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di Fabrizio Casari
L’ennesima capriola mediatica con la quale il governo è riuscito ad addossare al M5S la colpa di una legge monca sulle unioni civili, ha segnato il definitivo ingesso nella maggioranza di governo degli ascari guidati da Denis Verdini. Un dato politico non riassumibile in un ambito di tecnica parlamentare al quale si somma l’ennesimo distinguo della minoranza del PD, autentico ectoplasma politico che in luogo di una linea politica esprime lamenti. Responsabile prima dell’ascesa di questo nuovo gruppo di potere vorace e privo di etica e poi, da due anni, di imbastire un inutile minuetto.
Questo nuovo quadro di governo, fatto di nuovi arrivi e nuove defezioni, di cambi di casacche identitarie in favore della formazione di un nuovo, autentico soggetto politico, racconta di una definitiva mutazione genetica ormai intervenuta nel PD, cha dismette completamente l’identità progressista e muove a passi decisi verso il cosiddetto Partito della Nazione.
Che però, a ben vedere, per le dinamiche che innesta ed il rullo compressore che mette in campo nell’occupazione assatanata di ogni spazio di potere ed influenza, è con tutta evidenza un partito degli affari di osservanza toscana, i cui riferimenti sembrano essere più quelli di una congrega di amici affamati di bottino che non di un gruppo dirigente.
Sul piano squisitamente teorico, però, il cosiddetto Partito della Nazione altro non se non la versione 2.0 della Democrazia Cristiana. Di quell’eredità politica Renzi appare il più fedele interprete e lo stesso oscillare tra posizioni apparentemente diverse sotto il profilo della cultura politica che esprimono (non c’è dubbio che la legge sulle Unioni Civili non è farina del sacco della storia della DC) non è in contraddizione con la rinascita dello scudo crociato del terzo millennio. La DC, del resto, conteneva anime diverse, persino antagoniste tra loro, senza che ciò ne alterasse in profondità l’approccio ideologico fondamentale, basato sul anticomunismo ed Atlantismo e la fedeltà ai dettami vaticani.
Non a caso, sotto la spinta della società che trovava nel PCI e nella sinistra extraparlamentare l’espressione politica e sociale che drenava la costante modificazione in senso progressista del costume nazionale, determinando un senso comune diverso prima ancora che una linea politica precisa, la stessa Democrazia Cristiana approvò importanti riforme sul piano socioeconomico che, complessivamente, offrirono al nostro Paese una delle migliori versioni del welfare a livello europeo.
Ciò perché era fortemente radicata nella stessa DC una cultura assistenzialista che di fronte alle stagioni di proteste per il cambiamento del Paese mirava al contenimento delle contraddizioni sociali e tentava di ridurre la dimensione della forbice socioeconomica proprio in funzione di pacificazione sociale.
In Renzi prevale la cultura cattolica dell’elemosina, lo stile delle Dame di San Vincenzo. Oltre che al meschino calcolo elettorale nell’elargizione di bonus (tutti annunciati e pochi realizzati), il sapore degli 80 Euro a chi già ne guadagna 1600 e i 500 ai giovani (che non arriveranno mai) hanno decisamente il sapore di un’elemosina, soprattutto perché restano sul tavolo il dramma della disoccupazione, gli esodati, la mancata riforma delle pensioni che preveda l’uscita anticipata con una penalizzazione (unica soluzione per il ricambio generale degli occupati e per intervenire sugli over 55 senza lavoro e senza pensione).
Su questi temi, dove servirebbe una politica economica, Renzi balbetta e scimmiotta le tesi monetariste che fanno della bassa inflazione l'obiettivo primario. Così aumenta il prelievo fiscale per finanziare i suoi bonus elettorali, mentre riduce ulteriormente le prestazioni del welfare quando un loro aumento avrebbe invece stimolato la domanda aggregata e stabilizzati i consumi. E l'Italia sprofonda.
Ciò che di progressista resta nel PD, ovvero alcuni suoi esponenti e diversi suoi militanti, deve quindi cogliere l’occasione del Congresso per decidere se permangono margini di compatibilità tra la loro cultura politica di provenienza e il disegno del Partito della Nazione. Anche perché una dimensione interclassista e priva di riferimenti ideali e culturali condannata alla navigazione a vista.
