di Fabrizio Casari

In un sostanziale clima d’indifferenza, a Roma si vota in conseguenza del golpe del PD che defenestrò il Sindaco Ignazio Marino dal Campidoglio. Vicenda emblematica che raccontò il volto nuovo del rapporto del PD con i propri iscritti ed elettori. In primo luogo gli si chiese di votare alle primarie ed essi scelsero Marino. Immediatamente però, il partito cominciò a sbarrargli la strada e tanti saluti alle primarie e ai suoi iscritti.

Ma il chirurgo improvvisatosi candidato non mollò e alle elezioni ottenne la maggioranza assoluta sbaragliando Alemanno. Non contento, il PD decise di dichiarargli guerra o, quantomeno, di non difendere il suo Sindaco per poi giungere fino al paradosso di sfiduciarlo, con tanti saluti agli elettori. Il come poi rappresentò un fatto inedito nella storia della politica italiana: preoccupato di ripensamenti dell’ultima ora, il PD obbligò i suoi consiglieri a firmare - tutti e contemporaneamente, che non si sa mai - le proprie dimissioni di fronte a un notaio. Una versione pubblica del patto tra Berlusconi e Bossi del 1994 che mai a sinistra ci si sarebbe sognati di vedere.

L’attuale candidato renziano è Roberto Giachetti, funzionario politico da sempre, con curriculum professionale candido, praticamente una pagina in bianco. Ex capo di Gabinetto di Rutelli e saltimbanco di ogni schieramento interno all’Ulivo prima e al PD poi, Giachetti è come la rucola, lo trovi ovunque ma senza mai nulla da dire di rilevante. Persona onesta fino a prova del contrario, ma votarlo significherebbe assolvere la condotta del PD che inganna gli elettori e realizza affari con Buzzi e Carminati.

Il Movimento Cinque Stelle candida una donna dal volto gradevole e dai valori variabili. Somiglia nel look ad una pariolina romana e sembra che occulti molto più di quel che afferma. Tutt’altro che carismatica, nemmeno un po’ trascinatrice, desta timori per il gradi di autonomia e colpisce per l’assenza di idee; davvero non evoca sogni, semmai incute ulteriori dubbi sul M5S. Con la sua candidatura i grillini non guadagneranno un voto rispetto a quelli che avrebbero comunque preso, in compenso ne perderanno molti rispetto a quelli che avrebbero potuto prendere con una candidatura più forte e meno ambigua.

C’è poi la Meloni, prima donna a trasformare un gravidanza in manovra politica e il fotoshop in strumento di terapia psicologica. Falsate le immagini, figuriamoci le parole e gli atti. Denominata dai romani “pancetta nera”, la Meloni ha rapidamente dismesso i panni della sodale di Alemanno, con il quale ha sgovernato per quattro anni la città, per presentarsi ora come il “nuovo a destra”. Ma qui non basta l’uso massiccio di trucco e parrucco: la Meloni non ha mai smesso di essere fascista, solo che si vergogna a dirlo, considerando che non ha spazio su quel fronte, già occupato da Casa Pound e frattaglie varie del peggio che ospita Roma.

Per carità di patria tralasciamo Alfio Marchini, autentica perla di vacuità intellettuale che evidentemente sa quanto l’appartenere ad una famiglia di costruttori tra i protagonisti del cosiddetto “sacco di Roma”, davvero non lo rende credibile nei suoi programmi per la modernizzazione della Capitale. Uomo coerente, Marchini va ai comizi in Smart e poi, girato l’angolo, monta sulla Ferrari. Un Fregoli piacione. Uno così, anche senza il vuoto pneumatico che l’attanaglia, non si può votarlo nemmeno essendo di destra. Berlusconi gli ha piazzato Bertolaso a controllarlo, costituendo così una coppia che supera Gianni e Pinotto.

Da ultimo c’è Fassina, espressione e anche vittima della sinistra romana che ha dato il peggio di se nel sostegno alla sua candidatura. Fassina, per quanto privo di ogni pur minima dose di carisma, è persona per bene, competente e preparata. Il risultato possibile per la sua lista non è quello in doppia cifra, ma la valenza è tutta politica; può indicare a quanti ancora giacciono nel ventre molle della minoranza PD una prospettiva politica esterna ad un partito che è ormai la nuova DC. Ogni voto dato a Fassina è quindi da un lato un voto contro la gestione mafiosa del PD romano e dall’altro indicatore della disponibilità a ricominciare a tessere il filo di una sinistra da rinnovare.

Con una astensione che si annuncia maggioranza assoluta, i sondaggi sembrano indicare un ricorso al secondo turno, dove si misurerebbero i 5 stelle e il PD. La scelta più logica indicherebbe in questo caso il voto alla Raggi, se non altro per obbligare alla riscrittura della rubrica telefonica del sottobosco romano e di mafia capitale. Ma oltre a questo, una sua vittoria metterebbe definitivamente alla prova le capacità di un movimento che, se non tritura le potenzialità di cui dispone, se non dimostra con le sue scelte l’inutilità del votarli, può ancora raccogliere ed incanalare in senso progressista lo smarrimento e il rifiuto di tanta parte dell’elettorato.

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