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di Antonio Rei
Protestare è giusto, piace a tutti e spesso è comodo. Anche assumersi una responsabilità ogni tanto è giusto, ma non piace a tutti e non è mai comodo. Ne sa qualcosa Beppe Grillo, che a pochi giorni dalla votazione decisiva del Senato sul disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili fa marcia indietro e concede “libertà di coscienza” ai portavoce del Movimento 5 Stelle.
Il motivo? La cosiddetta “stepchild adoption”, ovvero la possibilità di adottare il figlio del partner anche all’interno di coppie omosessuali. Un punto su cui “le sensibilità degli elettori, degli iscritti e dei portavoce Movimento 5 Stelle sono varie per questioni di coscienza”, si legge sul blog.
A dire il vero, nell’ottobre del 2014 i grillini si erano espressi in una consultazione online a favore delle unioni civili. Quel documento viene oggi buttato nel cestino da Grillo perché “non era presente alcun accenno alle adozioni e gli iscritti del M5S non hanno potuto dibattere su questo argomento specifico”.
Perciò, “in seguito alle tante richieste da parte di elettori, iscritti e portavoce M5S su questo tema etico si lascia libertà di coscienza ai portavoce M5S al Senato sulle votazioni agli emendamenti della legge Cirinnà e alla legge nel suo complesso anche se modificata dagli emendamenti”.
In realtà, di stepchild adoption si parla ormai da molto tempo, per cui, volendo, il tempo di “dibattere su questo argomento specifico” non sarebbe mancato. Inoltre, per una consultazione last minute c’è sempre spazio sulla rete, quindi perché non ripetere il voto e far decidere al popolo grillino (e sovrano)? “Non si fa ricorso a un'ulteriore votazione online - spiega il post - perché su un tema etico di questa portata i portavoce M5S al Senato possono comunque, in base ai dettami della loro coscienza, votare in maniera difforme dal gruppo qualunque sia il risultato delle votazioni”. Quindi, in realtà, il tempo per dibattere non serviva.
Ne è servito poco anche per completare il giro della piroetta: nel volgere di pochi giorni, infatti, il Movimento è passato dalla minaccia di far saltare il Ddl in caso di ritocchi da parte del Pd all’inusitata scelta della libertà di coscienza (garantita dalla Costituzione, ma finora sempre vituperata dal Movimento).
A ben vedere, il ribaltone consente di sottrarsi a una responsabilità molto scomoda. Sulle unioni civili la maggioranza degli italiani è d’accordo, ma il via libera all’adozione nell’ambito di una coppia omosessuale desta molte più perplessità (anche se il punto non è concedere nuovi diritti, ma garantire ai minori ulteriori tutele, regolando per via giuridica delle situazioni che già si verificano).
Grillo e Casaleggio questo lo sanno benissimo, perciò scelgono di non scegliere, dimostrando ancora una volta la differenza che passa fra protestare e prendere posizione. Finché ci si limita alla contestazione, si ha sempre ragione, si sia ex Pci e ex Msi, centri sociali o Casa Pound, apolidi, delusi o arrabbiati vari. Quando però si tratta di realizzare qualcosa di concreto nel mondo reale, come far passare in Parlamento una legge importante, bisogna scegliere da che parte stare e affrontare il dissenso della parte avversa.In questo caso, però, il dissenso è all’interno del Movimento. Sembra che il fronte dei contrari alla stepchild adoption fra i senatori grillini sia più ampio del previsto, perciò il tentativo d’imporre una linea sarebbe stato assai pericoloso: primo, perché un’ulteriore spaccatura fra i parlamentari del M5S si sarebbe rivelata difficile da gestire e molto scomoda in vista delle amministrative; secondo, perché in caso di voto segreto il rischio di una figuraccia sarebbe stato molto concreto.
Tutti problemi che si risolvono in scioltezza tirando fuori dal cilindro il coniglio della libertà di coscienza. E pazienza se a questo punto l’approvazione della legge torna in bilico, visto che, senza l’apporto certo di tutti i senatori grillini, la maggioranza alternativa con M5S al posto del Nuovo Centrodestra potrebbe fallire la sua missione.