E’ allora giunto il momento di produrre uno scatto di reni da parte di quanti vivono da due anni tra le virgole e le parentesi di un discorso che ormai anche i ciechi sanno leggere. Se si vuole contrastare il dogma ultraliberista che condanna all’estinzione della civiltà sociale e politica il Paese, serve la nascita di un nuovo polo della sinistra, che rimetta al centro il lavoro e i diritti, la ricerca di un equilibrio progressista nel sistema Italia.
Serve un progetto politico che cerchi, di fronte alle sfide del terzo millennio, una voce per gli ultimi, un’idea dello sviluppo di un paese che guardi all’interesse generale ed alla compatibilità tra diritti sociali e sviluppo economico.
Il Congresso del PD sarà per Renzi l’occasione per lo sterminio finale di tutti coloro che non s’inginocchiano e non vi sarà margine sostanziale per i distinguo. Dunque, qualunque ipotesi di condizionamento dall’interno è destinata a fare la fine della cavalleria polacca nel ’39.
Il congresso è l’ultima spiaggia per gli indecisi a tempo indeterminato. La rottura dell’architettura renziana è condizione imprescindibile per far ripartire una cultura critica di cui tutto il Paese ha bisogno. Si tratta di ricostruire e servono architetti e muratori, ma senza grembiulino. A meno di non voler morire democristiani dopo aver vissuto da vassalli.
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di Antonio Rei
Dopo ben nove anni passati al Quirinale a seguito di una rielezione inattesa, speravamo di esserci liberati di Giorgio Napolitano. Invece no. L’ex Presidente della Repubblica non si gode la pensione facendo il nonno a tempo pieno, ma esercita ancora un ruolo di peso nei rapporti fra Italia e Ue. La settimana scorsa il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, è venuto in visita a Roma. La logica, la prassi e l’etichetta istituzionale lasciavano supporre che la prima meta del numero uno di Bruxelles sarebbe stata Palazzo Chigi. Macché: ancor prima d’incontrare Matteo Renzi, Juncker si è recato in visita dal buon vecchio Re Giorgio.
Un appuntamento a dir poco irrituale, durato più o meno 45 minuti e al termine del quale non è stata concessa ai giornalisti neppure una foto ricordo. E’ stato lo stesso Juncker a pubblicare su Twitter le uniche due immagini del colloquio, seguite da un cinguettio in italiano: “Con il mio caro amico Napolitano. Sempre vivo il suo grande spirito europeo”.
L’ex Capo di Stato italiano, invece, ha fatto sapere che “l'incontro è stato estremamente amichevole e ha consentito di puntualizzare insieme il quadro delle sfide che l'Unione Europea, e in particolare la Commissione presieduta da Juncker, sta in questo momento fronteggiando”.
Non è inutile polemica chiedersi a quale titolo l’ex presidente, ora solo senatore a vita, dunque privo di incarichi istituzionali, incontri il capo della Commissione europea ancor prima del Primo Ministro. Un incontro amichevole? A questo punto la domanda sorge spontanea: quanto è stretta ancora questa “amicizia”? Quanto è ancora “vivo” il “grande spirito europeo” del Presidente che ha massacrato l’Italia? Ciò che più ha caratterizzato il “novennato” di Napolitano è stato proprio il suo servilismo nei confronti di Bruxelles e di Francoforte, di cui ha pedissequamente eseguito ogni ordine.
Sull’altare europeo l’ex Capo di Stato ha sacrificato ogni cosa, perfino il rispetto della volontà popolare: prima con l’imposizione dall’alto dell’infausto governo Monti, poi con il lavoro più sotterraneo e meno dannoso per portare a Palazzo Chigi l’amorfo Enrico Letta (una manovra che, per la verità, è stata possibile solo grazie all’inettitudine politica di Pier Luigi Bersani), successivamente con l’arrivo di Renzi, mai votato, mai eletto e nonostante ciò delegato alla restaurazione politica del Paese in nome degli interessi di chi ce lo ha imposto.
