di Antonio Rei

Quest’anno la Commissione europea non può fare storie: deve concedere al governo italiano tutta la flessibilità richiesta. E non per considerazioni economiche - i conti del nostro Paese non sono migliorati rispetto agli anni passati, anzi - ma semplicemente perché si tratta di una mossa politica obbligata in vista del referendum costituzionale.

È stato lo stesso Pierre Moscovici, Commissario agli Affari Economici e Finanziari della UE, a scoprire le carte. L’esecutivo comunitario - ha detto la settimana scorsa - è pronto a “considerare” le richieste italiane di flessibilità legata alle “spese per i rifugiati” e per il “terremoto”. Certo, non è ancora un via libera ufficiale. Per quello bisognerà aspettare ancora circa un mese, considerando che il governo deve trasmettere a Bruxelles entro il 15 ottobre il Documento programmatico di bilancio, per poi approvare la legge di Stabilità entro il 20 ottobre. Eppure, l’approvazione sembra scontata.

Il perché lo ha spiegato ancora Moscovici, affermando candidamente che in Italia ''c'è una minaccia populista”. Di conseguenza, “sosteniamo gli sforzi di Renzi affinché sia un partner forte all'interno dell'Ue”, ha aggiunto il commissario, il quale si è detto poi fiducioso sul fatto che “l’Italia se la caverà come sempre e risolverà i problemi con il nostro aiuto”.

A voler tradurre le parole dell’ex ministro francese, è evidente che scegliendo l’indulgenza finanziaria la Commissioni si schieri apertamente in favore del SÌ al prossimo referendum del 4 dicembre. La sua prima preoccupazione è tenere in piedi Matteo Renzi, che non è affatto ben visto dalle parti di Bruxelles, ma viene giudicato comunque il male minore considerando le alternative che popolano il panorama politico italiano.

Se infatti al referendum vincesse il NO, forse Renzi riuscirebbe comunque a rimanere in sella per qualche tempo, ma sarebbe politicamente finito e la sua agonia spianerebbe la strada al Movimento 5 Stelle. Ovvero a quella “minaccia populista” che tanto spaventa le cancellerie europee.

Ora, l’ingerenza della Commissione europea nella politica interna di un Paese membro è scandalosa, ma di per sé non rappresenta una novità. Piuttosto, le sorprese arrivano da altri due fronti. Innanzitutto, è sconcertante che Bruxelles non impari mai dalle esperienze passate, visto che il referendum greco sugli accordi con la troika e quello britannico sull’uscita dall’Ue hanno ampiamente dimostrato quanto il silenzio sia il migliore alleato dell’Europa unita.

Ogni volta che ha aperto bocca sulle consultazioni negli Stati membri, la Commissione non ha fatto altro che alimentare la brace dell’antieuropeismo che arde in ogni Paese, e anche stavolta c’è da scommettere che le parole di Moscovici si riveleranno un boomerang per il SÌ. I soldi dell’Europa servono, ma l’appoggio esplicito di Bruxelles è un bacio della morte per il nostro Premier, che non a caso negli ultimi tempi non manca occasione per scagliarsi con sempre maggior vigore contro la politica economica comunitaria.

In secondo luogo, sorprende la radicale divergenza d’opinioni fra l’Ue e la City di Londra, che a quanto pare non è così in ansia per la sorte di Renzi e prende posizione con vigore a sostegno del NO. La settimana scorsa Tony Barber ha scritto sul Financial Times che la riforma costituzionale è “un ponte verso il nulla” e che farà “ben poco per migliorare la qualità del governo, della legislazione e della politica”.

E ancora, con perfetta sintesi: “Nelle capitali europee, il sentimento comune è di sostenere Renzi. Un'Italia senza timone, vulnerabile a una crisi bancaria e al movimento anti-establishment dei Cinque Stelle, causerebbe seri problemi. Eppure, una sconfitta di Renzi al referendum non per forza destabilizzerà l'Italia. Una vittoria, invece, potrebbe far emergere la follia di mettere gli obiettivi di sopravvivenza (politica) che ha Renzi davanti al vero bisogno strategico dell'Italia: quello di una sana democrazia”.

Va detto che Barber ha radicalmente cambiato idea sull’argomento, visto che solo nel luglio scorso che “la sconfitta” di Renzi “rischierebbe di gettare l’Italia in uno stato di prolungata instabilità politica ed economica”. Può darsi che, fra un articolo e l’altro, l’editorialista abbia avuto modo di leggere e capire la riforma costituzionale. Renzi deve sperare che a Moscovici non venga in mente di fare altrettanto.

di Antonio Rei

Una furbata a cui neanche Silvio Berlusconi sarebbe mai arrivato. La scheda per il referendum costituzionale presentata la settimana scorsa dal premier Matteo Renzi non è solo l’apoteosi della politica ridotta a marketing, ma anche un colpo bassissimo, una vera scorrettezza nei confronti di chi si batte perché vinca il NO e, comunque, per tutti gli elettori.

