di Fabrizio Casari

Il dato emerso dalle urne è che nonostante una partecipazione superiore alle attese, il PD ha subito una severa sconfitta, certificazione di un indubbio ridimensionamento politico. A Roma è passato dal 26% del 2013 al 17 di oggi. A Torino ha perso 32.000 voti, a Bologna ne ha persi 60.000 e a Napoli 27.000. Salerno, Rimini e Cagliari sono i soli tre comuni dove il centrosinistra ha vinto al primo turno, ma nel caso di Cagliari va specificato che Zedda è espressione di ciò che resta di SEL ed è stato eletto da una lista arcobaleno, con la sinistra unita e senza verdiniani di contorno. Il risultato del Movimento 5 Stelle e la crisi del berlusconismo sono invece le due buone notizie di questa tornata.

Renzi sostiene che il voto era amministrativo e che non riguardava il suo governo, ma mente sapendo di mentire. L’elezione di 1342 sindaci è politica “senza se e senza ma”, perché nonostante l’abbondanza di maquillage rappresentato dalle Liste Civiche, sono i partiti che candidano consiglieri e sindaci e i leader o capetti dei partiti s’impegnano pancia a terra per i rispettivi candidati. Inoltre, sono 13 milioni gli elettori coinvolti, più del 30% del totale degli elettori italiani. Alla scienza statistica basta meno per determinare in maniera pressocché scientifica trand e proiezioni a dimensione generale e alla politica serve ancora meno per indicare aspettative e ripercussioni di un voto così ampio.

Hai voglia a dire che sono espressione di consultazioni locali: le scelte dei candidati - da Sala alla Valente, a Giachetti - hanno indicato con nettezza un percorso di conflitto politico con la sinistra. Renzi si smarca perché è abituato ad appropriarsi della scena mediatica in presenza di successi e a defilarsi in caso di sconfitte. Le vittorie sono sue anche quando non gli appartengono affatto (vedi le europee) ma le sconfitte sono degli altri (anche quando i candidati e gli alleati sono scelti da lui). E l’annuncio di un commissario a Napoli fa ridere: chi ha scelto la Valente? E non è poi solo questione di linea politica, c’è anche il livello della leadership che conta per perdere. Quando un personaggio di terza fila come Guerini imputa a Marino invece che a Mafia Capitale la sconfitta di Roma, si capisce qual è lo spessore politico del giglio magico.

Il PD è ridotto ai minimi termini: è ormai solo un comitato elettorale e una struttura di propaganda al servizio della cerchia renziana. Renzi lo ha distrutto, mangiandone il cuore, consegnandone l’anima al centro e riducendone la politica delle alleanze agli affari con Verdini. Il quale, come Alfano, raccoglie percentuali da prefisso telefonico ovunque e riesce persino, dove sale sul palco del candidato del PD, a non farlo arrivare nemmeno al ballottaggio. Logico peraltro, visto che il PD avrebbe ancora, almeno per il 50%, un elettorato di sinistra che su questo terreno vorrebbe essere rappresentato. Quando avverte che il voto serve a ricostruire la DC del terzo millennio, avvolta in grembiulini e cappucci, semplicemente vota altrove.

Il risultato di ieri è, politicamente, un vero e proprio stop definitivo alla strategia renziana, che prevedeva lo svuotamento di Forza Italia e del ventre molle di nostalgie democristiane da un lato e, dall’altro, l’indebolimento progressivo del Movimento 5 Stelle che avrebbe subito il protagonismo finto-nuovista del Presidente del Consiglio. Entrambi gli scenari sono stati smentiti dagli elettori.

Il primo perché il crollo di Forza Italia, lungi dal travasare consensi moderati verso il nuovo PD a caratura democristiana, ha piuttosto indirizzato i suoi elettori verso la destra più radicale. Il secondo perché il Movimento 5 Stelle ha dimostrato una tenuta superiore alle aspettative e, benché abbia candidato figure minori delle sue fila (diversamente dal PD e da Fratelli d’Italia), ha ottenuto consensi crescenti fino ad arrivare ad essere il primo partito a Roma e Torino, solo per fare un esempio, ovvero dove il PD crolla. E crolla perché emerge un travaso di voti proprio dal PD verso il M5S.