Ora, è evidente che i contenuti del recente colloquio Juncker-Napolitano non verranno mai alla luce. Ma anche sorvolando sulla sostanza e limitandosi alla forma, è ovvio che la scelta del capo della Commissione Ue di recarsi dal “caro amico Giorgio” prima che dal meno affettuoso “friend Matteo” non è casuale né priva di significato. Arriva dopo un periodo di altissima tensione con il governo italiano e subito prima di un cessate il fuoco stipulato per pura convenienza politica, perché in questo momento sono altri i Paesi di cui Bruxelles deve preoccuparsi (Portogallo, Irlanda, Austria, Ungheria, Grecia…).
Secondo i retroscena, quando l’acredine fra Roma e Bruxelles ha toccato il livello più alto, dalla Commissione sarebbe partita una telefonata al Quirinale per chiedere al Presidente di tirare le briglie a Renzi, colpevole di aver usato toni eccessivamente duri contro le politiche europee. Mattarella però, che siede sulla sua poltrona proprio grazie a Renzi, avrebbe rifiutato di prodursi in qualsivoglia ingerenza, per rispettare l’obbligo d’imparzialità che il ruolo di garante della Costituzione gli impone.
Uno scrupolo che Napolitano non si è mai nemmeno sognato, meritandosi così la perpetua stima di Bruxelles, che infatti - dopo il fallimento con Mattarella - è tornata prontamente a chiedere aiuto al suo vecchio amico. Il quale ha obbedito con solerzia, riproponendosi in una lunga intervista a La Repubblica come garante degli interessi europei in Italia.
Il messaggio che emerge da tutto questo sembra abbastanza chiaro. La prima autorità politica che Bruxelles riconosce in Italia è ancora quella di Napolitano: con lui Bruxelles si relaziona in via preferenziale, a lui si rivolge quando i governanti di turno a Roma si permettono di alzare troppo la voce. E non è un caso che il bullo di Pontassieve, come già un mese prima con la Cancelliera Merkel, abbia di nuovo calato le braghe.
La dietrologia serve a poco e spesso è dannosa, ma pensare che il colloquio della settimana scorsa sia stato un semplice ritrovo fra compagni di bevute, impegnati a discutere genericamente delle sfide che l’Ue “sta in questo momento fronteggiando”, è quantomeno inverosimile. Quando si va a casa del burattinaio, di solito, si parla delle marionette. Di quelle che oggi occupano il teatrino e, magari, di quelle che un giorno le rimpiazzeranno.
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di Fabrizio Casari
La scelta della destra di presentare candidati a sindaco Parisi a Milano e Bertolaso a Roma può risultare ardua per certi aspetti, incomprensibile per altri o inevitabile per altri ancora. Un elemento accomuna i due candidati: nessuno dei due dispone di un profilo elettorale vincente, ovvero d un carisma e di un seguito popolare che potrebbero coagulare il consenso necessario a vincere.
E se per Parisi ci si potrebbe limitare a questo, visto che sul piano politico non è certamente più a destra di Sala, per Bertolaso c’è l’aggravante un profilo giudiziario e il tratto arrogante di un personaggio famoso soprattutto per i lavori incompiuti e gli intrecci serrati con una rete di corruttela. Un candidato sotto processo per corruzione nella Roma di Mafia Capitale è azzeccato tanto quanto proporre Erode come preside di un asilo infantile.
C’è sicuramente un tema di rapporti di forza interni al centro destra. Berlusconi non ci pensa nemmeno a mettere il suo peso elettorale e i suoi interessi nelle mani della Meloni o di Salvini, e questo già chiude il discorso delle candidature. La scelta di Parisi e Bertolaso si deve alla ritrovata leadership del Cavaliere, che ha già dimostrato con Toti in Liguria di vedere più lontano dei suoi scherani.
Resta però il dato politico sul quale vale la pena riflettere: perché Berlusconi propone ed impone candidati che, salvo terremoti (ci perdoni Bertolaso l’involontario accostamento) non possono vincere? Paola Taverna, deputata grillina che non spicca per garbo e stile, sostiene che la volontà è quella di far vincere il Movimento 5 Stelle. Motivo? Impegnarli nella gestione di una città che ha enormi problemi e mettere così in difficoltà il M5S che, alla prova del governo, evidenzierebbe i suoi limiti e lo renderebbe agli occhi degli elettori inadatto alla guida del Paese.
