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di Tania Careddu
Nonostante la poca chiarezza di alcune voci e l’altrettanta coerenza nella compilazione dei bilanci, si può certamente calcolare che, in due anni di legislatura, Camera e Senato hanno stanziato centosei milioni di euro come contributo a dodici gruppi parlamentari. Che più sono numerosi, più soldi ricevono (va da sé che le diaspore fra un gruppo e un altro influenzano pesantemente l’ammontare dei contributi).
Soldi utilizzati principalmente, per il 70 per cento circa del totale, per il personale: dipendenti, collaboratori e consulenti. Esclusi questi ultimi, alla cui cifra stanziata nei bilanci non segue il dettaglio, nel 2014, hanno lavorato per i gruppi parlamentari oltre cinquecentosessanta persone, con un rapporto, nella migliore delle ipotesi, di uno a due con i parlamentari e, nella peggiore, con personale in esubero rispetto al numero dei componenti del gruppo. Costando, da inizio legislatura, circa settanta milioni di euro.
A Montecitorio, Forza Italia è il gruppo che sente maggiormente il peso del personale mentre il Partito Democratico è quello con più membri del personale in proporzione agli onorevoli; a Palazzo Madama, svettano il gruppo Misto e la Lega Nord, con un rapporto fra personale e senatori più alto della media.
Non basta. Nei bilanci dei gruppi parlamentari, compaiono altre due voci: spese per l’acquisto di beni (vedi carburante, cancelleria, stampanti, libri e pubblicazioni) e spese per il supporto all’attività politica, tipo studi, editoria e comunicazione. Dall’inizio della legislatura, secondo quanto si legge nel dossier di Openpolis ‘Paga Pantalone’, duecento mila euro per le prime: centodiciotto mila euro alla Camera, in media centosessantadue euro a deputato, e ottantuno mila euro al Senato, trecentosettantaquattro euro a senatore.
E se a Montecitorio i dati sono molto eterogenei, con Ap, Forza Italia e Misto pari a zero e con Scelta Civica, Sinistra Ecologia e Libertà con quattrocento euro a deputato in due anni, a Palazzo Madama il dato è fortemente trainato dal gruppo Misto che, durante lo stesso periodo, ha speso oltre mille euro per senatore. Tre volte la media dell’Aula. Settemila euro all’anno solo per l’acquisto di carburante. E il Movimento 5 Stelle che ha totalizzato la spesa assoluta più alta: oltre trentamila euro, spendendone ventotto mila, nel 2013, per l’acquisto di beni strumentali.
Più di quattro milioni e mezzo per le spese di comunicazione: ottocentosettantuno mila euro al Senato e tre milioni e settecento mila euro alla Camera: Scelta Civica, Partito Democratico, e soprattutto Lega Nord. La quale è al vertice della classifica anche al Senato, impiegando il 12,50 per cento delle sue entrate e, nell’ultimo anno di bilancio, utilizzando centonovantuno mila euro in comunicazione.
Ma qual è il confine tra promozione dell’attività di partito e promozione dell’attività del gruppo parlamentare? Sottile. Se si pensa che parte del milione di euro speso dal PD in comunicazione nel 2014è stato impiegato per la partecipazione del gruppo alle varie feste dell’Unità in giro per l’Italia e che Fratelli d’Italia, nel 2013, ha investito sei milioni di euro per partecipare ad Atreiu, festa nazionale dei movimenti giovanili di destra.
Proviamo a riassumere? Deputati e senatori ricevono uno stipendio per portare avanti il loro incarico in Parlamento; fanno però parte di gruppi parlamentari che, a loro volta, ricevono soldi per rimborsi di funzione. Soldi che, fra le altre cose, vengono utilizzati per partecipare a eventi del partito di cui fa parte il gruppo, nonché il parlamentare. I conti (non) tornano.
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di Antonio Rei
Forcaiolo inflessibile a Roma, garantista irreprensibile in Campania. Quella del Pd renziano sembra proprio una schizofrenia di bieca convenienza politica. Al di là delle eventuali responsabilità penali di Ignazio Marino e di Vincenzo De Luca, che saranno stabilite dalla magistratura, il marasma delle ultime settimane ha dimostrato che non c'è limite al trasformismo del Premier e del suo partito.
