di Antonio Rei

Ci risiamo. Dopo la truffa della scheda referendaria con il quesito-spot per il sì, il premier Matteo Renzi ha pensato bene d’inviare una lettera di propaganda ai quattro di milioni d’italiani iscritti all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Queste persone rappresentano da sole l’8% dell’elettorato italiano e saranno probabilmente decisive per l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre.

Il problema è che la missiva non contiene un testo esplicativo sulle procedure per il voto, ma di un invito esplicito a votare SÌ. E in calce c’è pure la firma di Renzi, che per l’occasione sceglie di presentarsi come segretario del Pd.

Peccato che poi inizi la lettera con un’autocelebrazione dei presunti successi ottenuti da quando è a Palazzo Chigi. Si definisce perfino «orgoglioso rappresentante del paese che tutti amiamo», cioè Presidente del Consiglio, non segretario di un partito. Da non sottovalutare poi la sua ispirazione poetica, capace di evocazioni che puntano a coinvolgere emotivamente il lettore: «Ogni viaggio all’estero - scrive Renzi - ogni volta che ho sentito risuonare l’inno di Mameli con voi, ogni volta che ho incrociato i vostri sguardi orgogliosi, ogni volta che sono riuscito a stringervi le mani». Ogni volta che ha fatto queste cose, le ha fatte come Presidente del Consiglio - aggiungiamo noi - non come segretario di un partito.

Ma la parte che più conta arriva dopo il panegirico iniziale, quando si passa alla call to action, come si dice nel gergo del marketing. «Sarete voi a decidere - si legge nel testo - se questa Italia deve andare avanti oppure deve tornare indietro... Oggi siamo a un bivio. Possiamo tornare ad essere quelli di cui all’estero si sghignazza, quelli che non cambiano mai, quelli famosi per l’attaccamento alle poltrone e le azzuffate in Parlamento. Oppure possiamo dimostrare con i fatti che finalmente qualcosa cambia, e che stiamo diventando un Paese credibile e prestigioso».

Insomma, è l’ennesimo colpo basso di questo Governo, che nonostante la solita arroganza dimostrata dai suoi rappresentanti fra salotti tv e comizi, sa bene di essere in svantaggio rispetto al NO e per questo non esita a giocare sporco pur di recuperare terreno, violando apertamente il principio della parità di condizioni fra i due schieramenti in corsa.

Il ministro Boschi ha pensato di ripulirsi l’immagine precisando che la letterina “non arriverà insieme alla scheda elettorale, ma contemporaneamente”. Un sofisma di cui non si sentiva davvero bisogno, anche perché - come detto - la stessa scheda è una truffa, dal momento che pone agli elettori una domanda tendenziosa, spudoratamente concepita per orientare le matite a mettere la croce su SÌ.

Certo, se la lettera fosse arrivata nella stessa busta della scheda avrebbero sconfinato direttamente nel territorio dell’illegalità. Ma il fatto che gli italiani all’estero riceveranno allo stesso tempo gli strumenti per votare e le istruzioni su come farlo rappresenta comunque una distorsione vergognosa della campagna elettorale.

«Man mano che emergono i particolari e i contorni, la lettera inviata da Renzi agli elettori italiani all'estero pone problemi seri e preoccupanti” ha detto Alfiero Grandi, vice presidente del Comitato per il No. «Il ricorso alla magistratura in tutte le sedi possibili - ha aggiunto - è a questo punto inevitabile per cercare di ottenere giustizia e il ripristino della parità di condizioni per il Sì e per il No in campagna elettorale».

I comitati del No hanno anche chiesto al presidente della Repubblica un incontro «urgente» per «rappresentare le gravi preoccupazioni in ordine alla correttezza della competizione referendaria con particolare riferimento agli italiani residenti all’estero».

Non possono bastare le giustificazioni della Boschi a chiudere il caso: non possiamo berci la storia dell’iniziativa referendaria autonoma da parte del Pd, visto che, come abbiamo visto, in quelle lettere Renzi parla da Presidente del Consiglio, sovrapponendo ambiguamente le cariche che ricopre (una pubblica e una privata).

L’indecenza di un gesto simile dimostra che aveva ragione De Mita quando, nel confronto diretto su La7, ha definito Renzi un uomo volgare. Non solo: a definitiva conferma della propria volgarità e dell’ipertrofia del proprio Ego, il Premier ha allegato al testo alcune fotografie che lo ritraggono con i grandi della terra, a cominciare da Barack Obama.