E’ tesi non nuova ma autocentrata, che scambia un effetto collaterale per l’obiettivo e non risulta particolarmente intelligente diffonderla, infatti il compito viene assegnato alla Taverna. Perché se questo fosse l’obiettivo - ovvero indebolire l’appeal del M5S attraverso la consegna di quella che essi stessi sembrano temere come una polpetta avvelenata così da renderli poi meno papabili per la conquista del governo nazionale - i grillini dovrebbero fare salti di gioia all’idea di una competizione in discesa. Purtroppo invece, l’incapacità di governo delle città da parte dei pentastellati non ha bisogno di trovare conferme a Roma, già i casi di Parma e Livorno (tra gli altri) risultano illuminanti.
Peraltro, i ridicoli meccanismi di selezione nel M5S, l’assenza frequente di competenza politica e la dinamica nordcoreana della vita interna, rendono il movimento di Casaleggio capace di perdere senza bisogno di contributi esterni. Semmai la Taverna dovrebbe dirci se riservano per Roma un candidato a sindaco privo di ogni qualità ed esperienza come gli autocandidati sul blog. Se ritiene cioè che si possa governare la città più antica del mondo senza aver mai amministrato nemmeno un condominio ed avendo come unica dote qualche click nella Rete, oltre alla benedizione dell’inquietante Casaleggio.
Lasciamo perdere quindi i deliri della Taverna sui complotti per far vincere i 5 stelle (anche perché non si capisce quale sarebbe la strategia per far naufragare il complotto: perdere?) la questione romana e milanese è invece altro e, oltre che ai rapporti di forza interni alla destra, ha a che vedere con il rapporto tra PD e Forza Italia.
Torniamo così al nocciolo della questione. E’ vero che la destra ha poche o nessuna possibilità di vincere grazie ai candidati che mette in campo, ma questo corrisponde all’applicazione del Patto del Nazareno. Berlusconi sceglie di non vincere proprio perché in nessun modo vuole che Renzi venga disarcionato dalla guida del PD.
Pur di mantenere in vita il patto del Nazareno, quello di perdere a Roma e a Milano è un prezzo che Berlusconi paga volentieri, peraltro le città non rivestono particolare importanza nel disegno complessivo degli interessi berlusconiani. Altro che i comuni di Roma e Milano: è il patto la garanzia per gli interessi della famiglia e, affinché esso venga rispettato, c’è bisogno di salvare il soldato Renzi.
Cosa non semplice. Seppellito dai conflitti d’interesse tra il giglio magico e il sistema bancario, privo di abilità politica nella relazione con l’Europa, alla quale si limita a chiedere benevolenza, Renzi attraversa una fase molto difficile.
Brilla per l’inefficacia dell’azione di governo che, nonostante le vessazioni su ogni settore produttivo, pur offrendo mance mentre toglie diritti e pur in presenza di una congiuntura economica internazionale straordinariamente positiva, non ha saputo costruire il rilancio della domanda interna ed aumentare il PIL migliorandone così anche il suo rapporto con il deficit. L’Italia si trova così all’ultimo posto in Europa per la ripresa economica e ai primi per disoccupazione. Le slides non bastano a ridare linfa.
E se in Europa la delusione per Renzi monta inesorabilmente, in Italia è persino peggio. Emerge un generale convincimento di come il governo Renzi sia in realtà l’espressione di un gruppo di potere emergente e assatanato, che ha deciso di arraffare il bottino a qualunque costo e che, privo di vision politica, limita il presunto profilo riformatore al riuscire mettere i suoi affiliati nei posti dove scorre il denaro e il potere.
Berlusconi sa fiutare il vento che spira dall’Europa e nel contempo conosce ancor meglio come salvaguardare i suoi interessi, primo fra tutti il mantenimento del patto con Renzi. Egli va quindi salvato sia a Montecitorio (compito delegato a Verdini, finto scissionista) per garantire il proseguo del governo, che nelle grandi città per garantirne la leadership nel PD.