Il Pd, a parole, non vorrebbe stralciare dal testo l’articolo sulla stepchild adoption, ma forse sarà costretto a farlo per non mettere a rischio l’intero disegno di legge. Il tutto per la gioia di Alfano, che potrebbe intestare a proprio merito un disastro causato dalla viltà di altri.
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di Fabrizio Casari
Se n’è andato in silenzio, a 89 anni, con la discrezione che ha caratterizzato la sua vita personale. Armando Cossutta, figura storica del comunismo italiano, ha chiuso gli occhi. Come un signore d’altri tempi, circondato dalla sua famiglia, amata più di ogni altra cosa al mondo e che da lui ha appreso il senso dell’esistenza, tutta spesa a favore della causa che sposò da giovanissimo e alla quale rimase fedele fino all’ultimo minuto.
Partigiano a diciassette anni e per tutta la vita, combattente nella Brigata Garibaldi, ebbe nella Resistenza e nella Costituzione che da essa derivò le stelle polari che ne guidarono le scelte politiche, dal PCI fino ai Comunisti Italiani. Perché Armando Cossutta ebbe non solo un ruolo straordinario nel Partito Comunista, ma anche l’ardire di dare vita ad altri due partiti comunisti, entrambe avventure che solo la stoltezza politica di Bertinotti prima e le ambizioni di Diliberto poi, riuscirono a trasformare in due feticci inutili nel panorama politico italiano.
Bastava conoscerlo per capire quanto i cliché che gli venivano affibbiati fossero del tutto fuori luogo. Venne definito filosovietico per il suo legame con Mosca, dimenticando però che quel legame non era il frutto di una scelta personale - certamente condivisa - ma riferiva di una collocazione politica del PCI tutto. E non si considerò che proprio lui, il “filosovietico”, seppe scontrarsi duramente con i vertici del PCUS quando davvero per farlo servivano convinzione politica e tempra ben diversa da quella oggi in uso. Altro che portare nel PCI le tesi di Mosca. Difese piuttosto, di fronte ai sovietici ed ai loro alleati, le scelte di politica interna ed estera del PCI; mai ebbe un dubbio su questo. Fu non a caso lui che, condannando l’invasione di Praga, dopo essersi consultato con Luigi Longo scrisse: “I confini degli ideali socialisti non collimano con quelli degli stati socialisti”.
Considerava l’Unione Sovietica un progetto incompiuto, non replicabile ma nemmeno da disprezzare; cresciuto alla leva dei migliori allievi di Luigi Longo, sapeva bene quanto ogni testo dovesse essere calato in un contesto e quanto, la pur straordinaria importanza della tattica, non dovesse mai far perdere di vista l’orizzonte strategico.
Svolse per il PCI ruoli di assoluta delicatezza e lo fece con assoluta efficacia e precisione. Guardiano severo della disciplina di partito, come ebbe a dire Berlinguer “accumulò molto potere ma senza mai abusarne”. Nella vulgata dell’approssimazione passava per essere l’uomo della conservazione, restìo ad aderire all’idea di un PCI che dovesse aprirsi, mentre in verità Cossutta, che certo era custode geloso di quella diversità e di quegli ideali, ben comprendeva le ragioni del compromesso storico e persino dell’unità nazionale, ma non poteva tollerare la discesa del suo partito e degli interessi di classe che rappresentava verso una deriva ideale e politica, che avrebbe prodotto proprio quella che lui ebbe a definire “ la mutazione genetica”.Proprio quell’ansia smodata di modernità compatibile con il sistema che si voleva cambiare nel profondo, Cossutta considerò essere il portato di un abbandono dei principi su cui quella diversità si era forgiata. Combatté in ogni modo e luogo la battaglia per tenere il suo partito all’interno di uno schema di alleanze internazionali con il mondo socialista, che sapeva essere aggancio fondamentale contro la deriva moderata che, per quei principi, disponeva l’archiviazione.