Il che, è evidente, non rappresenta proprio un buon auspicio per il SÌ, visto come sono andate le ultime elezioni presidenziali negli Usa. Ma per capire questo bisognerebbe saper ragionare di politica. Invece, a Palazzo Chigi, si usa praticare solo il marketing di più basso livello.

di Fabrizio Casari

Con una decisione gravissima, presa alla chetichella e venuta alla luce solo grazie a fonti giornalistiche, il governo italiano ha deciso di inviare 140 militari in Lettonia, al confine con la Russia. Agirebbero nell'ambito di una forza multinazionale NATO sotto comando canadese - complessivamente tra i 3 e i 4mila uomini sottoposti a rotazione - che sarebbero a difesa delle frontiere esterne con la Russia nelle repubbliche baltiche e nella Polonia orientale, in ottemperanza a quanto deciso dal recente vertice NATO di Varsavia. La notizia, emersa da un'intervista al segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, è stata confermata dai ministri Pinotti e Gentiloni.

La presenza dei nostri militari è illegittima, dal momento che si dà in assenza di una decisione del Parlamento italiano, letteralmente bypassato in spregio alla prassi istituzionale che vede la possibilità d’invio all’estero di militari solo a seguito di un voto del Parlamento.

E’ gravissimo che un governo mai eletto, con un premier screditato ed un ministro della Difesa tra i meno influenti nella storia repubblicana utilizzi lo schermo dell’Alleanza Atlantica per scavalcare il Parlamento e, con esso, la sovranità nazionale del nostro Paese. Sembra essere la prova generale di come dovrebbero funzionare Camera e Senato in caso di vittoria dei SI al referendum costituzionale. L’intero arco dell’opposizione, dalla Meloni a Grillo, a SEL, ha duramente protestato per una decisione che appare un inchino alla NATO ed un insulto all’Italia e ai suoi interessi.

In particolare Grillo, che ha affermato: "Renzi china la testa, ma l'invio di 150 uomini in Lettonia è inaccettabile. Questa azione è sconsiderata, è contro gli interessi nazionali, espone gli italiani a un pericolo mortale ed è stata intrapresa senza consultare i cittadini. L'Italia non ci guadagna nulla e ci perde tantissimo. In termini di sicurezza nazionale questa missione rischia di esporre il nostro Paese al dramma della guerra. Ci riporta indietro di trent'anni e alza nuovi muri con la Russia, che per noi è un partner strategico e un interlocutore per la stabilizzazione del Medio Oriente".

Priva di ragioni e densa solo di possibili rischi per il nostro Paese, l’operazione militare in corso è un importante tassello nella strategia statunitense e tedesca che mira ad alzare al livello di guardia la tensione con Mosca. Già attaccata con ripetute provocazioni  politiche e militari e con sanzioni economiche che (a parole) il Primo Ministro italiano afferma di non condividere (costano oltre 1 miliardo e trecento milioni di Euro annui al nostro export e la perdita di circa seimila posti di lavoro) la Russia subisce nei fatti un accerchiamento politico, economico e militare che pone a serio rischio la pace nel teatro europeo.

La strategia degli Stranamore occidentali sembra essere quella di testare oltre ogni prudenza la disponibilità russa ad accettare una progressiva riduzione del suo spazio geopolitico e ad essere circondata da forze militari ostili. Una strategia pericolosissima che si dispiega su livelli diversi. L’installazione di batterie missilistiche in Polonia e Ungheria, il dispiegamento di forze armate dei paesi Nato ai confini con il territorio russo, sono una delle due gambe sulle quali poggia la strategia della tensione che Unione Europea e USA hanno deciso di promuovere.

L’altra gamba è invece rappresentata dal sostegno ai movimenti di estrema destra che tentano operazioni secessioniste, dalla Georgia all’Ucraina, che azzerano la zona “cuscinetto” prudentemente decisa da diversi accordi militari tra Mosca e la NATO che Washington ha progressivamente ignorato.

La risposta russa non si è fatta attendere e, sebbene Mosca cerchi di limitare al minimo la reazione, la resistenza della popolazione del Dombass e l’autonomia della Crimea, indisponibili a farsi inglobare nel disegno del governo nazistoide ucraino, ne hanno rappresentato il primo esempio. La Russia, benché cerchi un clima positivo, non é affatto disponibile a recitare la parte dell’agnello sacrificale per l’estensione del dominio politico e militare NATO nell’Est Europa.