Perché se Renzi, dopo aver perso Venezia e la Liguria (e apprestandosi a perdere anche Napoli) perdesse anche Milano e Roma, il bilancio della sua gestione del PD diverrebbe insostenibile. Le stesse ricadute sul governo già indebolito sarebbero pesanti, dal momento che un numero sensibile di suoi parlamentari, che di Renzi e della sua gang non ne possono più, ove il capo del governo non fosse anche il segretario del loro partito non avrebbero più remore nell’inasprire lo scontro politico interno nell’aula.
I rumors di questi giorni sembrano poi confermare un lavorio intenso verso l’uscita anticipata da Palazzo Chigi dell’usurpatore. L’appetito famelico rischia di strozzarlo. Troppa la foga impiegata nell’arraffare tutto, giungendo persino a provocare i Servizi Segreti sulla nomina del suo amico Carrai al vertice della gestione informatica, ovvero il suo cuore pulsante.
Ha dovuto fare marcia indietro, perché in questo caso non si tratta più del governo, qui si tocca il potere vero, con i suoi referenti interni ed internazionali, che è cosa assai diversa da un governicchio. Ma l’allarme è scattato e sul giglio magico è arrivata la gelata.
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di Antonio Rei
Protestare è giusto, piace a tutti e spesso è comodo. Anche assumersi una responsabilità ogni tanto è giusto, ma non piace a tutti e non è mai comodo. Ne sa qualcosa Beppe Grillo, che a pochi giorni dalla votazione decisiva del Senato sul disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili fa marcia indietro e concede “libertà di coscienza” ai portavoce del Movimento 5 Stelle.
Il motivo? La cosiddetta “stepchild adoption”, ovvero la possibilità di adottare il figlio del partner anche all’interno di coppie omosessuali. Un punto su cui “le sensibilità degli elettori, degli iscritti e dei portavoce Movimento 5 Stelle sono varie per questioni di coscienza”, si legge sul blog.
A dire il vero, nell’ottobre del 2014 i grillini si erano espressi in una consultazione online a favore delle unioni civili. Quel documento viene oggi buttato nel cestino da Grillo perché “non era presente alcun accenno alle adozioni e gli iscritti del M5S non hanno potuto dibattere su questo argomento specifico”.
Perciò, “in seguito alle tante richieste da parte di elettori, iscritti e portavoce M5S su questo tema etico si lascia libertà di coscienza ai portavoce M5S al Senato sulle votazioni agli emendamenti della legge Cirinnà e alla legge nel suo complesso anche se modificata dagli emendamenti”.
In realtà, di stepchild adoption si parla ormai da molto tempo, per cui, volendo, il tempo di “dibattere su questo argomento specifico” non sarebbe mancato. Inoltre, per una consultazione last minute c’è sempre spazio sulla rete, quindi perché non ripetere il voto e far decidere al popolo grillino (e sovrano)? “Non si fa ricorso a un'ulteriore votazione online - spiega il post - perché su un tema etico di questa portata i portavoce M5S al Senato possono comunque, in base ai dettami della loro coscienza, votare in maniera difforme dal gruppo qualunque sia il risultato delle votazioni”. Quindi, in realtà, il tempo per dibattere non serviva.
Ne è servito poco anche per completare il giro della piroetta: nel volgere di pochi giorni, infatti, il Movimento è passato dalla minaccia di far saltare il Ddl in caso di ritocchi da parte del Pd all’inusitata scelta della libertà di coscienza (garantita dalla Costituzione, ma finora sempre vituperata dal Movimento).
A ben vedere, il ribaltone consente di sottrarsi a una responsabilità molto scomoda. Sulle unioni civili la maggioranza degli italiani è d’accordo, ma il via libera all’adozione nell’ambito di una coppia omosessuale desta molte più perplessità (anche se il punto non è concedere nuovi diritti, ma garantire ai minori ulteriori tutele, regolando per via giuridica delle situazioni che già si verificano).
Grillo e Casaleggio questo lo sanno benissimo, perciò scelgono di non scegliere, dimostrando ancora una volta la differenza che passa fra protestare e prendere posizione. Finché ci si limita alla contestazione, si ha sempre ragione, si sia ex Pci e ex Msi, centri sociali o Casa Pound, apolidi, delusi o arrabbiati vari. Quando però si tratta di realizzare qualcosa di concreto nel mondo reale, come far passare in Parlamento una legge importante, bisogna scegliere da che parte stare e affrontare il dissenso della parte avversa.