E fu proprio in opposizione al voto favorevole all’adesione dell’Italia alla prima guerra del Golfo che decise di rompere con quella liturgia a lui così cara e votare in difformità dalle indicazioni del partito. Contrastò la Bolognina soprattutto considerando che, quel cambio di nome, era il segno simbolico e definitivo dell’abbandono di un sistema di valori sull’altare della governabilità comunque e con chiunque.
Diede quindi vita a Rifondazione Comunista pur scegliendo di non assumerne il ruolo di Segretario, proprio in ragione del fatto che il suo nome e la sua storia potevano risultare un intralcio all’allargamento verso la sinistra dispersa che voleva e seppe far convogliare nel progetto rifondativo.
Tenne insieme offrendogli una sponda politica decine di migliaia di militanti che, dopo la fine del PCI, perdevano il punto di riferimento di tutta la vita. Seppe ribellarsi al generale “rompete le righe” tanto in voga in quegli anni e ricostruì una prospettiva per chi voleva analizzare gli errori per superarli in avanti. Questo fu uno dei suoi grandi meriti: rifiutare l’abiura proposta dal pensiero unico e tentare di ricostruire una idea e una prassi della trasformazione politica rivendicando la nobiltà di quell’aggettivo qualificativo - comunista - che aveva così profondamente segnato il secolo scorso.
Ed ebbe il coraggio di riconoscere anche gli errori di quel partito comunista di cui era stato tra i massimi dirigenti. In una lettura dinamica, aperta al confronto e sensibile agli argomenti, non ebbe incertezze a riconoscere a Berlinguer di “aver avuto ragione sullo strappo, ma torto sulla deriva ideale del partito”. E, libero dai condizionamenti e aperto al dialogo ed alla riflessione con la sinistra che pure aveva una storia diversa dalla sua, si trovò con naturalezza davanti ad una platea di ex appartenenti a Lotta Continua a riconoscere gli errori del PCI negli anni dell’emergenza, affermando: “Non comprendemmo”.
Ma non è solo il dirigente politico di cui si sentirà la mancanza. Armando Cossutta è stato un uomo come pochi. E, sia concesso dirlo, anche sul piano personale fu uomo di assoluta gradevolezza. Un signore vero, una persona garbata, elegante e sobria, che sapeva voler bene e farsi voler bene da chi aveva vicino. Conscio dei suoi limiti e delle sue qualità, fu persona estremamente riservata e uomo di cultura: amava la letteratura, i classici latini, adorava la storia e la musica classica, amava con tutto se stesso i suoi tre figli e i quattro nipoti.Il suo legame con la moglie Emilia, per tutti Emy, è stato unico ed irripetibile, nato durante la guerra e proseguito incessante e dolcissimo per tutta la vita. Per oltre settant’anni nulla decise senza la sua amata Emy, dalla quale non si separò mai nemmeno un momento e con la quale s’integrava perfettamente. Apparentemente così diversi caratterialmente, erano una persona sola. Quella in cui ritrovi te stesso e, spesso, più di te stesso.
Ed oggi, che la volgarità e il denaro hanno sostituito l’eleganza, gli ideali e la dedizione di un tempo, la figura di Armando Cossutta assume i contorni di un protagonista assoluto che vorremmo ancora fosse al suo posto di lotta. Anche questo modo che oggi definiremmo così antico di pensare ad una vita colma di passioni ideali e così priva d’interessi personali, ci mancherà. Di uomini così, di dirigenti così, si è perso lo stampo.
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di Tania Careddu
Nonostante la poca chiarezza di alcune voci e l’altrettanta coerenza nella compilazione dei bilanci, si può certamente calcolare che, in due anni di legislatura, Camera e Senato hanno stanziato centosei milioni di euro come contributo a dodici gruppi parlamentari. Che più sono numerosi, più soldi ricevono (va da sé che le diaspore fra un gruppo e un altro influenzano pesantemente l’ammontare dei contributi).
Soldi utilizzati principalmente, per il 70 per cento circa del totale, per il personale: dipendenti, collaboratori e consulenti. Esclusi questi ultimi, alla cui cifra stanziata nei bilanci non segue il dettaglio, nel 2014, hanno lavorato per i gruppi parlamentari oltre cinquecentosessanta persone, con un rapporto, nella migliore delle ipotesi, di uno a due con i parlamentari e, nella peggiore, con personale in esubero rispetto al numero dei componenti del gruppo. Costando, da inizio legislatura, circa settanta milioni di euro.