Ritenere di poter testare la pazienza russa, scommettere su una reazione misurata, piuttosto che su una risposta dura, significa scherzare con il fuoco. Fino a che punto si ritiene di poter minacciare Mosca senza che arrivi una risposta adeguata? Ma c’è poi un testo, oltre che un contesto. Quale sarebbe la minaccia all’Europa portata da Mosca per cui si renderebbe utile mostrare i muscoli? In quale momento la Russia ha deciso di premere sui paesi europei, così da giustificare una iniziativa militare di risposta?

E’ la partita del comando globale, aperta da Washington e Bruxelles, il vero motivo di anni di provocazioni. Perché gli Stati Uniti ritengono la crescita esponenziale del ruolo politico di Putin e l’obiettivo consolidamento della Russia nell’ambito della governance internazionale, una minaccia alla loro leadership. Questa, ampiamente ridottasi in forza della crisi economica e dall’emergere sulla scena degli equilibri mondiali nuove sfide, pensa di poter riaffermarsi attraverso il suo comando globale sul piano militare. Con questo stesso intento si cerca di alzare il tiro contro la Cina nel Pacifico, dispiegando missili e flotte nel Mar della Cina che ottengono l’effetto di far levitare la tensione con il gigante asiatico. E’ lo scontro militare il volano per l’economia malata statunitense e l’Europa, come sempre, tace ed obbedisce e la Mogherini recita la parte della tappezzeria nei saloni delle decisioni.

Mosca é l’ossessione del complesso militare e industriale di Washington. Del resto la Russia non è più quella di Eltsin, ovvero un enorme Paese in mano ad un ubriaco scelto a Washington. Ha quindi deciso di recuperare un ruolo proporzionale al suo peso economico, militare e politico che in Occidente si pensava poter ridurre al nulla. La strategia russa si poggia sull’alleanza politica e militare con Pechino e Teheran, sul suo ruolo centrale nella guerra al terrorismo islamico e nell’assetto mediorientale, sul crescente peso nell’area del Bosforo tramite il dialogo con la Turchia, sul suo peso nel mercato energetico mondiale, sulla presenza attiva nei paesi BRICS e sulla costante iniziativa finanziaria in America Latina. Tutto questo, 28 anni dopo la caduta dell’URSS, mette nturalmente in discussione il comando unipolare a guida occidentale, ovvero statunitense.

Ma pensare di poter circondare la Russia è ridicolo e schierare truppe e missili serve solo ad alzare pericolosamente la tensione con un paese immenso dotato di una forza nucleare tattica e strategica impressionante. C’è da chiedersi: in quale momento i cittadini europei hanno scelto d’immolare la pace continentale alle strategie di una NATO ormai lanciata verso l’ampliamento dei membri e la rottura degli equilibri strategici in Europa? E in quale occasione i cittadini europei hanno scelto di rischiare la guerra per sostenere le rivendicazioni ucraine, avanzate da un governo fascista, più o meno della stessa natura di quello ungherese e polacco? Se si pensa di umiliare la Russia, di circondarla e intimorirla, significa non aver capito nulla delle lezioni della storia, non avere idea di quale differenza passi tra uno staterello ed un gigante geopolitico e militare.

La Russia non è una minaccia, semmai è minacciata. Il presidente Renzi, che diffonde a reti unificate le sue lagnanze contro l’Europa quando si tratta di disavanzo, tace ed acconsente con il consueto inginocchiamento davanti a Obama e si arruola nella nuova campagna. Servirebbe un’Europa conscia del proprio ruolo di ponte tra Oriente e Occidente per evitare che il Vecchio Continente possa diventare un possibile teatro di guerra. E servirebbe un Presidente del Consiglio italiano degno di tal ruolo per riaffermare la centralità dei nostri interessi.

A Varsavia Renzi sostenne che i militari NATO nei Paesi Baltici “favoriscono il dialogo con la Russia” e ieri, di fronte a Mattarella, si è lasciato andare a una battuta sul “progetto di invadere la Russia”. Purtroppo l’Europa è in mano ai banchieri ed alla Cancelliera Merkel concentrata sulla sua campagna elettorale e l’Italia a un venditore di pentole, arrogante di fronte ai deboli e ambasciatore dei poteri forti. Servirebbe uno statista, abbiamo uno sbruffone.

di Antonio Rei

Quest’anno la Commissione europea non può fare storie: deve concedere al governo italiano tutta la flessibilità richiesta. E non per considerazioni economiche - i conti del nostro Paese non sono migliorati rispetto agli anni passati, anzi - ma semplicemente perché si tratta di una mossa politica obbligata in vista del referendum costituzionale.