La scommessa renziana, di costruire un partito che rappresenti l’establishment, che offra la mediazione tra interessi diversi, governi l’alleanza tra finanza cattolica e finanza laica, garantisca con il suo peso lo spazio lasciato vuoto dalla crisi di riassetto del capitalismo italiano e possa rappresentare il Paese nelle istituzioni politiche europee, è davvero eccessivamente ambiziosa prima che sbagliata. E comunque non può certo realizzarsi per il tramite di un partito diretto da una pattuglia di parvenu esperti solo in arroganza.

Nel frattempo, la mappa del voto racconta di come il PD vince nei quartieri dei centri storici e dei quartieri ricchi, perdendo invece nelle periferie. Non è questa la sede per analizzare a fondo quella che appare come una vera mutazione antropologica, ma certo che la corrispondenza tra questo dato e la linea politica del partito, schiacciata sull’establishment e indifferente ai temi sociali, ha la sua risposta nelle urne. Quando di fronte alla crisi sociale che proletarizza i ceti medi e affossa quelli popolari, il PD esalta Marchionne e dichiara guerra ai sindacati, come dovrebbero votare i lavoratori?.

Il PD si trova all’angolo, guidato da un leader ormai definitivamente entrato nel cono d’ombra. Se disponesse di respiro ideale e programmatico avrebbe già offerto le dimissioni della segreteria (dove Guerini e Serracchiani hanno brillato per l’appoggio convinto agli sconfitti) e la celebrazione di un congresso straordinario. Una convocazione anticipata del congresso sarebbe un segnale di comprensione della realtà.

Ma difficilmente avverrà, dato che, inevitabilmente, rappresenterebbe l’ammissione dei renziani di un caduta inaspettata. Evidenzierebbe, inoltre, la verità plastica di un personaggio che divide, che ha già stancato gli italiani dopo solo due anni di arroganza e si tratterebbe di un colpo durissimo all’ego di Renzi, dunque non avverrà. E del resto intendiamoci: anche avvenisse, vedrebbe una riconferma dell’attuale gruppo dirigente al timone del partito; vuoi per le truppe di fedelissimi, vuoi per l’inconsistenza dei Bersani, Cuperlo e Speranza, lo spazio di manovra dei dissidenti è talmente ridotto che rende impossibile prefigurare un ribaltone interno o anche solo un cambio di linea.

Ora, congresso o no, la sinistra PD ha ancora una ultima possibilità di presentarsi come un’area effettivamente in buona fede, ancorché in difficoltà. La sinistra oggi, piegata e sconcertata, quando non sceglie la via dell’astensione si esprime attraverso il voto radicale, sia esso nelle liste alla sinistra del PD, sia nel Movimento 5 Stelle. Non riconoscerlo sarebbe un grave errore di lettura del contesto e del proprio patrimonio elettorale. Rimanere nel PD pur sapendo che non vi sono tracce di una cultura di sinistra o anche solo ulivista, riaffermando un senso di fedeltà alla “ditta” e chiedendo al massimo maggiore educazione al capo, è solo orpello, elemento decorativo politicamente inutile; è un ghirigoro dell’animo, non una proposta politica.

Adesso si apre uno scenario nuovo. In politica la sfida è sempre quella che deve arrivare e, anche se lo negano, il passaggio delle Amministrative ha un rilievo sia per il risultato in sé che per il referendum che verrà. Su queso Renzi ha deciso di giocare il suo ruolo politico e ciò, di per sé, rappresenta per lui già un fattore di rischio alto, dal momento che proprio la speranza di disarcionarlo contribuirà ad ingrossare le fila del NO.

