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di Fabrizio Casari
La notizia è passata inosservata, com'era inevitabile vista la rilevanza, ma il fatto è che l'ex sindaco di Roma, Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio, Storace, hanno deciso di tornare insieme. Questione di decimali elettorali, certo, ma indicativo di un altro passo verso la rieggregazione dell'ex Msi, poi An. Ma ai piccoli passi di un'area seguono le grandi distanze in altre attigue. Non trova pace la destra italiana.
Quella ufficiale, s’intende, che è cosa numericamente inferiore a quella diffusa, trasversale e insinuata pressoché ovunque. Ma quella ufficiale, ovvero il corpo vedovo del berlusconismo, non ha ancora trovato una collocazione, dunque nemmeno una sigla e meno che mai un leader.
Ma è in particolare l’area di ciò che un tempo fu Forza Italia a vivere nell’incertezza, priva di una prospettiva politica a breve termine. Alla permanente ricerca del “quid”, nostalgica di ciò che fu e incerta su cosa essere, la maggioranza silenziosa che si riconobbe nel miracolo berlusconiano resta in lista d’attesa. Dopo Alfano e Toti, la ricerca del successore di Berlusconi prosegue senza successo; l’ultima investitura, quella di Parisi, come le precedenti si è convertita in una morte prematura.
Berlusconi continua a detenere, teoricamente, la quota di maggioranza del pacchetto azionario, ma le convulsioni e gli sbarramenti che a giorni alterni pongono gli ex-colonnelli di AN e gli ex cortigiani di Berlusconi, le uscite dei vari Alfano e Verdini da una parte, della Meloni e di Alemanno dall’altra, aggiungono confusione e veti incrociati e rendono opaco il tutto.
La destra radicale, da parte sua, sembra voler strappare ma non lo fa: benché l’OPA di Salvini e Meloni sul centrodestra sia ormai ufficiale, la scalata è difficile. I due pasdaran, che insieme non fanno un leader, dispongono però di una quota di controllo sull’elettorato di destra che, seppure non basta per vincere, è più che sufficiente per far perdere. Dunque impossibile tenerli ai margini della ricostruzione della destra, perché quanto avvenuto nel 1994, con il partito di Berlusconi alleato con la Lega al Nord e con An al Sud non è più riproponibile, considerati i mutamenti del quadro politico ed elettorale intervenuti, tra cui appunto, la scomparsa di Forza Italia, ovvero il collante del processo.
Ma Parisi dal suo punto di vista ha ragione: nel caso i moderati del centro-destra volessero disporre di un proprio partito, allora la scelta non potrebbe certo essere quella di seguire Meloni e Salvini.
Mantenere una diversa identità tra “centro” e “destra” è molto più che non un trattino. Possono rappresentare un programma politico in comune? Oggi è quanto mai difficile. Proprio per questo, però, proprio Berlusconi dovrebbe sostenere Parisi, ma appare ormai evidente come sia proprio il Cavaliere a non voler avviare il processo di ricostruzione del centro-destra deberlusconizzato.
In fondo Berlusconi sa che le aggregazioni politiche importanti hanno bisogno di un contesto che ne favorisca la genesi. Nel 1994 la fine della DC fu la leva per la migrazione del suo elettorato verso la nuova destra; lontani dalle suggestioni fascio-legiste, milioni di italiani ritrovarono la loro collocazione politica, perché prima di essere democristiani erano soprattutto anticomunisti e ostili alla sinistra in generale.
Oggi però la collocazione al centro degli eredi della sinistra non favorisce l’innesco ideologico che ci fu nel ’94 e la questione è tutta di architettura politica. Qui risiedono le difficoltà del Cavaliere nel dare il via libera a Parisi. Da imprenditore, sa come e quando intervenire per riempire un vuoto, per intercettare una domanda di rappresentanza. E il problema è, appunto, che lo spazio che fu di Forza Italia alle origini è lo stesso su cui di dirige il Partito della Nazione dell’accoppiata Renzi-Verdini, con Alfano e i resti del CCD a seguire.
Berlusconi non cerca un nuovo leader per i moderati perché c’è già Renzi che presidia quello spazio. A Renzi, al netto delle frasi e delle smentite di circostanza, Berlusconi riconosce una sua unicità e nei suoi confronti, anche riservatamente, esprime giudizi lusinghieri. La diaspora del centrodestra gli interessa fino a un certo punto: altro che Parisi, Salvini o Toti, il suo uomo di fiducia è Denis Verdini, autentico ufficiale di collegamento con Renzi e garante del rispetto del Patto del Nazareno.