È stato lo stesso Pierre Moscovici, Commissario agli Affari Economici e Finanziari della UE, a scoprire le carte. L’esecutivo comunitario - ha detto la settimana scorsa - è pronto a “considerare” le richieste italiane di flessibilità legata alle “spese per i rifugiati” e per il “terremoto”. Certo, non è ancora un via libera ufficiale. Per quello bisognerà aspettare ancora circa un mese, considerando che il governo deve trasmettere a Bruxelles entro il 15 ottobre il Documento programmatico di bilancio, per poi approvare la legge di Stabilità entro il 20 ottobre. Eppure, l’approvazione sembra scontata.

Il perché lo ha spiegato ancora Moscovici, affermando candidamente che in Italia ''c'è una minaccia populista”. Di conseguenza, “sosteniamo gli sforzi di Renzi affinché sia un partner forte all'interno dell'Ue”, ha aggiunto il commissario, il quale si è detto poi fiducioso sul fatto che “l’Italia se la caverà come sempre e risolverà i problemi con il nostro aiuto”.

A voler tradurre le parole dell’ex ministro francese, è evidente che scegliendo l’indulgenza finanziaria la Commissioni si schieri apertamente in favore del SÌ al prossimo referendum del 4 dicembre. La sua prima preoccupazione è tenere in piedi Matteo Renzi, che non è affatto ben visto dalle parti di Bruxelles, ma viene giudicato comunque il male minore considerando le alternative che popolano il panorama politico italiano.

Se infatti al referendum vincesse il NO, forse Renzi riuscirebbe comunque a rimanere in sella per qualche tempo, ma sarebbe politicamente finito e la sua agonia spianerebbe la strada al Movimento 5 Stelle. Ovvero a quella “minaccia populista” che tanto spaventa le cancellerie europee.

Ora, l’ingerenza della Commissione europea nella politica interna di un Paese membro è scandalosa, ma di per sé non rappresenta una novità. Piuttosto, le sorprese arrivano da altri due fronti. Innanzitutto, è sconcertante che Bruxelles non impari mai dalle esperienze passate, visto che il referendum greco sugli accordi con la troika e quello britannico sull’uscita dall’Ue hanno ampiamente dimostrato quanto il silenzio sia il migliore alleato dell’Europa unita.

Ogni volta che ha aperto bocca sulle consultazioni negli Stati membri, la Commissione non ha fatto altro che alimentare la brace dell’antieuropeismo che arde in ogni Paese, e anche stavolta c’è da scommettere che le parole di Moscovici si riveleranno un boomerang per il SÌ. I soldi dell’Europa servono, ma l’appoggio esplicito di Bruxelles è un bacio della morte per il nostro Premier, che non a caso negli ultimi tempi non manca occasione per scagliarsi con sempre maggior vigore contro la politica economica comunitaria.

In secondo luogo, sorprende la radicale divergenza d’opinioni fra l’Ue e la City di Londra, che a quanto pare non è così in ansia per la sorte di Renzi e prende posizione con vigore a sostegno del NO. La settimana scorsa Tony Barber ha scritto sul Financial Times che la riforma costituzionale è “un ponte verso il nulla” e che farà “ben poco per migliorare la qualità del governo, della legislazione e della politica”.

E ancora, con perfetta sintesi: “Nelle capitali europee, il sentimento comune è di sostenere Renzi. Un'Italia senza timone, vulnerabile a una crisi bancaria e al movimento anti-establishment dei Cinque Stelle, causerebbe seri problemi. Eppure, una sconfitta di Renzi al referendum non per forza destabilizzerà l'Italia. Una vittoria, invece, potrebbe far emergere la follia di mettere gli obiettivi di sopravvivenza (politica) che ha Renzi davanti al vero bisogno strategico dell'Italia: quello di una sana democrazia”.