Il quesito che ci ritroveremo davanti fra un paio di mesi recita così: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”»?

È un chiaro tentativo di manipolare l’elettorato, un arrembaggio in extremis per far pendere dalla propria parte gli elettori più indecisi. Ed è tanto più odioso perché evidentemente mette nel mirino le persone più ingenue e inermi, quelle che hanno meno strumenti per rendersi conto di quando qualcuno cerca di raggirarle.

Quell’anima pia del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi - non a caso occultata nelle ultime settimane, da quando cioè a Palazzo Chigi si sono resi conto che la sua arroganza e il tono con cui ripete a memoria i ritornelli renziani danneggiano il fronte del Sì - non ha perso nemmeno stavolta l’occasione di tacere, ricordandoci che “il quesito referendario si limita a riprodurre il titolo della legge costituzionale”. Già, formalmente ha ragione… Ma che c’entra?

In tutta la storia referendaria repubblicana, nei quesiti appare il numero della legge e la data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale; i nomi delle leggi sono noiosi e burocratici e i quesiti referendari con cui si chiede al popolo di esprimersi su quelle leggi lo sono altrettanto. Un motivo c’è: la campagna elettorale deve terminare prima della votazione. Non è lecito influenzare gli elettori quando sono già entrati in cabina elettorale, ovvero quando i sostenitori della parte avversa non hanno più occasione di replicare, di smentire la tua propaganda.

Forse non tutti se lo ricordano, ma il 7 ottobre 2001 andammo a votare per decidere se confermare o meno la modifica del Titolo V della Costituzione e sulla scheda leggemmo questo: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche al titolo quinto della parte seconda della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 59 del 12 marzo 2001»?

Poco meno di cinque anni dopo, il 25 e il 26 giugno del 2006, fummo chiamati invece a esprimerci su un’altra riforma costituzionale, quella varata dal governo Berlusconi. In quel caso il quesito referendario recitava così: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche alla parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005»?

In entrambi i casi la domanda era semplice, concisa ed equilibrata. Chi non aveva la minima idea di cosa si stesse parlando non poteva trarre alcuna indicazione su come votare dal testo del quesito. Dieci anni fa, per fortuna, gli italiani s’informarono a sufficienza prima di andare a votare e bocciarono quella legge, salvando la Costituzione da Berlusconi. Oggi, purtroppo, di fronte al cesarismo turlupinatorio di Renzi, ci siamo ridotti a citare Berlusconi come un esempio di democrazia.

Già, perché non è democratico far ascoltare agli elettori una sola campana. Non è corretto parlare di “superamento” del bicameralismo paritario - suggerendo un’idea di miglioramento - senza spiegare in quale scempio si trasformerà il nuovo Senato. Non è giusto parlare di “riduzione del numero dei parlamentari” senza spiegare che il Senato sarà riempito di sindaci e consiglieri regionali che non saranno eletti a Palazzo Madama direttamente, ma attraverso una legge elettorale che ancora non esiste. Non è onesto parlare di “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, senza spiegare che si tratta degli spicci per la merenda, compresi tra lo 0,01 e un po’ più dello 0,03% del Pil.

Le schede devono essere asettiche. Anche perché, a voler formulare un quesito realmente didattico, si dovrebbe anche precisare che - combinando gli effetti di questa riforma all’attuale assetto dell’Italicum - il risultato è un rafforzamento allarmante del potere esecutivo a danno di quello legislativo. Stranamente, però, questo dettaglio è stato omesso. In effetti, forse dovremo ritenerci fortunati se sulla scheda troveremo ancora la casella del NO. 

di Fabrizio Casari

La sindaca di Roma, almeno sulle Olimpiadi, non ha incertezze e non compie retromarce. “Sarebbe irresponsabile dire sì alla candidatura di Roma” ha detto ieri in conferenza stampa. Difficile darle torto. Se infatti è chiaro l’interesse dei costruttori romani per gettare milioni di metri cubi di cemento per la costruzione di opere destinate all’appuntamento olimpico del 2024, sono altrettanto chiare le ragioni opposte.