Non è quindi un caso che il cosiddetto NO di Berlusconi arrivi tanto flebile da sembrare un SI; l’ex leader del Polo auspica la vittoria di Renzi ma non può dirlo. E’ la versione berlusconiana della politica dei due forni. Solo la permanenza di Renzi sarebbe una garanzia per lui e le sue aziende. Ma, non essendo certo di cosa potrà avvenire, se cioè il garante del Patto del Nazareno avrà o no un futuro, schiera Forza Italia per il No e Mediaset per il Si. Così si tiene aperte tutte le possibilità.
Renzi, da parte sua, oltre a far conto proprio sui voti degli elettori di Forza Italia per superare il 4 Dicembre, non fa niente per deludere il Cavaliere: da tempo è all’inseguimento del berlusconismo, soprattutto sotto il profilo della comunicazione politica, al punto che ormai diventa difficile non cogliere nei suoi atteggiamenti una continua rincorsa al modello di comunicazione che fu di Berlusconi.
Convinto che l’ex-leader di Forza Italia sia il modello vincente, utilizza l’arma della spregiudicatezza politica e l’ossessiva presenza mediatica come braccia di un corpo votato definitivamente allo stesso obiettivo del suo ispiratore. L’obiettivo è chiudere con la storia della sinistra e dei sindacati. Il maestro non vi riuscì, l’allievo ci prova.
Per questo insieme di fattori, l’appuntamento referendario sarà decisivo anche per la ricostruzione del centrodestra. Oltre alla riuscita o meno del progetto di trasformare il sistema democratico in autoritario, gli elettori in ente inutile e la sinistra in destra, il 4 Dicembre sarà forse anche data decisiva per una destra che dovrà ricontarsi per provare a rifondarsi.
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di Antonio Rei
Nella corsa a ostacoli verso il referendum del 4 dicembre si è iscritto anche un nome a sorpresa. Quello di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. La campagna con cui il governo Renzi cerca disperatamente di far risalire il SÌ, che tutti i sondaggi danno in svantaggio, è costellata di tutti i colpi bassi possibili. Non era però scontato che si prestasse al gioco anche una delle istituzioni più importanti e autorevoli del nostro Paese, tenuta all’indipendenza all’imparzialità rispetto alla politica. Bankitalia, appunto.
A pagina 28 dell’ultimo “Rapporto sulla stabilità finanziaria dell’Italia”, i tecnici di Via Nazionale scrivono quanto segue: “Il differenziale fra la volatilità implicita del mercato italiano e quella dell’area dell’euro è elevato; gli indicatori segnalano un forte aumento della volatilità attesa per il mercato italiano a ridosso della prima settimana di dicembre, in corrispondenza con il referendum sulla riforma costituzionale”.
In precedenza, lo stesso Visco aveva detto la sua in modo piuttosto chiaro: "Io non so quanto inciderà l'esito del referendum. Nel mondo, è opinione diffusa che la vittoria del No potrebbe essere un problema. Io penso, e lo dico agli interlocutori esteri con i quali parlo ogni giorno, che potrà esserci un po' di tensione, ma aggiungo anche che bisognerà andare oltre la tensione, perché le riforme istituzionali vanno fatte in ogni caso".
Tutto ciò si somma alle parole di Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia, che in un’intervista di qualche settimana fa si era espresso in questi termini: “Da un punto di vista di efficienza del processo decisionale di politica economica non c’è dubbio che il bicameralismo perfetto all’italiana sia un sistema da correggere. Non a caso la comunità internazionale si è convinta trattarsi della ‘madre’ di tutte le riforme strutturali per l’Italia. Come farlo è materia di tecnica costituzionale e in fin dei conti di grandi scelte politiche, dunque è giusto che a pronunciarsi sia tutto il popolo”.
Il popolo infatti si pronuncerà, ma la posizione dell’istituto centrale - che con la politica non dovrebbe avere nulla a che fare - è assolutamente cristallina. Bankitalia vota SÌ, lo possiamo dire con certezza. Di per sé questa non è una grande sorpresa, ma a stupire sono i modi scelti da Via Nazionale per alimentare la campagna propagandistica del Governo.