Va detto che Barber ha radicalmente cambiato idea sull’argomento, visto che solo nel luglio scorso che “la sconfitta” di Renzi “rischierebbe di gettare l’Italia in uno stato di prolungata instabilità politica ed economica”. Può darsi che, fra un articolo e l’altro, l’editorialista abbia avuto modo di leggere e capire la riforma costituzionale. Renzi deve sperare che a Moscovici non venga in mente di fare altrettanto.

di Antonio Rei

Una furbata a cui neanche Silvio Berlusconi sarebbe mai arrivato. La scheda per il referendum costituzionale presentata la settimana scorsa dal premier Matteo Renzi non è solo l’apoteosi della politica ridotta a marketing, ma anche un colpo bassissimo, una vera scorrettezza nei confronti di chi si batte perché vinca il NO e, comunque, per tutti gli elettori.

Il quesito che ci ritroveremo davanti fra un paio di mesi recita così: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”»?

È un chiaro tentativo di manipolare l’elettorato, un arrembaggio in extremis per far pendere dalla propria parte gli elettori più indecisi. Ed è tanto più odioso perché evidentemente mette nel mirino le persone più ingenue e inermi, quelle che hanno meno strumenti per rendersi conto di quando qualcuno cerca di raggirarle.

Quell’anima pia del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi - non a caso occultata nelle ultime settimane, da quando cioè a Palazzo Chigi si sono resi conto che la sua arroganza e il tono con cui ripete a memoria i ritornelli renziani danneggiano il fronte del Sì - non ha perso nemmeno stavolta l’occasione di tacere, ricordandoci che “il quesito referendario si limita a riprodurre il titolo della legge costituzionale”. Già, formalmente ha ragione… Ma che c’entra?

In tutta la storia referendaria repubblicana, nei quesiti appare il numero della legge e la data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale; i nomi delle leggi sono noiosi e burocratici e i quesiti referendari con cui si chiede al popolo di esprimersi su quelle leggi lo sono altrettanto. Un motivo c’è: la campagna elettorale deve terminare prima della votazione. Non è lecito influenzare gli elettori quando sono già entrati in cabina elettorale, ovvero quando i sostenitori della parte avversa non hanno più occasione di replicare, di smentire la tua propaganda.

Forse non tutti se lo ricordano, ma il 7 ottobre 2001 andammo a votare per decidere se confermare o meno la modifica del Titolo V della Costituzione e sulla scheda leggemmo questo: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche al titolo quinto della parte seconda della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 59 del 12 marzo 2001»?

Poco meno di cinque anni dopo, il 25 e il 26 giugno del 2006, fummo chiamati invece a esprimerci su un’altra riforma costituzionale, quella varata dal governo Berlusconi. In quel caso il quesito referendario recitava così: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche alla parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005»?

In entrambi i casi la domanda era semplice, concisa ed equilibrata. Chi non aveva la minima idea di cosa si stesse parlando non poteva trarre alcuna indicazione su come votare dal testo del quesito. Dieci anni fa, per fortuna, gli italiani s’informarono a sufficienza prima di andare a votare e bocciarono quella legge, salvando la Costituzione da Berlusconi. Oggi, purtroppo, di fronte al cesarismo turlupinatorio di Renzi, ci siamo ridotti a citare Berlusconi come un esempio di democrazia.

Già, perché non è democratico far ascoltare agli elettori una sola campana. Non è corretto parlare di “superamento” del bicameralismo paritario - suggerendo un’idea di miglioramento - senza spiegare in quale scempio si trasformerà il nuovo Senato. Non è giusto parlare di “riduzione del numero dei parlamentari” senza spiegare che il Senato sarà riempito di sindaci e consiglieri regionali che non saranno eletti a Palazzo Madama direttamente, ma attraverso una legge elettorale che ancora non esiste. Non è onesto parlare di “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, senza spiegare che si tratta degli spicci per la merenda, compresi tra lo 0,01 e un po’ più dello 0,03% del Pil.

Le schede devono essere asettiche. Anche perché, a voler formulare un quesito realmente didattico, si dovrebbe anche precisare che - combinando gli effetti di questa riforma all’attuale assetto dell’Italicum - il risultato è un rafforzamento allarmante del potere esecutivo a danno di quello legislativo. Stranamente, però, questo dettaglio è stato omesso. In effetti, forse dovremo ritenerci fortunati se sulla scheda troveremo ancora la casella del NO. 

di Fabrizio Casari

La sindaca di Roma, almeno sulle Olimpiadi, non ha incertezze e non compie retromarce. “Sarebbe irresponsabile dire sì alla candidatura di Roma” ha detto ieri in conferenza stampa. Difficile darle torto. Se infatti è chiaro l’interesse dei costruttori romani per gettare milioni di metri cubi di cemento per la costruzione di opere destinate all’appuntamento olimpico del 2024, sono altrettanto chiare le ragioni opposte.