A Montecitorio, Forza Italia è il gruppo che sente maggiormente il peso del personale mentre il Partito Democratico è quello con più membri del personale in proporzione agli onorevoli; a Palazzo Madama, svettano il gruppo Misto e la Lega Nord, con un rapporto fra personale e senatori più alto della media.
Non basta. Nei bilanci dei gruppi parlamentari, compaiono altre due voci: spese per l’acquisto di beni (vedi carburante, cancelleria, stampanti, libri e pubblicazioni) e spese per il supporto all’attività politica, tipo studi, editoria e comunicazione. Dall’inizio della legislatura, secondo quanto si legge nel dossier di Openpolis ‘Paga Pantalone’, duecento mila euro per le prime: centodiciotto mila euro alla Camera, in media centosessantadue euro a deputato, e ottantuno mila euro al Senato, trecentosettantaquattro euro a senatore.
E se a Montecitorio i dati sono molto eterogenei, con Ap, Forza Italia e Misto pari a zero e con Scelta Civica, Sinistra Ecologia e Libertà con quattrocento euro a deputato in due anni, a Palazzo Madama il dato è fortemente trainato dal gruppo Misto che, durante lo stesso periodo, ha speso oltre mille euro per senatore. Tre volte la media dell’Aula. Settemila euro all’anno solo per l’acquisto di carburante. E il Movimento 5 Stelle che ha totalizzato la spesa assoluta più alta: oltre trentamila euro, spendendone ventotto mila, nel 2013, per l’acquisto di beni strumentali.
Più di quattro milioni e mezzo per le spese di comunicazione: ottocentosettantuno mila euro al Senato e tre milioni e settecento mila euro alla Camera: Scelta Civica, Partito Democratico, e soprattutto Lega Nord. La quale è al vertice della classifica anche al Senato, impiegando il 12,50 per cento delle sue entrate e, nell’ultimo anno di bilancio, utilizzando centonovantuno mila euro in comunicazione.Ma qual è il confine tra promozione dell’attività di partito e promozione dell’attività del gruppo parlamentare? Sottile. Se si pensa che parte del milione di euro speso dal PD in comunicazione nel 2014è stato impiegato per la partecipazione del gruppo alle varie feste dell’Unità in giro per l’Italia e che Fratelli d’Italia, nel 2013, ha investito sei milioni di euro per partecipare ad Atreiu, festa nazionale dei movimenti giovanili di destra.
Proviamo a riassumere? Deputati e senatori ricevono uno stipendio per portare avanti il loro incarico in Parlamento; fanno però parte di gruppi parlamentari che, a loro volta, ricevono soldi per rimborsi di funzione. Soldi che, fra le altre cose, vengono utilizzati per partecipare a eventi del partito di cui fa parte il gruppo, nonché il parlamentare. I conti (non) tornano.
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di Antonio Rei
Forcaiolo inflessibile a Roma, garantista irreprensibile in Campania. Quella del Pd renziano sembra proprio una schizofrenia di bieca convenienza politica. Al di là delle eventuali responsabilità penali di Ignazio Marino e di Vincenzo De Luca, che saranno stabilite dalla magistratura, il marasma delle ultime settimane ha dimostrato che non c'è limite al trasformismo del Premier e del suo partito.
Da perfetto democristiano, il Presidente del Consiglio adotta pesi e misure differenti in base al proprio interesse, scegliendo di volta in volta la strada che ritiene più conveniente per accrescere o conservare il potere di cui dispone.
Con tanti saluti a ogni principio di equità e democrazia nella gestione interna del partito, oltre che a ogni velleità di coerenza. E' impossibile spiegare diversamente la disparità di trattamento che il Pd ha riservato all'ormai ex sindaco di Roma e all'attuale governatore della Campania. Una piroetta rapidissima, degna della migliore etoile.