L’affermazione riguardo al “forte aumento della volatilità” in corrispondenza del referendum, per di più a così breve distanza dal voto, è evidentemente l’ultima delle molte profezie di sventura pronunciate per intimorire la classe media. L’obiettivo ultimo è spingere gli indecisi a non deludere le aspirazioni dell’establishment, che farebbe di tutto pur di non rinunciare all’accentramento di potere previsto da questa riforma.
E allora ecco che Renzi prima dice di non voler fare campagna sulla paura, perché se vincesse il NO non arriverebbe l’apocalisse, poi però prospetta agli italiani uno scenario in cui con la riforma crescerebbe il Pil, mentre senza salirebbe lo spread. Anche il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha lanciato più volte lo stesso avvertimento, seppur in termini meno grossolani.
In realtà, il terrorismo psicologico del Governo sullo spread è in mala fede, poiché da anni la Bce ha messo in campo gli strumenti necessari a scongiurare qualsiasi attacco speculativo contro l’Italia. Ma anche la tempesta in Borsa paventata da Bankitalia non è poi così scontata. I titoli bancari hanno perso molto nelle ultime sedute proprio perché gli operatori stanno già traendo le conseguenze della prevedibile vittoria del NO. Se e quando questa arriverà sul serio, perciò, il mercato l’avrà già scontata, almeno in parte.
Non bisogna poi dimenticare quello che è accaduto dopo i rivolgimenti politici più assurdi di quest’anno: la Brexit e la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa. Nel primo caso il panic selling durò pochissimo e i mercati persero molto meno di quanto gli analisti avevano previsto; nel secondo, incredibilmente, le Borse mondiali hanno reagito in modo addirittura positivo, smentendo le solite Cassandre interessate che avevano previsto una perdita fino al 7% per Wall Street in caso di sconfitta di Hillary.
Ma in fin dei conti, la considerazione che più conta è un’altra. In gioco con questo referendum c’è la Costituzione italiana. La Carta più importante, quella che descrive chi siamo e che determina in che modo saremo governati. Davvero dovremmo decidere di stravolgerne 47 articoli (sì, sono 47!!) perché altrimenti cade il Governo e i mercati si agitano?
Anche ammettendo per assurdo che questo sia il Governo migliore della nostra storia e che davvero i gli investitori scateneranno l’Armageddon se lo vedono fallire, sarebbero questi dei motivi validi per votare SÌ? La risposta, anche in questo caso, è NO.
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di Fabrizio Casari
La disperazione di Renzi per le indicazioni dei sondaggi sul referendum si traduce in esternazioni catastrofiste, minacce, insinuazioni e ricatti che si succedono senza interruzione. Alle minacce di una sostanziale apocalisse, di un gigantesco meteorite che si abbatterebbe sul “futuro” nel caso di un rigetto popolare della sua controriforma, ieri si è aggiunto il “niente pasticci né governi tecnici”.
Sono balle, non ha nessuna intenzione di mollare la presa sul governo e il suo stesso partito non reggerebbe il ritorno all’opposizione, ma certo la disinvoltura con la quale si permette di disprezzare le soluzioni parlamentari al netto del voto è straordinaria. Come se lui fosse divenuto Presidente del Consiglio a seguito di un voto popolare invece che grazie ad un complotto di corte.
Quella della finta sottrazione è quindi solo fuffa propagandistica. Ed é solo l’ultima, in ordine di tempo, delle mine di profondità che Matteo Renzi lancia nella speranza di setacciare i fondali degli indecisi e per invitrea gli stakeholders di riferimento del suo governo a serrare i ranghi. Infondere il timore di una crisi di governo come conseguenza della vittoria del NO al referendum gli sembra una buona idea e aggiungere la decisione di non permettere al suo partito di partecipare a coalizioni di governo rappresenta il suo ultimo ricatto ai duri d’orecchie.
Per disegnare il profilo umano e politico di questo politicante ambizioso ed assetato di potere, basta vedere con quale garbo istituzionale ha condotto la battaglia referendaria. Nessun trucco ci è stato risparmiato. Epurazione di parlamentari contrari, chiusura di ogni spazio per il dissenso nel suo stesso partito, occupazione manu militari con presenza perenne degli organi d’informazione, in prima fila Rai, Mediaset e la grande stampa, ridotta ad house horgan di Renzi. E ancora, pressioni violente su La7 e schieramento di alcuni conduttori e opinionisti a contratto, con annessa riesumazione di alcuni reperti televisivi. Una campagna elettorale che nei modi denuncia chiaramente lo stile di governo e, nello stesso tempo, annuncia quale sarebbe il futuro di un Paese imbavagliato se vincesse il Si.