Si tratta dunque di mobilitarsi per scongiurare la controriforma d’ispirazione massonica insita nelle riforme istituzionali per le quali si voterà in autunno. Impedire la riduzione di una repubblica parlamentare a sistema autoritario è battaglia decisiva sia sul piano politico che su quello culturale ed assume un valore assoluto anche sul piano simbolico. E l’indebolimento ulteriore di Renzi e della sua strategia neoautoritaria passa anche da una ulteriore sconfitta nei ballottaggi per le comunali perché il risultato definitivo delle amministrative inciderà anche su quello referendario perché quei ballottaggi influiranno sul clima politico intorno al PD.

Bisognerà tener conto di tutto ciò quando si voterà per i sindaci delle città. Anche coloro che oggi sostengono Renzi non è detto rimarranno al loro posto. L’Italia è il Paese per eccellenza dove la corsa è a salire sul carro dei vincitori e a scendere da quello degli sconfitti. Bisognerà votare considerando tutti i riflessi che ogni singolo voto avrà sulla tenuta del governo e comportarsi di conseguenza, anche a costo di votare turandosi il naso. Meglio avere il naso chiuso per un minuto che le bocche cucite e le mani legate per i prossimi venti anni.


di Fabrizio Casari

In un sostanziale clima d’indifferenza, a Roma si vota in conseguenza del golpe del PD che defenestrò il Sindaco Ignazio Marino dal Campidoglio. Vicenda emblematica che raccontò il volto nuovo del rapporto del PD con i propri iscritti ed elettori. In primo luogo gli si chiese di votare alle primarie ed essi scelsero Marino. Immediatamente però, il partito cominciò a sbarrargli la strada e tanti saluti alle primarie e ai suoi iscritti.

Ma il chirurgo improvvisatosi candidato non mollò e alle elezioni ottenne la maggioranza assoluta sbaragliando Alemanno. Non contento, il PD decise di dichiarargli guerra o, quantomeno, di non difendere il suo Sindaco per poi giungere fino al paradosso di sfiduciarlo, con tanti saluti agli elettori. Il come poi rappresentò un fatto inedito nella storia della politica italiana: preoccupato di ripensamenti dell’ultima ora, il PD obbligò i suoi consiglieri a firmare - tutti e contemporaneamente, che non si sa mai - le proprie dimissioni di fronte a un notaio. Una versione pubblica del patto tra Berlusconi e Bossi del 1994 che mai a sinistra ci si sarebbe sognati di vedere.

L’attuale candidato renziano è Roberto Giachetti, funzionario politico da sempre, con curriculum professionale candido, praticamente una pagina in bianco. Ex capo di Gabinetto di Rutelli e saltimbanco di ogni schieramento interno all’Ulivo prima e al PD poi, Giachetti è come la rucola, lo trovi ovunque ma senza mai nulla da dire di rilevante. Persona onesta fino a prova del contrario, ma votarlo significherebbe assolvere la condotta del PD che inganna gli elettori e realizza affari con Buzzi e Carminati.

Il Movimento Cinque Stelle candida una donna dal volto gradevole e dai valori variabili. Somiglia nel look ad una pariolina romana e sembra che occulti molto più di quel che afferma. Tutt’altro che carismatica, nemmeno un po’ trascinatrice, desta timori per il gradi di autonomia e colpisce per l’assenza di idee; davvero non evoca sogni, semmai incute ulteriori dubbi sul M5S. Con la sua candidatura i grillini non guadagneranno un voto rispetto a quelli che avrebbero comunque preso, in compenso ne perderanno molti rispetto a quelli che avrebbero potuto prendere con una candidatura più forte e meno ambigua.

