di Fabrizio Casari

L’ipotesi di una legge che introduca il reato di tortura nel nostro paese scatena grandi polemiche politiche con il contorno buffonesco di propaganda elettorale. Le norme previste dalla legge in discussione sono per lo meno blande, molto al di sotto di quanto altri paesi europei prevedono e non si riferiscono solo alla specie riguardanti l’operato dei pubblici ufficiali ma anche quelle dei singoli cittadini, com’è ovvio. Le proteste dei sindacati di polizia, per quanto scontate, sono quindi difficilmente comprensibili.

Perché mai una legge che non punisce l’uso della forza ma il suo abuso dovrebbe rappresentare un problema? L’abuso, quale che sia l’ambito in cui si manifesta, rappresenta di per sé una violazione. Perché dovrebbe essere punito quando operato da semplici cittadini e non invece quando sia perpetrato da chi indossa una divisa?

Le forze dell’ordine, che hanno come scopo fondativo quello di far rispettare la legalità, hanno la legittimità di ignorare o violare la legge che devono difendere? Ovvero: il loro comportamento può essere al di sopra della legge?

C’è da sottolineare come l’Italia sia uno dei pochi paesi al mondo che non ha il reato di tortura nel suo Codice Penale. Benché il nostro sia uno dei paesi con i codici più pesanti per il numero delle violazioni che si prevedono, curiosamente sulla tortura c’è stata qualche distrazione. Eppure, in Europa, l’Italia risulta presente nelle peggiori classifiche per quanto attiene al rispetto dei diritti dei detenuti, della lunghezza dei processi e dell’impunità dei reati commessi dagli apparati dello Stato, palesi o occulti che siano.

Dunque, sebbene blanda e decisamente al di sotto di quanto sarebbe necessario, una legge che punisca il reato di tortura desta polemiche accese perché interrompe una storia lunga di diritto parallelo: quello valido per chinque e quello per chi opera al servizio del potere.

Ciò che più indispone i sindacati di polizia è l’identificabilità degli agenti nel loro operare. E perché mai? Visto che gli agenti in servizio di pattugliamento sono indirettamente identificabili, dal momento che i mezzi dai quali scendono sono rintracciabili, così come lo sono i nomi di chi vi era a bordo nel momento in cui l’eventuale abuso fosse stato consumato. Perché allora per gli agenti in servizio di ordine pubblico non si dovrebbe poter identificare che commettesse abusi?

Comprensibile che i sindacati di polizia non vogliano l’esposizione di una targhetta d’identificazione con nome e cognome, ma la presenza di un numero visibile sul casco, mentre rende impossibile al comune cittadino conoscere sul momento le generalità dell’agente, consente al ministero di poter individuare facilmente di chi si tratta.

In questo modo, peraltro, si determinerebbe una selezione semplice ed immediata nelle eventuali sanzioni, identificando i soggetti con precisione e non i raparti nella loro complessità.

Dunque non vi sono ragioni oggettive, se si ritiene di dover operare nel rispetto della legge e dei poteri e limiti che le legge impone, di impedire che l’operato degli agenti sia monitorato e valutato. Se non lo si vuole è perché si ritiene di dover temere la fine della stagione della totale impunità.

Le proteste dei sindacati di polizia sono quindi sintomatiche di una concezione del ruolo istituzionale di diritto e di fatto che si ritiene legittimo: quello che assegna alle forze dell’ordine un ruolo superiore a quello che la legge gli assegna.

Il rifiuto dell’identificazione per i comportamenti illegali ( e spesso criminali, viste le violenze gratuite su manifestanti inermi e la morte per botte di persone in mano alle forze dell’ordine) significa che si pretende la conservazione assoluta del malinteso privilegio di poter operare sulla base di istinti ideologici e certezza dell’immunità nell’esercizio delle proprie funzioni.

Non è una esagerazione. Il recente esempio del dirigente della Polfer che inneggiava a Hitler e augurava il rogo per gli immigrati, o quello dell’agente in servizio la notte della macelleria cilena al G8 di Genova, che rivendicava la giustezza del massacro a manifestanti inermi, hanno infatti in comune l’appartenenza ideologica al neofascismo da parte dei due poliziotti e offrono spiegazioni convincenti sul loro operato. Non a caso chi si è immediatamente distinto nel sostegno ai sindacati di polizia è l’estrema destra, Salvini in testa, seguito da personaggi come Gasparri, e qui la questione diventa quindi meno seria.

Salvini ritiene che “la polizia deve fare il suo lavoro” e offre così, con un’affermazione freudiana, la sostanza di quello che pensa. In sostanza ritiene che la polizia debba poter fare quello che vuole senza curarsi molto delle conseguenze, che sarebbero affari di chi le subisce. Non apporta un gande contributo alla causa della polizia, ma tant'è.

Non parlava così Salvini quando la polizia fece irruzione nel covo della Lega in Via Bellerio, quando definì con Bossi l’operato delle forze dell’ordine come “lo stato coloniale che manda gli sbirri”. Cannoni sugli immigrati e botte sui residenti: deve essere stato il bagno di cultura nelle università di Tirana che ha portato la Lega a nuove riflessioni sul tema dei diritti.

Ormai tutti sanno chi è Salvini, dunque non stupisce che, come su ogni tema, cerchi la risposta più ignorante e approssimativa possibile. Lo fa perché vive in propaganda elettorale 24 ore al giorno, saltando su ogni telecamera accesa. E lo fa tanto per solleticare l’istinto più basso dell’elettorato, quanto perché un ragionamento complesso gli risulta oltremodo ostico per la sua capacità di elaborazione di temi, anche i più semplici.

Ma volendo ampliare le conoscenze di Salvini con uno sguardo che vada oltre il Po, un po' più a sud di Pontida, si possono trovare interessanti ispirazioni. Il Messico, cimitero a cielo aperto e laboratorio globale per l’applicazione delle più feroci tecniche di repressione, negli ultimi due anni ha visto sporgere 1241 denunce per tortura, ma solo 7 (!) di queste hanno passato il primo step giudiziario. Non fosse che il Messico è il maggior fornitore di migranti del mondo, ci sarebbe da pensare che sia quello messicano il modello cui s’ispira lo xenofobo Salvini. Per dare una mano, il Trota è già lì che lo studia.

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