A tutto ciò ha fatto seguito la cialtronata della stesura del quesito sulla scheda. Quindi, l’ignobile scorrettezza istituzionale di rivolgersi agli italiani residenti all’estero; non per informarli sul quesito, ma con materiale di propaganda per il Si e senza citare nemmeno una delle ragioni del NO, come avrebbe dovuto.
La porcata è stata spiegata come iniziativa di partito e non di governo, ma tanto l’invio della missiva come la mobilitazione dei nostri diplomatici all’estero in suo favore, dicono il contrario e confermano, semmai, come la sovrapposizione dei due soggetti (PD e Governo) sia ormai un double-face utilizzabile per ogni sconcezza.
Se effettivamente fosse il PD a svolgere la sua propaganda, allora lo stesso PD dovrebbe intestarsi le enormi spese per la campagna elettorale del Presidente del Consiglio. Ma questo non succede. I costosissimi voli di Stato e le enormi spese di struttura per le trasferte in Italia e all'estero pesano sui conti di Palazzo Chigi e fanno parte dell’utilizzo delle risorse pubbliche di cui il governo abusa per la sua propaganda.
Ciononostante, il ducetto di Rignano sull’Arno non dorme tranquillo. La valutazione sbagliata di partenza sulla vittoria, che contava con l’assoluta popolarità positiva di Renzi e il sostegno interessato offerto dai poteri forti, ha prodotto un errore di valutazione gigantesco.
Con l’arroganza che lo contraddistingue - unica dote effettivamente riconosciuta da avversari ed alleati - Renzi ha voluto trasformare il referendum sulle modifiche alla Costituzione in un pronunciamento plebiscitario su di lui.
Ed oggi, con l’approssimarsi del voto e le indicazioni dei sondaggi sul suo possibile esito, si trova in preda ad una vera e propria crisi di panico. Di fronte a sè vede l’eventualità di veder stroncato il suo progetto di presa autoritaria del Paese e, con esso, la sua carriera. Sa perfettamente che i poteri palesi ed occulti che lo hanno insediato a Palazzo Chigi ci metterebbero poche ore a disarcionarlo per dirigere le loro attenzioni verso qualcun altro. Si potrebbe dire che meglio di lui non lo sa nessuno.
In una campagna elettorale impari per risorse, da molte parti s’invita a distinguere tra il merito del quesito e il giudizio su chi lo propone, ma questo risulta un esercizio accademico di ripiego tattico. E’ evidente come il voto sul referendum non investa, in automatico, l’azione di governo.
Ma questo in teoria, perché quando il governo abbandona ogni neutralità - come dovrebbe nel caso di un referendum costituzionale - e decide d’investire il tutto per tutto sull’esito dello stesso, diventa praticamente impossibile distinguere i due piani. Questo persino uno con un cultura istituzionale pari a zero come Renzi arriva a comprenderlo.
Altrettanto impossibile, tra l’altro, distinguere il merito del quesito dal giudizio politico sul governo e sul suo capo, anche perché i due aspetti coincidono. Del resto, il disegno di restaurazione autoritaria attraverso l’attribuzione all'Esecutivo di ogni potere d’indirizzo e di controllo che prevede la controriforma, non può che essere difeso con l’arroganza e l’approccio autoritario con la quale questo governo si caratterizza. La tecnica di comunicazione, in questo come in altri casi, è sostanza politica.
E, simultaneamente, il fiasco sostanziale di questo governo può essere occultato o sminuito solo alzando fortemente la posta, ovvero spaccando in due il Paese e paralizzandolo per mesi mentre l’urgenza socioeconomica (che solo ieri ha aggiornato in peggio i già allarmanti dati sulla disgregazione dell'Italia) è divenuta l’ultimo degli impegni.
Si può quindi anche tentare di scindere l’inscindibile, ma il percorso appare in salita e non si può nemmeno pensare che gli italiani scindano le loro opinioni politiche ed il loro stato d’animo dal testo del quesito. Lo scempio costituzionale di questa pessima controriforma si salda con l’azione politica di questo pessimo governo. Due buonissimi motivi per dire NO.