Ovvero quelle di chi amministra una città decisamente in affanno per la gestione ordinaria di viabilità, rifiuti e manutenzione di strade e immobili, per non parlare della mancanza di fondi necessari alla riqualificazione delle periferie e ad un piano di edilizia popolare non più rinviabile e teme che un’ulteriore pressione porti al collasso.

La questione, dunque, non è dire Si o No alle Olimpiadi. Il fatto è che Roma non è in grado di mettere un carico di stress ulteriore quale quello che si determinerebbe con la città invasa da cantieri. Peraltro, i precedenti del 1960 (per i cui costi a distanza di 56 anni lo troviamo come una delle voci con cui si compone il debito comunale!), come pure per i mondiali di calcio del 1990, non incoraggiano alla disinvoltura nella candidatura.

Non si tratta, infatti, di scarso spirito olimpico o di controllo sulle fonti di corruttibilità che, nei costruttori romani, non trovano certo un ostacolo insormontabile. Se il problema fosse il rischio di corruzione, peraltro, non si potrebbe realizzare più alcuna opera in Italia. E non c'é dubbio che realizzare opere con un controllo rigido sui rischi di corruzione e sprechi avrebbe potuto qualificare la giunta a 5 stelle come la vera novità per Roma, ma l'impressione è che il M5S e la stessa giunta non si sentano ancora in grado di controllare e gestire un simile impegno. Si tratta comunque di un No ad opere fondate sul gigantismo edilizio, inevitabile per le dimensioni che richiede la celebrazione dell’evento olimpico, che però non sono in nessun modo fruibili dalla città il giorno dopo la chiusura dei giochi.

Non c’è una capitale, né in Europa né altrove, che possa dire di averci guadagnato dall’organizzazione di eventi sportivi a carattere internazionale. Né Pechino, né Londra, né Berlino o Parigi, tanto meno Rio de Janeiro, solo per citare gli ultimi, hanno avuto vantaggi importanti a fronte dei problemi innescatisi con la gestione degli impianti successiva alle competizioni per i quali erano stati costruiti.

E allora non è un caso che siano state molte le città che hanno rinunciato alla candidatura. Da Monaco di Baviera ad Amburgo, Da Boston a Budapest, la gara è stata quella a sfilarsi. Tutti ingenerosi verso lo sport? Tutti indifferenti allo spirito olimpico? E allora perchè Roma dovrebbe immolarsi?

In una città con problemi enormi e mancanza di fondi per la riqualificazione (e a volte persino per l’agibilità) di diverse strutture sportive, davvero risulterebbe paradossale concepire altre mega opere. D’altra parte è quanto successo con i padiglioni di Expò a Milano, dove il sindaco Sala non riesce ancora a trovare una destinazione d’uso che valorizzi la mega opera edile.

Se poi, come qualche commentatore ha insinuato, le Olimpiadi servono per aumentare il flusso turistico, Roma è certamente uno dei pochi posti al mondo a poter fare a meno di qualsivoglia evento: capitale dell’arte e della storia, oltre che della cristianità, non ha certo bisogno delle Olimpiadi per farsi visitare dai turisti di tutto il mondo.

Ovviamente ora la decisione della sindaca dovrà essere ratificata da un voto del Consiglio comunale, che dovrà votare un provvedimento che annulli la precedente delibera della giunta Marino che aveva dato parere favorevole alla candidatura di Roma per le Olimpiadi. Sono abbastanza fuori luogo le minacce di richiesta di rimborso da parte del CONI nei confronti di Roma; si tratta di pura fantasìa, sono fendenti a vuoto.

Sarebbe piuttosto opportuno che le pressioni che la lobby del mattone esercita sulla città con minacce, promesse, finti sondaggi ed autentico livore, trovasse un suo contenimento. Anche chi non vedrebbe nulla di sbagliato nell’ospitare le Olimpiadi, infatti, comincia a interpretare in maniera maliziosa tanta agitazione e i suoi riflessi condizionati che si possono notare, ad esempio, anche nelle difficoltà a reperire competenze disponibili per la giunta capitolina.

I cittadini romani sono alle prese con questioni decisamente più gravi relativi al funzionamento della Capitale. Chiedono interventi rapidi che tirino fuori la città dal collasso. E magari pensano che le olimpiadi, per godersele, non c’è bisogno per forza di ospitarle.


di Fabrizio Casari

La proposta del governo Renzi per l’anticipo della pensione ai nati tra il 1951 e il 1953, più che una soluzione rappresenta un insulto alle condizioni e all’intelligenza dei pensionati. Regali a banche ed assicurazioni da un lato e prelievo ai pensionati dall’altro, la storiella della nonna che si gode i nipotini, pietra miliare della narrazione renziana della prima ora, rischia di diventare la storia dei nipotini che chiedono l’elemosina per i nonni.