Da perfetto democristiano, il Presidente del Consiglio adotta pesi e misure differenti in base al proprio interesse, scegliendo di volta in volta la strada che ritiene più conveniente per accrescere o conservare il potere di cui dispone.
Con tanti saluti a ogni principio di equità e democrazia nella gestione interna del partito, oltre che a ogni velleità di coerenza. E' impossibile spiegare diversamente la disparità di trattamento che il Pd ha riservato all'ormai ex sindaco di Roma e all'attuale governatore della Campania. Una piroetta rapidissima, degna della migliore etoile.
"La mia posizione, quella del governo e quella del partito, è di avere rispetto per la magistratura: faccia il suo corso, noi abbiamo molta fiducia". Queste le parole di Renzi in conferenza stampa a proposito del governatore De Luca, indagato per concussione insieme ad altre sei persone, tra cui una giudice del Tribunale di Napoli, Anna Scognamiglio, al marito di lei Guglielmo Manna, manager dell'azienda ospedaliera Santobono, e all’ex capo della segreteria del governatore, Carmelo Mastursi. "Il presidente della Regione ha la titolarità, il diritto e direi anche il dovere di governare quella Regione, ha un mandato pieno dai cittadini", ha chiosato il Premier.
Non più tardi di un mese fa, Renzi avrebbe potuto pronunciare queste identiche parole in riferimento alle vicende che hanno terremotato il Campidoglio. Peccato che in quel caso, invece del pacato garantismo concesso a De Luca, abbia scelto la strada del massacro politico-mediatico. Un vero e proprio tiro al piccione: nelle ultime fasi del suo mandato Marino è stato impallinato a ripetizione dai suoi stessi compagni di partito che, dopo averlo a lungo sostenuto, hanno cambiato linea dalla sera alla mattina per rispondere a un ordine arrivato dall'alto.
"Se non si dimette lui lo dimettiamo noi", Renzi dixit. E così è stato: prima ancora che dalla Procura partisse l'avviso di garanzia (Marino è indagato per peculato e falso in atto pubblico), il destino del sindaco era già stato deciso. Non nelle urne elettorali, né in Assemblea capitolina, ma a Palazzo Chigi. Contro ogni regola o prassi democratica, il primo cittadino di Roma è stato cacciato per decisione del capo del suo partito.
Intendiamoci, Marino di errori ne ha commessi a iosa, soprattutto per la comunicazione disastrosa e l'incapacità di trovare soluzioni efficaci ai problemi più gravi della città. Ma la campagna mediatica scatenata contro di lui è stata semplicemente ridicola, addirittura più severa di quella riservata a Gianni Alemanno, come se qualche cena pagata con la carta di credito del Comune fosse paragonabile all'architettura camorristica di Mafia Capitale.
In teoria, nel momento in cui Renzi ha deciso di cacciarlo, anche Marino aveva "la titolarità, il diritto e anche il dovere di governare" il Comune di Roma. Anche lui aveva ricevuto "un mandato pieno dai cittadini", volendo in modo anche più limpido di De Luca, che pur di vincere ha riempito le sue liste di personaggi quantomeno ambigui. Ma la verità è che l'ex sindaco di Roma ha perso il posto per ragioni che con "il mandato dei cittadini" non avevano nulla a che fare.
Tutto si è giocato su una logica di potere: Marino era un non-renziano che ricopriva una carica troppo importante per essere tollerato da Renzi. De Luca, invece, deve rimanere dov'è: dopo la clamorosa sconfitta del Pd in Liguria, la quasi sconfitta in Marche e Umbria e la bagarre in Campidoglio, perdere anche la Campania vorrebbe dire esporsi a un rischio grave, quello d'innescare la spirale della sconfitta. Pur di evitare un pericolo del genere, Renzi accetta di esibirsi in piroette senza scrupoli.
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di Fabrizio Casari
Una giornataccia per il premier bullo, che si è visto piombare addosso alcune notizie poco rassicuranti. La prima è la più importante sotto il profilo della finanza pubblica. La Corte dei Conti ritiene infatti che la legge di Bilancio, così come proposta, non dispone di coperture sufficienti e mette a rischio la stabilità economica del Paese.