"La mia posizione, quella del governo e quella del partito, è di avere rispetto per la magistratura: faccia il suo corso, noi abbiamo molta fiducia". Queste le parole di Renzi in conferenza stampa a proposito del governatore De Luca, indagato per concussione insieme ad altre sei persone, tra cui una giudice del Tribunale di Napoli, Anna Scognamiglio, al marito di lei Guglielmo Manna, manager dell'azienda ospedaliera Santobono, e all’ex capo della segreteria del governatore, Carmelo Mastursi. "Il presidente della Regione ha la titolarità, il diritto e direi anche il dovere di governare quella Regione, ha un mandato pieno dai cittadini", ha chiosato il Premier.
Non più tardi di un mese fa, Renzi avrebbe potuto pronunciare queste identiche parole in riferimento alle vicende che hanno terremotato il Campidoglio. Peccato che in quel caso, invece del pacato garantismo concesso a De Luca, abbia scelto la strada del massacro politico-mediatico. Un vero e proprio tiro al piccione: nelle ultime fasi del suo mandato Marino è stato impallinato a ripetizione dai suoi stessi compagni di partito che, dopo averlo a lungo sostenuto, hanno cambiato linea dalla sera alla mattina per rispondere a un ordine arrivato dall'alto.
"Se non si dimette lui lo dimettiamo noi", Renzi dixit. E così è stato: prima ancora che dalla Procura partisse l'avviso di garanzia (Marino è indagato per peculato e falso in atto pubblico), il destino del sindaco era già stato deciso. Non nelle urne elettorali, né in Assemblea capitolina, ma a Palazzo Chigi. Contro ogni regola o prassi democratica, il primo cittadino di Roma è stato cacciato per decisione del capo del suo partito.
Intendiamoci, Marino di errori ne ha commessi a iosa, soprattutto per la comunicazione disastrosa e l'incapacità di trovare soluzioni efficaci ai problemi più gravi della città. Ma la campagna mediatica scatenata contro di lui è stata semplicemente ridicola, addirittura più severa di quella riservata a Gianni Alemanno, come se qualche cena pagata con la carta di credito del Comune fosse paragonabile all'architettura camorristica di Mafia Capitale. In teoria, nel momento in cui Renzi ha deciso di cacciarlo, anche Marino aveva "la titolarità, il diritto e anche il dovere di governare" il Comune di Roma. Anche lui aveva ricevuto "un mandato pieno dai cittadini", volendo in modo anche più limpido di De Luca, che pur di vincere ha riempito le sue liste di personaggi quantomeno ambigui. Ma la verità è che l'ex sindaco di Roma ha perso il posto per ragioni che con "il mandato dei cittadini" non avevano nulla a che fare.
Tutto si è giocato su una logica di potere: Marino era un non-renziano che ricopriva una carica troppo importante per essere tollerato da Renzi. De Luca, invece, deve rimanere dov'è: dopo la clamorosa sconfitta del Pd in Liguria, la quasi sconfitta in Marche e Umbria e la bagarre in Campidoglio, perdere anche la Campania vorrebbe dire esporsi a un rischio grave, quello d'innescare la spirale della sconfitta. Pur di evitare un pericolo del genere, Renzi accetta di esibirsi in piroette senza scrupoli.
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di Fabrizio Casari
Una giornataccia per il premier bullo, che si è visto piombare addosso alcune notizie poco rassicuranti. La prima è la più importante sotto il profilo della finanza pubblica. La Corte dei Conti ritiene infatti che la legge di Bilancio, così come proposta, non dispone di coperture sufficienti e mette a rischio la stabilità economica del Paese.
A giudizio della Corte, infatti, la Legge di Stabilità "utilizza al massimo gli spazi di flessibilità disponibili, riducendo esplicitamente i margini di protezione del conti pubblici, e lascia sullo sfondo nodi irrisolti (clausole, contratti pubblici, pensioni). Nello specifico della contestata abolizione dell’IMU, la magistratura contabile ritiene che la manovra nel suo complesso comporti una partita di giro pericolosa per le finanze del paese, dal momento che l’abolizione della tassa di proprietà sulla prima casa comporterà un minor gettito per la fiscalità generale decisamente improponibile per lo stato dei conti pubblici.