Un’intera generazione si trova esodata o rischia di divenirlo: da un lato perché ritenuta troppo anziana per convenire alle aziende, che preferiscono i salari d’inserimento e le mille forme truffaldine che consentono di pagare salari da terzo mondo ai giovani, piuttosto che sostenere stipendi con seniority importanti. Dall’altra quella stessa generazione è ritenuta troppo giovane per accedere alla pensione anticipatamente e si sceglie quindi di lasciarli in mezzo al guado senza nemmeno una scialuppa.

Non si tratta di risorse disponibili. Ci sono scelte di politica finanziaria e di business che intervengono, più che valutazioni sulla sostenibilità del sistema. In effetti, proprio l’incertezza sul quando e quanto della pensione contribuisce a spingere l’accesso dei pensionandi alla previdenza privata complementare, che si alimenta dell’incertezza e/o dell’insufficienza di quella pubblica. La pensione si allontana, quindi, anche perché se si avvicinasse il business si ridurrebbe.

L’ultima trovata del governo Renzi s’inquadra esattamente in questo contesto. Si offre l’anticipo di tre anni a chi può andare in pensione a fronte di una decurtazione pesante del già scarso assegno ma solo tramite un prestito ventennale con le banche. Non sono possibili percorsi diversi.

E qui si pone la pietra miliare del provvedimento: le banche, che hanno ottenuto dalla BCE la liquidità che va obbligatoriamente immessa nel mercato dei prestiti, troverebbero in questa manovra un modo di erogare denaro, sicure del suo rientro. Si dirà: come fanno ad esserne sicure, visto che la salute non è detto consenta a tutti di arrivare agli 85 anni ed oltre? Non a caso per i mutui ci sono solo porte chiuse e il raggiungimento massimo di 75 anni di età è considerata questione raramente superabile; come mai allora in questo caso si può arrivare agli 85 anni? Presto detto: nel caso di morte prematura o d’inadempienza intervengono le assicurazioni a garanzia! Ovvero l’altra gamba del tavolo degli istituti di credito.

La domanda è d’obbligo: ma perché non viene data la possibilità, a chi può, di anticipare i tre anni di contributi rimanenti in un’unica soluzione e, con il conseguente ricalcolo dei coefficienti, offrirgli la pensionabilità immediata? In fondo chi può pagarsi i tre anni di contribuzione volontaria non avrebbe motivo di ricorrere al prestito oneroso. No, non è possibile: il prestito è obbligatorio per l’operazione. Invece il pagamento diretto dovrebbe essere almeno considerato. Il sospetto che l’operazione sia destinata a rimpinguare le casse di banche e di assicurazioni non può essere rimosso senza dare questa possibilità.

Sono infatti banche ed assicurazioni i due soggetti che guadagnano con l’operazione. La prima erogando prestiti con interessi con il denaro ricevuto dalla BCE, le seconde assicurando lautamente il rischio d’insolvenza causa decessi prematuri. Ma i pensionati non avrebbero nulla da guadagnare nell’operazione, visto che pagherebbero per venti anni l’anticipazione di tre! E per di più pagherebbero con interessi pesanti l’anticipazione del loro denaro.

Dai calcoli dello stesso governo, la decurtazione doppia, ovvero la riduzione dell’assegno e il pagamento degli interessi, renderebbe l’anticipazione del pensionamento un salasso economico che ricadrebbe interamente sul loro reddito per venti, lunghissimi anni. Per fare un esempio, un assegno pensionistico previsto intorno ai 1500 euro al mese, diverrebbe di circa 1200. Il 30% in meno, quando in Francia e in altri paesi europei siamo intorno al 2-4% in meno all’anno.

La fascia media verrebbe privata complessivamente di una percentuale importante dell’assegno e si deve poi considerare che - dato mai sottolineato - ammesso che lo si scelga, contrarre un prestito ventennale su una pensione media, semplicemente impedirebbe di fatto ogni altra esposizione.

Quale? Per esempio un mutuo per acquistare una casa per sé o per i propri figli, come si usava quando l’Italia era un paese normale nel quale l’ascensore sociale esisteva. Questo si concretizzava anche nei sacrifici dei padri a vantaggio dei figli e l’entrata in pensione dei genitori costituiva uno snodo importante, data la certezza dell’entrata e l’arrivo del TFR maturato in una vita di lavoro.