A giudizio della Corte, infatti, la Legge di Stabilità "utilizza al massimo gli spazi di flessibilità disponibili, riducendo esplicitamente i margini di protezione del conti pubblici, e lascia sullo sfondo nodi irrisolti (clausole, contratti pubblici, pensioni). Nello specifico della contestata abolizione dell’IMU, la magistratura contabile ritiene che la manovra nel suo complesso comporti una partita di giro pericolosa per le finanze del paese, dal momento che l’abolizione della tassa di proprietà sulla prima casa comporterà un minor gettito per la fiscalità generale decisamente improponibile per lo stato dei conti pubblici.
Inoltre, la Corte rileva come inevitabilmente il danno maggiore in forma diretta sarà avvertito dai Comuni, che dovranno giocoforza elevare addizionali o altre imposte per riportare il mancato gettito derivante da Imu e Tasi nei bilanci comunali già sofferenti. Va ricordato, peraltro, che il Patto di Stabilità impedisce agli Enti Locali manovre finanziarie a debito. E fin qui, la Corte riafferma quanto già detto da osservatori e forze politiche non allineate, ossia che la manovra è iniqua (perché favorisce i ricchi) anticostituzionale (perché ignora il concetto di progressività delle imposte in base al reddito) e priva di coperture (dal momento che non propone investimenti atti al rilancio dei consumi e, dunque, dell’economia interna, che porterebbero ad un aumento del PIL).
La levata di scudi degli Enti Locali contro la manovra non sarà certo la pietra miliare della resistenza, visto che lo stesso Chiamparino, che in vista della Conferenza Stato-Regioni e Unificata critica il Premier su Imu e Tasi, è uno dei grandi sostenitori del Premier e lui, come altri sindaci e governatori di fede renziana, non si metterà certo di traverso. Per questo il premier bullo aveva già annunciato il suo “ci sarà davvero da divertirsi” in vista dell’incontro tra Governo ed Autonomie per l’approvazione della manovra.
Ma la critica diretta della magistratura contabile si esercita anche sulla questione, decisamente controversa, dell’aumento da mille a tremila euro per l’uso del contante. La Corte, infatti, ricorda che mentre la misura favorisce indiscutibilmente l’evasione fiscale, non si dispone di dati empirici che confermino come l’uso del contante sia un volano per la ripresa dei consumi.
In effetti, la differenza tra spendere 3000 euro in contanti o con una carta di credito è solo la conseguente tracciabilità dei pagamenti, dunque la possibilità di misurare il reddito effettivo e non quello dichiarato.
D’altra parte, anche il senso comune evidenzia come difficilmente chi decide di aumentare i consumi acquistando generi di qualsivoglia tipologia va in giro con 3000 euro in contanti, vuoi per comodità, vuoi per il rischio di essere derubati o di perderli. Diventano invece importanti se destinati ad attività che non devono essere tracciate.
Questa manovra, venduta dai media asserviti come atto interruttivo dell’austerity e celebrata come finanziaria “di sinistra” pur se contenente una logica economica di destra (in questo senso è degna figlia del Presidente del Consiglio), sembra veder crescere da ogni dove dubbi e perplessità circa la sua efficacia.
Da Bruxelles che la critica per le mancate coperture e per essere una manovra a debito, fino a Bankitalia prima e alla Corte dei Conti poi, che ne ravvisa contraddizioni ed incongruenze (oltre ad accusare indirettamente il Governo di favorire l’evasione fiscale), il cammino della Legge di Stabilità rischia di rivelarsi più tortuoso del previsto.
Emerge con assoluta chiarezza il dilettantismo tecnico di un governo incapace di cogliere la congiuntura economica e politica favorevole (il prezzo del petrolio al minimo storico; il quantitative easing di Draghi che tiene al minimo lo spread; la vendita dei BOT per la prima volta con il segno attivo per lo Stato; la crisi politica della Germania e con essa la riduzione della pressione turbo monetarista europea).
Che invece scimmiotta Berlusconi nell’esercizio della finanza creativa, smontando pezzi di welfare e non investendo nulla nelle opere pubbliche e nel riequilibrio finanziario delle famiglie (ad esempio con la flessibilità in uscita sulle pensioni), limitandosi a riproporre gli sciagurati 80 Euro che migliorano la vita di chi già ha e non aiutano per niente chi non ha.