In questo caso, però, il dissenso è all’interno del Movimento. Sembra che il fronte dei contrari alla stepchild adoption fra i senatori grillini sia più ampio del previsto, perciò il tentativo d’imporre una linea sarebbe stato assai pericoloso: primo, perché un’ulteriore spaccatura fra i parlamentari del M5S si sarebbe rivelata difficile da gestire e molto scomoda in vista delle amministrative; secondo, perché in caso di voto segreto il rischio di una figuraccia sarebbe stato molto concreto.
Tutti problemi che si risolvono in scioltezza tirando fuori dal cilindro il coniglio della libertà di coscienza. E pazienza se a questo punto l’approvazione della legge torna in bilico, visto che, senza l’apporto certo di tutti i senatori grillini, la maggioranza alternativa con M5S al posto del Nuovo Centrodestra potrebbe fallire la sua missione.
Il Pd, a parole, non vorrebbe stralciare dal testo l’articolo sulla stepchild adoption, ma forse sarà costretto a farlo per non mettere a rischio l’intero disegno di legge. Il tutto per la gioia di Alfano, che potrebbe intestare a proprio merito un disastro causato dalla viltà di altri.
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di Fabrizio Casari
Se n’è andato in silenzio, a 89 anni, con la discrezione che ha caratterizzato la sua vita personale. Armando Cossutta, figura storica del comunismo italiano, ha chiuso gli occhi. Come un signore d’altri tempi, circondato dalla sua famiglia, amata più di ogni altra cosa al mondo e che da lui ha appreso il senso dell’esistenza, tutta spesa a favore della causa che sposò da giovanissimo e alla quale rimase fedele fino all’ultimo minuto.
Partigiano a diciassette anni e per tutta la vita, combattente nella Brigata Garibaldi, ebbe nella Resistenza e nella Costituzione che da essa derivò le stelle polari che ne guidarono le scelte politiche, dal PCI fino ai Comunisti Italiani. Perché Armando Cossutta ebbe non solo un ruolo straordinario nel Partito Comunista, ma anche l’ardire di dare vita ad altri due partiti comunisti, entrambe avventure che solo la stoltezza politica di Bertinotti prima e le ambizioni di Diliberto poi, riuscirono a trasformare in due feticci inutili nel panorama politico italiano.
Bastava conoscerlo per capire quanto i cliché che gli venivano affibbiati fossero del tutto fuori luogo. Venne definito filosovietico per il suo legame con Mosca, dimenticando però che quel legame non era il frutto di una scelta personale - certamente condivisa - ma riferiva di una collocazione politica del PCI tutto. E non si considerò che proprio lui, il “filosovietico”, seppe scontrarsi duramente con i vertici del PCUS quando davvero per farlo servivano convinzione politica e tempra ben diversa da quella oggi in uso. Altro che portare nel PCI le tesi di Mosca. Difese piuttosto, di fronte ai sovietici ed ai loro alleati, le scelte di politica interna ed estera del PCI; mai ebbe un dubbio su questo. Fu non a caso lui che, condannando l’invasione di Praga, dopo essersi consultato con Luigi Longo scrisse: “I confini degli ideali socialisti non collimano con quelli degli stati socialisti”.
Considerava l’Unione Sovietica un progetto incompiuto, non replicabile ma nemmeno da disprezzare; cresciuto alla leva dei migliori allievi di Luigi Longo, sapeva bene quanto ogni testo dovesse essere calato in un contesto e quanto, la pur straordinaria importanza della tattica, non dovesse mai far perdere di vista l’orizzonte strategico.
Svolse per il PCI ruoli di assoluta delicatezza e lo fece con assoluta efficacia e precisione. Guardiano severo della disciplina di partito, come ebbe a dire Berlinguer “accumulò molto potere ma senza mai abusarne”. Nella vulgata dell’approssimazione passava per essere l’uomo della conservazione, restìo ad aderire all’idea di un PCI che dovesse aprirsi, mentre in verità Cossutta, che certo era custode geloso di quella diversità e di quegli ideali, ben comprendeva le ragioni del compromesso storico e persino dell’unità nazionale, ma non poteva tollerare la discesa del suo partito e degli interessi di classe che rappresentava verso una deriva ideale e politica, che avrebbe prodotto proprio quella che lui ebbe a definire “ la mutazione genetica”.
