamente riconducibili a Palazzo Chigi, ma è un istituto solido, detentore pressocchè unico di liquidità (stimata in oltre 230 miliardi di euro) e non intossicato da derivati. Dunque l’idea è quella, attraverso uno spoil system di cui non si avverte l'urgenza, di mettere i suoi uomini dove ci siano risorse, in questo caso pare sia Costamagna il destinato. Idea del resto coerente con la pervicacia dimostrata nel piazzare i suoi sottopancia nei ruoli-chiave delle aziende di Stato e negli interessi evidenti dei suoi supporters nella finanza, nell’economia e nella politica, che ormai impone anche a chi vuole voltarsi dall’altra parte un giudizio attento e severo.

Renzi e la sua banda sono da un anno all’attacco di tutto ciò che produce denaro e potere ed è arrivato il momento che il Parlamento, in uno scatto di dignità, rimandi a casa il bullo affamato e riapra una dialettica parlamentare soffocata dal sistematico ricorso alla fiducia e alle minacce.

La durata della legislatura non può rappresentare l'unico scopo per il mantenimento in vita di un governo che ha peggiorato tutti gli indicatori e si è rivelato incapace di cogliere i pur timidi segnali di ripresa europea, preferendo concentrarsi sulla guerra ai lavoratori, ai pensionati, agli stuenti e ai sindacati.

Si dice che Mattarella abbia cominciato a vagliare le candidature per una eventuale successione a Renzi, ma l'esito di una eventuale crisi parlamentare è ora difficile da ipotizzare concretamente.

Resta però il fatto che con un quadro politico incartato, con un partito di maggioranza ridotto ad una lotta intestina di camarille e affari, un governo mai eletto ed un primo ministro che si sente un imperatore, non è pensabile proseguire. E non c’è altra strada che uscire dal commissariamento politico del Paese e riconsegnare la parola agli elettori, che hanno visto passare tre governi sulla loro pelle senza averli mai votati.

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