C’è poi la Meloni, prima donna a trasformare un gravidanza in manovra politica e il fotoshop in strumento di terapia psicologica. Falsate le immagini, figuriamoci le parole e gli atti. Denominata dai romani “pancetta nera”, la Meloni ha rapidamente dismesso i panni della sodale di Alemanno, con il quale ha sgovernato per quattro anni la città, per presentarsi ora come il “nuovo a destra”. Ma qui non basta l’uso massiccio di trucco e parrucco: la Meloni non ha mai smesso di essere fascista, solo che si vergogna a dirlo, considerando che non ha spazio su quel fronte, già occupato da Casa Pound e frattaglie varie del peggio che ospita Roma.

Per carità di patria tralasciamo Alfio Marchini, autentica perla di vacuità intellettuale che evidentemente sa quanto l’appartenere ad una famiglia di costruttori tra i protagonisti del cosiddetto “sacco di Roma”, davvero non lo rende credibile nei suoi programmi per la modernizzazione della Capitale. Uomo coerente, Marchini va ai comizi in Smart e poi, girato l’angolo, monta sulla Ferrari. Un Fregoli piacione. Uno così, anche senza il vuoto pneumatico che l’attanaglia, non si può votarlo nemmeno essendo di destra. Berlusconi gli ha piazzato Bertolaso a controllarlo, costituendo così una coppia che supera Gianni e Pinotto.

Da ultimo c’è Fassina, espressione e anche vittima della sinistra romana che ha dato il peggio di se nel sostegno alla sua candidatura. Fassina, per quanto privo di ogni pur minima dose di carisma, è persona per bene, competente e preparata. Il risultato possibile per la sua lista non è quello in doppia cifra, ma la valenza è tutta politica; può indicare a quanti ancora giacciono nel ventre molle della minoranza PD una prospettiva politica esterna ad un partito che è ormai la nuova DC. Ogni voto dato a Fassina è quindi da un lato un voto contro la gestione mafiosa del PD romano e dall’altro indicatore della disponibilità a ricominciare a tessere il filo di una sinistra da rinnovare.

Con una astensione che si annuncia maggioranza assoluta, i sondaggi sembrano indicare un ricorso al secondo turno, dove si misurerebbero i 5 stelle e il PD. La scelta più logica indicherebbe in questo caso il voto alla Raggi, se non altro per obbligare alla riscrittura della rubrica telefonica del sottobosco romano e di mafia capitale. Ma oltre a questo, una sua vittoria metterebbe definitivamente alla prova le capacità di un movimento che, se non tritura le potenzialità di cui dispone, se non dimostra con le sue scelte l’inutilità del votarli, può ancora raccogliere ed incanalare in senso progressista lo smarrimento e il rifiuto di tanta parte dell’elettorato.

di Fabrizio Casari

Le parole di Maria Elena Boschi sui “veri” partigiani sono state definite una gaffe. Ma una sufficiente conoscenza della terminologia e della avvocatessa improvvisatasi politica risultano soprattutto una manifestazione di ignorante arroganza. Cosa ne sa, infatti, la Boschi di partigiani? Di cosa sono stati, quali ideali hanno rappresentato e quale eredità politica, valoriale ed ideale hanno trasmesso? La Boschi non è mai stata di sinistra nemmeno un paio d’ore della sua vita, pur avendo, in passato, indicato cosa sia di sinistra e cosa non lo sia. Davvero l’imperizia diviene arroganza e l’arroganza rivela il ridicolo.

E’ stravagante, ma in qualche modo sintomatico, che Maria Elena Boschi sia un Ministro della Repubblica. Uscita dal guscio del giglio magico senza nessuna storia politica alle spalle - a meno di non voler considerare tale la sua attività a sostegno degli affari legali del mondo renziano - al suo attivo la Boschi ha certamente una conoscenza profonda di Matteo Renzi. Ha poi una certa esperienza in fallimenti bancari (anche per saperi di famiglia che si tramandano), conosce bene i movimenti di Verdini, ma davvero non ha nemmeno idea di cosa siano state le grandi ideologie che hanno attraversato il Novecento. Più che di partigiani è di partigianeria che la Boschi s’intende, basta ascoltarla. In totale assenza di cultura politica, l’inclinazione al sottobosco clientelare appare l’unico tratto identitario effettivamente riscontrabile in parole e atti del Ministro delle Riforme.