Proprio quell’ansia smodata di modernità compatibile con il sistema che si voleva cambiare nel profondo, Cossutta considerò essere il portato di un abbandono dei principi su cui quella diversità si era forgiata. Combatté in ogni modo e luogo la battaglia per tenere il suo partito all’interno di uno schema di alleanze internazionali con il mondo socialista, che sapeva essere aggancio fondamentale contro la deriva moderata che, per quei principi, disponeva l’archiviazione.
E fu proprio in opposizione al voto favorevole all’adesione dell’Italia alla prima guerra del Golfo che decise di rompere con quella liturgia a lui così cara e votare in difformità dalle indicazioni del partito. Contrastò la Bolognina soprattutto considerando che, quel cambio di nome, era il segno simbolico e definitivo dell’abbandono di un sistema di valori sull’altare della governabilità comunque e con chiunque.
Diede quindi vita a Rifondazione Comunista pur scegliendo di non assumerne il ruolo di Segretario, proprio in ragione del fatto che il suo nome e la sua storia potevano risultare un intralcio all’allargamento verso la sinistra dispersa che voleva e seppe far convogliare nel progetto rifondativo.
Tenne insieme offrendogli una sponda politica decine di migliaia di militanti che, dopo la fine del PCI, perdevano il punto di riferimento di tutta la vita. Seppe ribellarsi al generale “rompete le righe” tanto in voga in quegli anni e ricostruì una prospettiva per chi voleva analizzare gli errori per superarli in avanti. Questo fu uno dei suoi grandi meriti: rifiutare l’abiura proposta dal pensiero unico e tentare di ricostruire una idea e una prassi della trasformazione politica rivendicando la nobiltà di quell’aggettivo qualificativo - comunista - che aveva così profondamente segnato il secolo scorso.
Ed ebbe il coraggio di riconoscere anche gli errori di quel partito comunista di cui era stato tra i massimi dirigenti. In una lettura dinamica, aperta al confronto e sensibile agli argomenti, non ebbe incertezze a riconoscere a Berlinguer di “aver avuto ragione sullo strappo, ma torto sulla deriva ideale del partito”. E, libero dai condizionamenti e aperto al dialogo ed alla riflessione con la sinistra che pure aveva una storia diversa dalla sua, si trovò con naturalezza davanti ad una platea di ex appartenenti a Lotta Continua a riconoscere gli errori del PCI negli anni dell’emergenza, affermando: “Non comprendemmo”.
Ma non è solo il dirigente politico di cui si sentirà la mancanza. Armando Cossutta è stato un uomo come pochi. E, sia concesso dirlo, anche sul piano personale fu uomo di assoluta gradevolezza. Un signore vero, una persona garbata, elegante e sobria, che sapeva voler bene e farsi voler bene da chi aveva vicino. Conscio dei suoi limiti e delle sue qualità, fu persona estremamente riservata e uomo di cultura: amava la letteratura, i classici latini, adorava la storia e la musica classica, amava con tutto se stesso i suoi tre figli e i quattro nipoti.
Il suo legame con la moglie Emilia, per tutti Emy, è stato unico ed irripetibile, nato durante la guerra e proseguito incessante e dolcissimo per tutta la vita. Per oltre settant’anni nulla decise senza la sua amata Emy, dalla quale non si separò mai nemmeno un momento e con la quale s’integrava perfettamente. Apparentemente così diversi caratterialmente, erano una persona sola. Quella in cui ritrovi te stesso e, spesso, più di te stesso.
Ed oggi, che la volgarità e il denaro hanno sostituito l’eleganza, gli ideali e la dedizione di un tempo, la figura di Armando Cossutta assume i contorni di un protagonista assoluto che vorremmo ancora fosse al suo posto di lotta. Anche questo modo che oggi definiremmo così antico di pensare ad una vita colma di passioni ideali e così priva d’interessi personali, ci mancherà. Di uomini così, di dirigenti così, si è perso lo stampo.