Un modello di economia mutuato dalle Dame di San Vincenzo, che scambia l’elemosina con le politiche economiche, dimentica la razionalizzazione della spesa pubblica, stronca ogni velleità di crescita e impone tagli lineari sui servizi di tremontiana memoria. Renzi l’ha definita una manovra con il “segno +”. Vero, se inteso come una croce.
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di Antonio Rei
Sostenere che la legge di Stabilità 2016 sia una manovra di sinistra è assurdo. Nel pacchetto di misure varato dal governo non si rintraccia alcuna preoccupazione per la redistribuzione del reddito. Anzi, si arriva perfino a rinnegare il principio costituzionale della proporzionalità delle imposte, avvantaggiando i ricchi rispetto ai meno abbienti. E per non farsi mancare proprio nulla, il governo Renzi riesce anche a strizzare l'occhio agli evasori, riservando loro un bel regalino.
Senza contare la burla sulle pensioni: avevano promesso di aumentare la flessibilità in uscita (anche per aiutare l'occupazione giovanile), ma hanno partorito il topolino di un part-time che nessuno userà, perché aumenta il costo orario del lavoro (l'azienda pagherebbe tutti i contributi, ma avrebbe il lavoratore a disposizione per la metà del tempo).
Certo, c'è anche il piano per la lotta alla povertà che è meritorio e va sostenuto con forza, ma stiamo parlando di 600 milioni di euro per il 2016 su una manovra da 24-27 miliardi. Una miseria. Conviene dare un'occhiata al resto.
Partiamo dall'innalzamento della soglia oltre la quale è proibito pagare in contanti, che passa da mille a 3mila euro. Si tratta evidentemente di una norma che facilita i pagamenti in nero (lo pensava anche il ministro Padoan fino a qualche tempo fa, anche se ieri ha detto di aver "cambiato idea"), ma l'Esecutivo vuol farci credere che aumenterà i consumi. Già, ma i consumi di chi?
Non dei ricchi, che hanno sempre consumato e continueranno a farlo a suon di carta di credito. Nemmeno dei lavoratori dipendenti, che si vedono accreditare lo stipendio sul conto e di certo non passeranno le ore al bancomat solo per il gusto di pagare 3mila euro cash. Rimane l'esercito delle partite Iva: loro sì che potranno spendere un po' di più in contanti, anche perché in questo modo potranno evitare di versare il denaro in banca e quindi di renderlo visibile agli occhi del Fisco.
Non è proprio un'idea geniale nel Paese con l'evasione fiscale più alta d'Europa e con uno dei tassi di diffusione più bassi dei pagamenti elettronici (tracciabili). D'altra parte, fa il paio con la ridicola legge sul Pos: in teoria, tutti i lavoratori autonomi dovrebbero averlo per consentire ai clienti di pagare con la carta le somme superiori a 30 euro. La legge però non prevede sanzioni per chi sgarra, per cui tutti fanno come vogliono.
Passiamo ora alla punta di diamante di questa legge di Stabilità: l'abolizione delle tasse sulla prima casa. Tutti, ma proprio tutti hanno contestato questa norma (dall'Ue a Confindustria, da Assonime alla Cgil). Lo hanno fatto per motivi diversi, ma tutti corretti.
Alcuni sottolineano che sarebbe stato meglio intervenire sul cuneo fiscale, perché ciò avrebbe avuto un impatto incredibilmente superiore sul Pil e sull'occupazione. Altri pongono l'accento sul fatto che questo taglio, per com'è concepito, è socialmente iniquo: fa la fortuna dei ricchi (che potranno intestare una casa a ogni figlio e non pagare più nulla), mentre per due terzi delle famiglie interessate lo sgravio sarà in media di 17 euro (il calcolo è di Nomisma).
In questo caso sarebbe grottesco parlare di spinta ai consumi, perciò Renzi va ripetendo che la misura punta a "ridare fiducia" agli italiani. In realtà, l'obiettivo è la pura e semplice propaganda elettorale: ci siamo già scordati di Berlusconi, che ha vinto due elezioni politiche promettendo di tagliare le tasse sulla casa?