Nessuna gaffe quindi: le sue parole sui partigiani sono state un vero e proprio attacco politico, effettuato semmai con l’ignoranza crassa e l’arroganza di cui la signora ha già dato mostra in diverse occasioni. Un attacco politico volgare, (una consuetudine per il giglio magico) resosi necessario per reagire alle deliberazioni congressuale dell’Anpi. L’organizzazione che rappresenta la storia dei partigiani italiani, ha infatti celebrato il suo Congresso nel quale ha deciso, con soli 3 voti contrari, di impegnarsi nella battaglia per il NO al referendum sulle riforme istituzionali e l’annessa legge elettorale di Renzi portate avanti per delega proprio dal Ministro Boschi. La decisione dell’Anpi si spiega facilmente, è quasi un atto dovuto, proprio perché l’eredità storica dei partigiani è tutta scritta nella Costituzione italiana che, dal bislacco, pasticciato e autoritario disegno governativo, verrebbe lacerata inesorabilmente.

La Ministro Boschi dovrebbe studiare la storia partigiana, vi troverebbe il momento più alto della dignità italiana, l’epopea di uomini e donne che riscattarono l’onore della nostra nazione. A coloro si deve rispetto sacro e riconoscenza infinita e, se proprio non li si vuole prendere a modello, certo in nessun caso è possibile usarli per le cialtronerie politicanti.

Purtroppo però l’attacco della Boschi è stato sferrato proprio per il valore politico e simbolico dell’Anpi al disegno renziano di stravolgimento della Carta. E qui che il governicchio in carica si sente all’angolo. Perché nel suo progetto di riforma emerge proprio un’idea accentratrice ed autoritaria, che si esprime attraverso il dominio del potere esecutivo su quello legislativo, squilibrando i poteri e così alterando il disegno istituzionale e lo stesso equilibrio democratico del Paese.

Non si tratta di conservatorismo nell’architettura istituzionale, la questione riguarda la democrazia italiana. L’ascesa di Renzi ha già dimostrato come si costituiscono i governi nelle stanze dei poteri forti, senza nemmeno il fastidio del voto. Nell’ipotesi contenuta nella Riforma i prossimi governi si ritroverebbero eletti con manciate di voti ma dotati di poteri straordinari e privi di controllo da parte dei due rami del parlamento. Il che aprirebbe ulteriormente la strada ai governi delle elites.

Per questo la posizione dell’associazione che rappresenta i partigiani, cioè chi ha versato il sangue per la liberazione dalla dittatura fascista alleata della monarchia e ha reso possibile la stesura di una delle costituzioni più belle del mondo, non poteva essere diversa da quella di un rotondo ed inappellabile NO. Ovviamente il colpo è stato duro: la scelta dell’ANPI rappresenta un rifiuto che pesa sul piano della connessione sentimentale della storia partigiana con il popolo della sinistra e con lo stesso PD. Ma per un governicchio che ha deciso d’immolarsi sulla riforma e che vede speranze solo nel compattamento di quello che resta dell’elettorato del PD, la posizione dell’Anpi complica ulteriormente il cammino.

Da qui le parole acidognole della Boschi, puntualmente stigmatizzate. Renzi è dovuto correre ai ripari, cercando di annacquarle in un indistinto afflato polemico che, a sentir lui, accompagnerebbe la vicenda quotidiana del suo partito. La verità è che il terreno comincia a mancare sotto i piedi: l’aver legato la sopravvivenza del suo ruolo politico all’andamento del referendum si è già dimostrato un azzardo pericoloso, una sorta di riflesso pavloviano, una manifestazione bullesca della velocità propagandistica con la quale tace su ciò che fa e annuncia ciò che non fa.