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di Antonio Rei
Ci risiamo. Dopo la truffa della scheda referendaria con il quesito-spot per il sì, il premier Matteo Renzi ha pensato bene d’inviare una lettera di propaganda ai quattro di milioni d’italiani iscritti all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Queste persone rappresentano da sole l’8% dell’elettorato italiano e saranno probabilmente decisive per l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre.
Il problema è che la missiva non contiene un testo esplicativo sulle procedure per il voto, ma di un invito esplicito a votare SÌ. E in calce c’è pure la firma di Renzi, che per l’occasione sceglie di presentarsi come segretario del Pd.
Peccato che poi inizi la lettera con un’autocelebrazione dei presunti successi ottenuti da quando è a Palazzo Chigi. Si definisce perfino «orgoglioso rappresentante del paese che tutti amiamo», cioè Presidente del Consiglio, non segretario di un partito. Da non sottovalutare poi la sua ispirazione poetica, capace di evocazioni che puntano a coinvolgere emotivamente il lettore: «Ogni viaggio all’estero - scrive Renzi - ogni volta che ho sentito risuonare l’inno di Mameli con voi, ogni volta che ho incrociato i vostri sguardi orgogliosi, ogni volta che sono riuscito a stringervi le mani». Ogni volta che ha fatto queste cose, le ha fatte come Presidente del Consiglio - aggiungiamo noi - non come segretario di un partito.
Ma la parte che più conta arriva dopo il panegirico iniziale, quando si passa alla call to action, come si dice nel gergo del marketing. «Sarete voi a decidere - si legge nel testo - se questa Italia deve andare avanti oppure deve tornare indietro... Oggi siamo a un bivio. Possiamo tornare ad essere quelli di cui all’estero si sghignazza, quelli che non cambiano mai, quelli famosi per l’attaccamento alle poltrone e le azzuffate in Parlamento. Oppure possiamo dimostrare con i fatti che finalmente qualcosa cambia, e che stiamo diventando un Paese credibile e prestigioso».
Insomma, è l’ennesimo colpo basso di questo Governo, che nonostante la solita arroganza dimostrata dai suoi rappresentanti fra salotti tv e comizi, sa bene di essere in svantaggio rispetto al NO e per questo non esita a giocare sporco pur di recuperare terreno, violando apertamente il principio della parità di condizioni fra i due schieramenti in corsa.
Il ministro Boschi ha pensato di ripulirsi l’immagine precisando che la letterina “non arriverà insieme alla scheda elettorale, ma contemporaneamente”. Un sofisma di cui non si sentiva davvero bisogno, anche perché - come detto - la stessa scheda è una truffa, dal momento che pone agli elettori una domanda tendenziosa, spudoratamente concepita per orientare le matite a mettere la croce su SÌ.
Certo, se la lettera fosse arrivata nella stessa busta della scheda avrebbero sconfinato direttamente nel territorio dell’illegalità. Ma il fatto che gli italiani all’estero riceveranno allo stesso tempo gli strumenti per votare e le istruzioni su come farlo rappresenta comunque una distorsione vergognosa della campagna elettorale.
«Man mano che emergono i particolari e i contorni, la lettera inviata da Renzi agli elettori italiani all'estero pone problemi seri e preoccupanti” ha detto Alfiero Grandi, vice presidente del Comitato per il No. «Il ricorso alla magistratura in tutte le sedi possibili - ha aggiunto - è a questo punto inevitabile per cercare di ottenere giustizia e il ripristino della parità di condizioni per il Sì e per il No in campagna elettorale».
I comitati del No hanno anche chiesto al presidente della Repubblica un incontro «urgente» per «rappresentare le gravi preoccupazioni in ordine alla correttezza della competizione referendaria con particolare riferimento agli italiani residenti all’estero».
Non possono bastare le giustificazioni della Boschi a chiudere il caso: non possiamo berci la storia dell’iniziativa referendaria autonoma da parte del Pd, visto che, come abbiamo visto, in quelle lettere Renzi parla da Presidente del Consiglio, sovrapponendo ambiguamente le cariche che ricopre (una pubblica e una privata).
L’indecenza di un gesto simile dimostra che aveva ragione De Mita quando, nel confronto diretto su La7, ha definito Renzi un uomo volgare. Non solo: a definitiva conferma della propria volgarità e dell’ipertrofia del proprio Ego, il Premier ha allegato al testo alcune fotografie che lo ritraggono con i grandi della terra, a cominciare da Barack Obama.