Ovvero quelle di chi amministra una città decisamente in affanno per la gestione ordinaria di viabilità, rifiuti e manutenzione di strade e immobili, per non parlare della mancanza di fondi necessari alla riqualificazione delle periferie e ad un piano di edilizia popolare non più rinviabile e teme che un’ulteriore pressione porti al collasso.

La questione, dunque, non è dire Si o No alle Olimpiadi. Il fatto è che Roma non è in grado di mettere un carico di stress ulteriore quale quello che si determinerebbe con la città invasa da cantieri. Peraltro, i precedenti del 1960 (per i cui costi a distanza di 56 anni lo troviamo come una delle voci con cui si compone il debito comunale!), come pure per i mondiali di calcio del 1990, non incoraggiano alla disinvoltura nella candidatura.

Non si tratta, infatti, di scarso spirito olimpico o di controllo sulle fonti di corruttibilità che, nei costruttori romani, non trovano certo un ostacolo insormontabile. Se il problema fosse il rischio di corruzione, peraltro, non si potrebbe realizzare più alcuna opera in Italia. E non c'é dubbio che realizzare opere con un controllo rigido sui rischi di corruzione e sprechi avrebbe potuto qualificare la giunta a 5 stelle come la vera novità per Roma, ma l'impressione è che il M5S e la stessa giunta non si sentano ancora in grado di controllare e gestire un simile impegno. Si tratta comunque di un No ad opere fondate sul gigantismo edilizio, inevitabile per le dimensioni che richiede la celebrazione dell’evento olimpico, che però non sono in nessun modo fruibili dalla città il giorno dopo la chiusura dei giochi.

Non c’è una capitale, né in Europa né altrove, che possa dire di averci guadagnato dall’organizzazione di eventi sportivi a carattere internazionale. Né Pechino, né Londra, né Berlino o Parigi, tanto meno Rio de Janeiro, solo per citare gli ultimi, hanno avuto vantaggi importanti a fronte dei problemi innescatisi con la gestione degli impianti successiva alle competizioni per i quali erano stati costruiti.

E allora non è un caso che siano state molte le città che hanno rinunciato alla candidatura. Da Monaco di Baviera ad Amburgo, Da Boston a Budapest, la gara è stata quella a sfilarsi. Tutti ingenerosi verso lo sport? Tutti indifferenti allo spirito olimpico? E allora perchè Roma dovrebbe immolarsi?

In una città con problemi enormi e mancanza di fondi per la riqualificazione (e a volte persino per l’agibilità) di diverse strutture sportive, davvero risulterebbe paradossale concepire altre mega opere. D’altra parte è quanto successo con i padiglioni di Expò a Milano, dove il sindaco Sala non riesce ancora a trovare una destinazione d’uso che valorizzi la mega opera edile.

Se poi, come qualche commentatore ha insinuato, le Olimpiadi servono per aumentare il flusso turistico, Roma è certamente uno dei pochi posti al mondo a poter fare a meno di qualsivoglia evento: capitale dell’arte e della storia, oltre che della cristianità, non ha certo bisogno delle Olimpiadi per farsi visitare dai turisti di tutto il mondo.

Ovviamente ora la decisione della sindaca dovrà essere ratificata da un voto del Consiglio comunale, che dovrà votare un provvedimento che annulli la precedente delibera della giunta Marino che aveva dato parere favorevole alla candidatura di Roma per le Olimpiadi. Sono abbastanza fuori luogo le minacce di richiesta di rimborso da parte del CONI nei confronti di Roma; si tratta di pura fantasìa, sono fendenti a vuoto.

Sarebbe piuttosto opportuno che le pressioni che la lobby del mattone esercita sulla città con minacce, promesse, finti sondaggi ed autentico livore, trovasse un suo contenimento. Anche chi non vedrebbe nulla di sbagliato nell’ospitare le Olimpiadi, infatti, comincia a interpretare in maniera maliziosa tanta agitazione e i suoi riflessi condizionati che si possono notare, ad esempio, anche nelle difficoltà a reperire competenze disponibili per la giunta capitolina.

I cittadini romani sono alle prese con questioni decisamente più gravi relativi al funzionamento della Capitale. Chiedono interventi rapidi che tirino fuori la città dal collasso. E magari pensano che le olimpiadi, per godersele, non c’è bisogno per forza di ospitarle.



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