Pentitosi così già abbondantemente di aver pronunciato l’ultimatum, Renzi si trova ora a dover tentare di recuperare spazi nell’area del suo stesso elettorato. Ripetutamente sollecitato dagli editorialisti dei media allineati, cerca quindi di ridurre il livello di coinvolgimento di coloro che, anche oltre il merito della ferita alla Costituzione, si recheranno a votare per il solo piacere di vederlo cadere e andarsene, con la speranza che ameno questa volta, faccia quello che annuncia: ovvero che in caso di sconfitta davvero salga sul Colle a presentare le dimissioni. Maria Elena Boschi, com’è accertato, è legata a vario titolo al Presidente del Consiglio e, come ha dichiarato ieri, ne seguirà la sorte. C’è già stato nella storia un esempio di tanta devozione. Ma allora si trattò di tragedia, oggi di farsa.

di Antonio Rei

È bello che, prima di andarsene, abbia fatto in tempo a vedere approvata la legge sulle unioni civili. Un ultimo schiaffo a quell’Italia democristiana che lui tanto odiava e contro cui ha combattuto dal dopoguerra fino a ieri. Il nome di Marco Pannella, scomparso a 86 anni, è inevitabilmente collegato alle battaglie per i diritti civili.

Non è sua la legge sul divorzio, che ha origini socialiste, ma l’immagine del fondatore del Partito Radicale Italiano rimarrà per sempre associata alla bocciatura del referendum che quella legge voleva abolire. Era il 1974 e fu il primo grande NO con cui gli italiani pretesero di vivere in una società più moderna, libera anche di non essere cattolica in cabina elettorale. Il secondo arrivò sette anni dopo e confermò la legge sull’aborto.

In entrambi i casi Pannella era in prima linea, anche se non da solo come provava a far credere. Senza i milioni di voti comunisti, socialisti e della sinistraextraparlamentare, Fanfani avrebbe vinto e con lui il medioevo patriarcale. In seguito, pur ritenendo l’arma referendaria strumento fondamentale per la politica del cambiamento, riconobbe come validi solo quelli indetti da lui, per gli altri non ci fu posto.

Com’è naturale fra esseri umani, di fronte alla morte la memoria si concentra sui ricordi migliori. Ma a essere onesti i motivi per criticare il leader radicale non sono mai mancati: dall’incredibile piroetta che lo portò dal flirt continuato con la sinistra ad allearsi con Berlusconi nel 1994 (nel 2006 invece sostenne Prodi) alla posizione interventista nelle guerre in Kosovo e in Afghanistan (“sono per la non violenza - diceva - non sono pacifista a oltranza”). Riteneva Israele modello di democrazia nonostante i crimini di guerra nei Territori Occupati e vedeva nel modello politico statunitense un faro indiscusso.

Incarnava l’autentico spirito liberale, che prevedeva totale libertà nei diritti civili e assoluta noncuranza per quelli sociali. Questo e altro era Marco Pannella. L'abuso di digiuni e referendum decretò il venir meno del valore insito nei due tipi di battaglie, ma di questo non se ne preoccupava. Gestì il Partito Radicale come creatura propria, inaugurando nela politica italiana il modello di partito personale, poi seguito da tanti. Le candidature di Cicciolina e l’adesione di Pasquele Barra (il killer cutoliano detto o’animale) al suo partito radicale rappresentavano insieme la provocazione a fini mediatici e il gusto del donchisciottismo che accompagnavano il suo ego senza freni.

A destra hanno preso le distanze dalla sua battaglia per la legalizzazione delle droghe (nel 1975 si fece arrestare per aver fumato uno spinello in pubblico), a sinistra lo hanno rimproverato quando parlava di amnistia e indulto per porre rimedio alle condizioni di vita disumane nelle carceri italiane (l’ultima causa per cui si è battuto anima e corpo).

Pannella, in verità, non stava simpatico a nessuno, ma non aveva nemmeno delle vere e proprie nemesi. Forse perché i suoi voti facevano comodo e non avevano una collocazione precisa. Forse perché scegliere come nemico un paladino dei diritti civili non è mai sembrata a nessuno una mossa astuta. Forse, e sarebbe bello pensare che sia stato soprattutto per questo, perché Pannella nonostante tutto incuteva un rispetto bipartisan.