Ma torniamo ai numeri. Il Governo assicura che lo Stato compenserà i Comuni per il mancato gettito della Tasi sulla prima casa, e che quindi non sarà necessario appesantire le imposte sulle altre abitazioni. Ma con quali soldi lo farà? A occhio non con quelli dei contribuenti francesi, per cui la cancellazione delle tasse sulla prima casa si ripercuoterà in ogni caso sul bilancio pubblico e prima o poi dovrà essere compensata da altre entrate fiscali, che potrebbero pesare anche su chi una casa non l'ha mai avuta e non l'avrà mai.
Ma seppure i mancati introiti dell’abolizione della Tasi colpiranno la fiscalità generale, stando a quanto trapela fino a questo momento, i nuovi nominati al vertice Rai possono stare tranquilli: il canone nella bolletta della luce lo pagheranno anche quelli che sono in affitto.
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di Fabrizio Casari
Il voto del Senato che ha approvato il Ddl Boschi sulla riforma costituzionale ha esaurito il primo dei tre passaggi che dovrebbero sancire la sua entrata in vigore. La riforma, anche da un punto di vista lessicale, ben documenta l’analfabetismo politico dei Renzi boys, e sebbene alcuni singoli punti del testo siano accettabili, è l’impianto generale della riforma che risulta pernicioso e pericoloso. L’assenza delle opposizioni dal voto è un grave errore, dal momento che anche solo in via di principio non prendere parte ad un voto sull’assetto costituzionale tradisce in radice il mandato elettivo.
Politicamente, poi, un risultato che avesse visto l’esito finale con pochi voti di scarto avrebbe minato in profondità la stessa autorevolezza della riforma; ma i tatticismi di bottega hanno avuto, come sempre, la prevalenza. Non sono ipotizzabili modifiche sostanziali alla Camera, mentre è invece auspicabile un rifiuto secco dal referendum popolare che dovrà tra un anno confermare o annullare la riforma.
Renzi twitta entusiasta ricordando che i tempi sono stati rispettati. Già, i tempi. Ci si dovrebbe chiedere il perché di tanta fretta. Perché un governo di comparse e neofiti si ostina a spostare lo sguardo dai problemi economici e sociali di questo Paese per indirizzarsi invece sulle architetture istituzionali? Peraltro il contesto di legittimità nel quale la riforma è stata votata è quanto meno discutibile. Il premier, mai votato, è stato insediato da una manovra di Palazzo e il Parlamento tutto, che ha votato le modifiche alla Costituzione, è illegittimo, giacché eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Di ben altra legittimità politica ci sarebbe stato bisogno per procedere ad una modifica sostanziale dell’architettura istituzionale.
I commenti sono diversi, sia da parte dei cantori del renzismo che dai pochi critici ammessi da un’informazione ormai a ranghi serrati. Nel merito, si può facilmente argomentare come la modifica dei criteri d’eleggibilità, delle funzioni e dei poteri del Senato, rappresentino un pastrocchio inutile, ma sarebbe limitante concentrarsi solo sulla discussione concettuale circa il bicameralismo perfetto o sull’uso che i diversi partiti potranno fare dei posti a disposizione per i consiglieri regionali che, entrando in Senato, diverrebbero titolari di immunità. Il contestuale arresto del forzitaliota Mantovani racconta ironicamente il futuro che incombe.
Il tema centrale è l’alterazione profonda degli equilibri istituzionali. Il venir meno dei poteri di controllo che garantiscono il sistema di pesi e contrappesi che rappresenta il senso della relazione tra potere e controllo dello stesso, unica misura, in fondo, del tasso di democraticità di ogni sistema. La fine dei poteri del Senato (primo tra tutti quello di sfiduciare il governo, ma altrettanto importante è anche quello di non poter più intervenire sulla legge di Bilancio e nella modifica delle leggi di spesa approvate dalla Camera) porta con sè il potere abnorme della Camera.
Un potere che diventa abnorme sia per l’assenza della funzione di controllo senatoriale, sia perché con la riforma elettorale (l’Italicum) - che è parte indissolubilmente legata - la Camera dei deputati sarà formata da una maggioranza assoluta espressione del partito che vincerà le elezioni, magari al secondo turno e con il solo 25% dei voti espressi.