Il che, è evidente, non rappresenta proprio un buon auspicio per il SÌ, visto come sono andate le ultime elezioni presidenziali negli Usa. Ma per capire questo bisognerebbe saper ragionare di politica. Invece, a Palazzo Chigi, si usa praticare solo il marketing di più basso livello.
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di Fabrizio Casari
Con una decisione gravissima, presa alla chetichella e venuta alla luce solo grazie a fonti giornalistiche, il governo italiano ha deciso di inviare 140 militari in Lettonia, al confine con la Russia. Agirebbero nell'ambito di una forza multinazionale NATO sotto comando canadese - complessivamente tra i 3 e i 4mila uomini sottoposti a rotazione - che sarebbero a difesa delle frontiere esterne con la Russia nelle repubbliche baltiche e nella Polonia orientale, in ottemperanza a quanto deciso dal recente vertice NATO di Varsavia. La notizia, emersa da un'intervista al segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, è stata confermata dai ministri Pinotti e Gentiloni.
La presenza dei nostri militari è illegittima, dal momento che si dà in assenza di una decisione del Parlamento italiano, letteralmente bypassato in spregio alla prassi istituzionale che vede la possibilità d’invio all’estero di militari solo a seguito di un voto del Parlamento.
E’ gravissimo che un governo mai eletto, con un premier screditato ed un ministro della Difesa tra i meno influenti nella storia repubblicana utilizzi lo schermo dell’Alleanza Atlantica per scavalcare il Parlamento e, con esso, la sovranità nazionale del nostro Paese. Sembra essere la prova generale di come dovrebbero funzionare Camera e Senato in caso di vittoria dei SI al referendum costituzionale. L’intero arco dell’opposizione, dalla Meloni a Grillo, a SEL, ha duramente protestato per una decisione che appare un inchino alla NATO ed un insulto all’Italia e ai suoi interessi.
In particolare Grillo, che ha affermato: "Renzi china la testa, ma l'invio di 150 uomini in Lettonia è inaccettabile. Questa azione è sconsiderata, è contro gli interessi nazionali, espone gli italiani a un pericolo mortale ed è stata intrapresa senza consultare i cittadini. L'Italia non ci guadagna nulla e ci perde tantissimo. In termini di sicurezza nazionale questa missione rischia di esporre il nostro Paese al dramma della guerra. Ci riporta indietro di trent'anni e alza nuovi muri con la Russia, che per noi è un partner strategico e un interlocutore per la stabilizzazione del Medio Oriente".
Priva di ragioni e densa solo di possibili rischi per il nostro Paese, l’operazione militare in corso è un importante tassello nella strategia statunitense e tedesca che mira ad alzare al livello di guardia la tensione con Mosca. Già attaccata con ripetute provocazioni politiche e militari e con sanzioni economiche che (a parole) il Primo Ministro italiano afferma di non condividere (costano oltre 1 miliardo e trecento milioni di Euro annui al nostro export e la perdita di circa seimila posti di lavoro) la Russia subisce nei fatti un accerchiamento politico, economico e militare che pone a serio rischio la pace nel teatro europeo.
La strategia degli Stranamore occidentali sembra essere quella di testare oltre ogni prudenza la disponibilità russa ad accettare una progressiva riduzione del suo spazio geopolitico e ad essere circondata da forze militari ostili. Una strategia pericolosissima che si dispiega su livelli diversi. L’installazione di batterie missilistiche in Polonia e Ungheria, il dispiegamento di forze armate dei paesi Nato ai confini con il territorio russo, sono una delle due gambe sulle quali poggia la strategia della tensione che Unione Europea e USA hanno deciso di promuovere.
L’altra gamba è invece rappresentata dal sostegno ai movimenti di estrema destra che tentano operazioni secessioniste, dalla Georgia all’Ucraina, che azzerano la zona “cuscinetto” prudentemente decisa da diversi accordi militari tra Mosca e la NATO che Washington ha progressivamente ignorato.
La risposta russa non si è fatta attendere e, sebbene Mosca cerchi di limitare al minimo la reazione, la resistenza della popolazione del Dombass e l’autonomia della Crimea, indisponibili a farsi inglobare nel disegno del governo nazistoide ucraino, ne hanno rappresentato il primo esempio. La Russia, benché cerchi un clima positivo, non é affatto disponibile a recitare la parte dell’agnello sacrificale per l’estensione del dominio politico e militare NATO nell’Est Europa.