Giusta o sbagliata che si considerasse la sua crociata del momento, bisognava rendergli merito di una coerenza esasperata, spinta in continuazione fino al parossismo dei vari scioperi della sete e della fame. Il primo digiuno gandhiano, per intenderci, risale al 1968, quando venne arrestato a Sofia per aver contestato l'invasione sovietica della Cecoslovacchia.

Anche la sua vita privata è stata fuori dagli schemi: "Sono legato da 40 anni alla mia compagna Mirella - ha detto - ma ho avuto tre o quattro uomini che ho amato molto. E con lei non c'è stata mai nessuna gelosia". Nessun figlio dalla moglie, ma forse più d'uno, per sua stessa ammissione, frutto di amori giovanili.

Una libertà sessuale che faceva il paio con la sua convinta professione di fede anticlericale. Per questo, fra le tante manifestazioni di cordoglio scontate, vale la pena di leggere soltanto quelle dei cattolici. Dalla Santa Sede, il portavoce padre Federico Lombardi lo ricorda con queste parole: "Marco Pannella è una persona con cui ci siamo trovati spesso in passato su posizioni discordanti, ma di cui non si poteva non apprezzare l'impegno totale e disinteressato per nobili cause". E L'Osservatore romano parla di un protagonista di "battaglie talvolta discutibili", comunque "sempre in prima linea contro fame e pena di morte".

Le sue idee si potevano contestare, ma chi arriva a farsi ricoverare in ospedale pur di continuare a lottare per la causa che ha scelto merita considerazione a prescindere. In questo senso si può dire che quella di Pannella sia stata una figura di rara potenza nella storia politica italiana. Il grimaldello che ha aperto una crepa nel muro che separava - e in parte ancora separa - la coscienza democristiana dal progresso civile.

di Carlo Musilli

“Le persone prima dei profitti”. Dietro a uno striscione con questa frase sabato scorso migliaia di persone hanno sfilato a Roma per manifestare contro il Ttip. L’acronimo inglese sta per “Transatlantic trade and investment partnership”, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che da tre anni è al centro di un negoziato in larga parte segreto fra Unione europea e Stati Uniti.

L’accordo “calpesta i diritti dei lavoratori e mette a rischio la qualità dei prodotti - ha detto durante la manifestazione Susanna Camusso, numero uno della Cgil – e se non si arriverà alla firma sarà una vittoria”. Il ministro delle politiche agricole, Maurizio Martina, ha risposto che “l’Italia non rinuncerà mai ai suoi standard di sicurezza alimentare per fare un accordo commerciale”.

Le rassicurazioni e la cautela del governo italiano, fin qui favorevole al trattato tanto voluto da Barack Obama, arrivano dopo la netta marcia indietro della Francia: “Allo stato attuale del confronto - ha detto la settimana scorsa il presidente François Hollande - diciamo no all’intesa, perché non siamo per un sistema di libero scambio senza regole. Non accetteremo mai che vengano messi in discussione i principi essenziali della nostra agricoltura e della nostra cultura. E che non ci sia una totale reciprocità nell’accesso agli appalti pubblici”. Con queste parole il capo dell’Eliseo spera evidentemente di acquisire consenso in vista delle presidenziali di maggio 2017.

E come in Francia, anche in Germania l’anno prossimo sarà importante dal punto di vista elettorale. Non a caso, benché Angela Merkel sia ufficialmente favorevole al Ttip, nei giorni scorsi il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel - numero due del Governo e ministro dell’Economia - ha detto che “se gli Stati Uniti non vogliono aprire davvero il loro mercato, noi non abbiamo alcun bisogno di questo accordo commerciale”. Lo scorso ottobre, a Berlino, contro il Ttip scesero in piazza ben 250mila persone.