Una Camera blindata a sostegno del Premier, senza nessun contrappeso in termini numerici e politici, semplicemente consegna al Presidente del Consiglio un potere assoluto che non si vedeva dai tempi dell’aula “sorda e grigia”.
E allora è qui che la lettura di questa riforma deve allarmare. Non solo sul piano della cultura democratica, che la scrittura della Carta, intervenuta proprio dopo la sconfitta della dittatura fascista, aveva interpretato come partecipativa e bilanciata negli equilibri istituzionali, ma anche per una legittimità democratica incerta che un governo privo di controlli inevitabilmente rappresenta.
A meno di voler iscriversi alla macchina propagandistica del governo, non si può pensare che la riforma Boschi sia un tentativo di riscrittura delle regole in funzione di snellimento dei processi legislativi e, con questo, dell’affermazione della volontà popolare. Emerge invece, ad una lettura attenta e contestualizzata in un quadro europeo, come la riforma sia sostanzialmente pensata e voluta proprio in direzione contraria.
Abolire il Senato corrisponde ad un disegno autoritario, che spinge sull’acceleratore della riduzione della dialettica politica in funzione di una maggiore agilità della struttura di comando. L’operazione politica che vi soggiace, ma che ne rappresenta il senso politico più profondo, è l’indebolimento crescente e progressivo dei poteri dello Stato e rappresenta la volontà di smantellamento del sistema della rappresentanza popolare.
La progressiva dismissione degli organi elettivi, accompagnata ad una reiterazione di governi mai votati, indica con chiarezza come il governo del Paese si ritenga debba essere privo di totale controllo da parte degli elettori e che il suo agire debba essere indirizzato ad una definitiva acquiescenza ai poteri economici e finanziari. Si ritiene l’interesse pubblico ostativo agli interessi dei potentati, alternativo per quanto riguarda la destinazione d’uso delle risorse ed il modello socio-economico che implicitamente prevede. Dunque, si ritiene nocivo agli interessi dei poteri forti il modello politico partecipativo e, con esso, il modello di relazione tra rappresentanti e rappresentati,
Basta vedere il testo del Trattato tra USA ed Europa, il Ttip, che in sostanziale segretezza continua a macinare strada a Bruxelles passando letteralmente sopra la testa dei parlamenti nazionali. Si deve considerare che la sostanza del Trattato prevede che le legislazioni nazionali ed europee non possano prevalere sulla libertà dei mercati e sugli interessi delle multinazionali che i mercati governano. La libertà d’impresa diventa indiscutibile e non circoscrivibile; si afferma con brutale nettezza che le leggi e le norme che disciplinano il sistema non possano mai agire in contrasto con gli interessi delle imprese.
In sostanza, se un’azienda decide d’investire in una attività che in tutta evidenza nuoce all’interesse pubblico, Parlamento e governo non possono legiferare o ricorrere a precedenti leggi per impedirlo. E se l’interesse pubblico diventa secondario, perché quello privato diventa primario, si capisce come le istituzioni deputate per definizione alla salvaguardia dell’interesse pubblico - quindi della democrazia - vengano viste come un elemento inutile o addirittura nocivo, e diventino quindi un ostacolo da rimuovere.
La riforma ha ancora dei passaggi parlamentari e popolari da affrontare. Non si può restare con le mani in mano, magari nascondendosi dietro qualunquistiche letture che vedono la politica come incrostazione normativa, o a sterili considerazioni sulla corruzione che si vorrebbe solo figlia della politica ma che, invece, abita in ogni luogo della nostra società. Serve un colpo di reni per dare il via ad una battaglia per la democrazia che veda nel NO al referendum confermativo il punto di approdo.
La battaglia per ripristinare l’interesse pubblico è la condizione necessaria per cominciare a ripristinare la democrazia in Italia. Ritenere le istituzioni superflue o addirittura dannose apre la strada ad una concezione autoritaria del sistema che in Italia ha già procurato tragedie epocali. Nessuno può chiamarsi fuori e, meno che mai, tacere ora per protestare poi. I diritti che non si difendono, si perdono.