Inoltre, la Corte rileva come inevitabilmente il danno maggiore in forma diretta sarà avvertito dai Comuni, che dovranno giocoforza elevare addizionali o altre imposte per riportare il mancato gettito derivante da Imu e Tasi nei bilanci comunali già sofferenti. Va ricordato, peraltro, che il Patto di Stabilità impedisce agli Enti Locali manovre finanziarie a debito. E fin qui, la Corte riafferma quanto già detto da osservatori e forze politiche non allineate, ossia che la manovra è iniqua (perché favorisce i ricchi) anticostituzionale (perché ignora il concetto di progressività delle imposte in base al reddito) e priva di coperture (dal momento che non propone investimenti atti al rilancio dei consumi e, dunque, dell’economia interna, che porterebbero ad un aumento del PIL).
La levata di scudi degli Enti Locali contro la manovra non sarà certo la pietra miliare della resistenza, visto che lo stesso Chiamparino, che in vista della Conferenza Stato-Regioni e Unificata critica il Premier su Imu e Tasi, è uno dei grandi sostenitori del Premier e lui, come altri sindaci e governatori di fede renziana, non si metterà certo di traverso. Per questo il premier bullo aveva già annunciato il suo “ci sarà davvero da divertirsi” in vista dell’incontro tra Governo ed Autonomie per l’approvazione della manovra.Ma la critica diretta della magistratura contabile si esercita anche sulla questione, decisamente controversa, dell’aumento da mille a tremila euro per l’uso del contante. La Corte, infatti, ricorda che mentre la misura favorisce indiscutibilmente l’evasione fiscale, non si dispone di dati empirici che confermino come l’uso del contante sia un volano per la ripresa dei consumi.
In effetti, la differenza tra spendere 3000 euro in contanti o con una carta di credito è solo la conseguente tracciabilità dei pagamenti, dunque la possibilità di misurare il reddito effettivo e non quello dichiarato.
D’altra parte, anche il senso comune evidenzia come difficilmente chi decide di aumentare i consumi acquistando generi di qualsivoglia tipologia va in giro con 3000 euro in contanti, vuoi per comodità, vuoi per il rischio di essere derubati o di perderli. Diventano invece importanti se destinati ad attività che non devono essere tracciate.
Questa manovra, venduta dai media asserviti come atto interruttivo dell’austerity e celebrata come finanziaria “di sinistra” pur se contenente una logica economica di destra (in questo senso è degna figlia del Presidente del Consiglio), sembra veder crescere da ogni dove dubbi e perplessità circa la sua efficacia.
Da Bruxelles che la critica per le mancate coperture e per essere una manovra a debito, fino a Bankitalia prima e alla Corte dei Conti poi, che ne ravvisa contraddizioni ed incongruenze (oltre ad accusare indirettamente il Governo di favorire l’evasione fiscale), il cammino della Legge di Stabilità rischia di rivelarsi più tortuoso del previsto.
Emerge con assoluta chiarezza il dilettantismo tecnico di un governo incapace di cogliere la congiuntura economica e politica favorevole (il prezzo del petrolio al minimo storico; il quantitative easing di Draghi che tiene al minimo lo spread; la vendita dei BOT per la prima volta con il segno attivo per lo Stato; la crisi politica della Germania e con essa la riduzione della pressione turbo monetarista europea).
Che invece scimmiotta Berlusconi nell’esercizio della finanza creativa, smontando pezzi di welfare e non investendo nulla nelle opere pubbliche e nel riequilibrio finanziario delle famiglie (ad esempio con la flessibilità in uscita sulle pensioni), limitandosi a riproporre gli sciagurati 80 Euro che migliorano la vita di chi già ha e non aiutano per niente chi non ha.
Un modello di economia mutuato dalle Dame di San Vincenzo, che scambia l’elemosina con le politiche economiche, dimentica la razionalizzazione della spesa pubblica, stronca ogni velleità di crescita e impone tagli lineari sui servizi di tremontiana memoria. Renzi l’ha definita una manovra con il “segno +”. Vero, se inteso come una croce.