Quanto agli Stati Uniti, Donald Trump, a un passo dalla nomination repubblicana per la Casa Bianca, ha già dichiarato tutta la sua ostilità per il progetto di accordo transatlantico e perfino la sua omologa sul versante democratico, Hillary Clinton, sembra meno convinta che in passato.

Insomma, il clima internazionale intorno al Ttip è cambiato. Nato per favorire gli affari delle multinazionali (soprattutto americane), il trattato si sta trasformando a poco a poco in uno strumento di politica interna, uno spauracchio contro cui agitare il vessillo del protezionismo per stimolare l’orgoglio e l’approvazione degli elettori. Proprio per evitare il rischio di questa metamorfosi, l’amministrazione Obama avrebbe voluto chiudere il negoziato entro il 2015, ma le trattative si sono allungate e a questo punto una chiusura in tempi brevi sembra davvero improbabile.

Del resto, l’impopolarità del Ttip non fa che aumentare con il passare del tempo. Le critiche contro il trattato che dovrebbe creare l’area di libero scambio più grande del pianeta (oltre 800 milioni di persone coinvolte) sono diverse. La polemica più nota è quella contro la clausola Isds (Investor-State Dispute Settlement), che consentirebbe alle multinazionali di fare causa ai singoli Paesi davanti a una corte arbitrale per contrastare le leggi (comprese quelle in materia sanitaria o ambientale) potenzialmente dannose per i loro profitti. Nel 2010 e nel 2011, ad esempio, Philip Morris ha portato in tribunale l’Uruguay e l’Australia per le loro campagne anti-fumo, mentre nel 2009 il gruppo svedese Vattenfall ha intentato una causa da 1,4 miliardi di euro contro il governo tedesco per la sua decisione di abbandonare l’energia nucleare.

Secondo i critici, inoltre, il Ttip metterebbe a rischio servizi pubblici e welfare, favorendone la privatizzazione, e affosserebbe le piccole e medie imprese, che si ritroverebbero disarmate di fronte alla concorrenza delle multinazionali. Dal punto di vista dei consumatori, invece, il pericolo è legato al fatto che negli Usa per una serie di prodotti non vale il principio di precauzione che vige in Europa a tutela della salute dell’ambiente, ovvero in America la valutazione dei rischi non avviene prima dell’immissione sul mercato. Questo potrebbe avere conseguenze sulla diffusione nell’Ue di Ogm, carne trattata con ormoni, pesticidi e altro ancora.

All’inizio di maggio Greenpeace Olanda ha pubblicato 240 pagine di documenti segreti interni al negoziato che dimostrano proprio quanto sia agguerrita la battaglia degli Usa contro il principio di precauzione europeo.

L’obiettivo è consentire la vendita nei Paesi Ue di quei prodotti americani che non rispettano le norme europee in tema di salute, ambiente e protezione dei consumatori. In particolare, per convincere Bruxelles ad allentare le maglie sull’importazione di prodotti agricoli e alimentari made in Usa, Washington avrebbe minacciato di bloccare le facilitazioni sulle esportazioni per l’industria automobilistica europea.

Altri punti di dissidio riguardano il mercato dei cosmetici (gli americani fanno pressing contro le norme europee che vietano la sperimentazione sugli animali), le regole di standardizzazione tecnica, dei servizi finanziari e degli appalti pubblici.

È evidente perciò che gli interessi al centro del negoziato sul Ttip sono esclusivamente quelli delle grandi aziende, in particolare statunitensi, che puntano a migliorare il fatturato aggirando le regole soprattutto in materia ambientale e sanitaria. Il nuovo clima di ripensamento sui termini dell’accordo è legato essenzialmente a ragioni elettorali dei singoli Paesi e fin qui ha permesso di rinviare la firma, ma purtroppo questo non significa che il progetto sarà abbandonato. Come in tutti i balletti che si rispettino, ogni momento è buono per una nuova piroetta.


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