Ritenere di poter testare la pazienza russa, scommettere su una reazione misurata, piuttosto che su una risposta dura, significa scherzare con il fuoco. Fino a che punto si ritiene di poter minacciare Mosca senza che arrivi una risposta adeguata? Ma c’è poi un testo, oltre che un contesto. Quale sarebbe la minaccia all’Europa portata da Mosca per cui si renderebbe utile mostrare i muscoli? In quale momento la Russia ha deciso di premere sui paesi europei, così da giustificare una iniziativa militare di risposta?
E’ la partita del comando globale, aperta da Washington e Bruxelles, il vero motivo di anni di provocazioni. Perché gli Stati Uniti ritengono la crescita esponenziale del ruolo politico di Putin e l’obiettivo consolidamento della Russia nell’ambito della governance internazionale, una minaccia alla loro leadership. Questa, ampiamente ridottasi in forza della crisi economica e dall’emergere sulla scena degli equilibri mondiali nuove sfide, pensa di poter riaffermarsi attraverso il suo comando globale sul piano militare. Con questo stesso intento si cerca di alzare il tiro contro la Cina nel Pacifico, dispiegando missili e flotte nel Mar della Cina che ottengono l’effetto di far levitare la tensione con il gigante asiatico. E’ lo scontro militare il volano per l’economia malata statunitense e l’Europa, come sempre, tace ed obbedisce e la Mogherini recita la parte della tappezzeria nei saloni delle decisioni.
Mosca é l’ossessione del complesso militare e industriale di Washington. Del resto la Russia non è più quella di Eltsin, ovvero un enorme Paese in mano ad un ubriaco scelto a Washington. Ha quindi deciso di recuperare un ruolo proporzionale al suo peso economico, militare e politico che in Occidente si pensava poter ridurre al nulla. La strategia russa si poggia sull’alleanza politica e militare con Pechino e Teheran, sul suo ruolo centrale nella guerra al terrorismo islamico e nell’assetto mediorientale, sul crescente peso nell’area del Bosforo tramite il dialogo con la Turchia, sul suo peso nel mercato energetico mondiale, sulla presenza attiva nei paesi BRICS e sulla costante iniziativa finanziaria in America Latina. Tutto questo, 28 anni dopo la caduta dell’URSS, mette nturalmente in discussione il comando unipolare a guida occidentale, ovvero statunitense.
Ma pensare di poter circondare la Russia è ridicolo e schierare truppe e missili serve solo ad alzare pericolosamente la tensione con un paese immenso dotato di una forza nucleare tattica e strategica impressionante. C’è da chiedersi: in quale momento i cittadini europei hanno scelto d’immolare la pace continentale alle strategie di una NATO ormai lanciata verso l’ampliamento dei membri e la rottura degli equilibri strategici in Europa? E in quale occasione i cittadini europei hanno scelto di rischiare la guerra per sostenere le rivendicazioni ucraine, avanzate da un governo fascista, più o meno della stessa natura di quello ungherese e polacco? Se si pensa di umiliare la Russia, di circondarla e intimorirla, significa non aver capito nulla delle lezioni della storia, non avere idea di quale differenza passi tra uno staterello ed un gigante geopolitico e militare.
La Russia non è una minaccia, semmai è minacciata. Il presidente Renzi, che diffonde a reti unificate le sue lagnanze contro l’Europa quando si tratta di disavanzo, tace ed acconsente con il consueto inginocchiamento davanti a Obama e si arruola nella nuova campagna. Servirebbe un’Europa conscia del proprio ruolo di ponte tra Oriente e Occidente per evitare che il Vecchio Continente possa diventare un possibile teatro di guerra. E servirebbe un Presidente del Consiglio italiano degno di tal ruolo per riaffermare la centralità dei nostri interessi.
A Varsavia Renzi sostenne che i militari NATO nei Paesi Baltici “favoriscono il dialogo con la Russia” e ieri, di fronte a Mattarella, si è lasciato andare a una battuta sul “progetto di invadere la Russia”. Purtroppo l’Europa è in mano ai banchieri ed alla Cancelliera Merkel concentrata sulla sua campagna elettorale e l’Italia a un venditore di pentole, arrogante di fronte ai deboli e ambasciatore dei poteri forti. Servirebbe uno statista, abbiamo uno sbruffone.