L’incertezza congenita sui trattamenti pensionistici non può proseguire. Sarebbe ora di stabilire un principio: se si vuole rimanere al lavoro fino ai 70 anni, si è liberi di farlo, ma si può andare in pensione dopo almeno 35 anni di contributi versati, che quasi mai peraltro corrispondono agli anni lavorati (questi, di solito, sono molti di più). Ci si dovrebbe andare con i contributi maturati, eventualmente decurtati, o anche bloccandoli fino alla soglia della pensione minima prevista del ricalcolo attivo; ma va garantito che, a versamenti contributivi effettuati, corrisponda l’assegno previdenziale.

Solo il rapporto tra questi due elementi può essere considerato legittimo, espressione del patto che intercorre tra Stato e cittadino, con quest’ultimo che versa i suoi contributi previdenziali per riaverli al momento della pensione. Per 35 anni finanzia le casse dello Stato che li restituisce (in parte) spalmandoli su una media di venti anni. Il continuo allontanarsi dell’età pensionabile pone invece uno sbilanciamento grave tra gli anni di contributi e quelli della pensione e si configura come un vero e proprio scippo dello Stato ai danni dei cittadini. Che se avessero la possibilità di scegliere, ormai si guarderebbero bene dal versare contributi che mai più riceveranno.

E’ vero che la tenuta dei conti è problema serio, ma le proposte avanzate per favorire l’accesso anticipato (prima fra tutte quella dell’ex ministro del Lavoro Damiano) sono ragionevoli, compatibili e risolutive per portare in pochi anni a regime il meccanismo e garantire così il necessario equilibrio finanziario.

Riportare le norme alla corretta dinamica tra contributi versati e pensione percepita, oltre che restituire ai cittadini la certezza del diritto, consentirebbe una ripresa rapida dei consumi interni, volano strategico dell’economia e motore indiscutibile per la ripresa, condizione decisiva per la crescita del PIL e la conseguente riduzione del deficit. Ma servirebbe un governo nel vero senso della parola.

Questo assemblaggio di parvenu non lo è. Incapace di costruire una politica economica, inabile a determinare una ristrutturazione logica del sistema di welfare, il governo Renzi continua a fare solo propaganda, unica cosa alla quale si dedica ininterrottamente.

Così tenta di spacciare l’APE come un’iniziativa a favore dei pensionati, nascondendo come essi sono solo lo strumento per una ulteriore operazione speculativa del comparto creditizio e assicurativo, in nome e per conto del quale questo governo lavora senza sosta e con ogni fantasia. Dov’è la novità?



di Antonio Rei

Si sono accorti che possono perdere. Anzi, si sono accorti che, se non agiscono subito, probabilmente perderanno. E il pericolo non riguarda solo le prossime elezioni politiche, ma anche e soprattutto il referendum sulla riforma costituzionale. Per questa ragione Giorgio Napolitano e Matteo Renzi si sono abbandonati alle più sfrenate piroette sull’Italicum.

In un’intervista al direttore de La Repubblica, l’ex Capo dello Stato ha ammesso che diversi aspetti della legge elettorale “meritano di essere riconsiderati”, e ha addirittura invitato il Premier a effettuare “una ricognizione tra le forze parlamentari per capire quale possa essere il terreno d’incontro per apportare modifiche” al testo.

Parole cadute come manna dal cielo per Renzi, che da Bari si è sperticato nella più amichevole delle aperture: “La legge elettorale non piace? Che problema c’è - ha detto a margine dell’inaugurazione della fiera del Levante - discutiamone, ma facciamone una migliore”. Il Presidente del Consiglio ha addirittura precisato che l’Italicum si potrà modificare a prescindere dal verdetto della Corte Costituzionale: “Se serve, una riforma elettorale si può cambiare in tre, cinque mesi. Una legge costituzionale no”.

La fortuna di Napolitano e Renzi è che l’opinione pubblica, per sua natura, ha la memoria corta. Basta ricordare cosa dicevano i due fino a qualche tempo fa per farsi venire dei sospetti su questa improvvisa disponibilità al dialogo. Quando l’Italicum divenne legge, ad esempio, Napolitano sentenziò che si trattava di “un raggiungimento importante” e che “era inevitabile approvare” la legge così com’era, perché era stata prodotta “non in un mese, ma in oltre un anno”.

Renzi, invece, nei mesi scorsi ha ripetuto fino alla noia che l’Italicum era ormai immodificabile, se non altro perché in Parlamento non c’era una maggioranza in grado di votare un testo alternativo. Del resto, il suo governo era stato costretto a porre la fiducia sulla legge elettorale per farla passare, caso unico nella storia repubblicana e - secondo alcuni giuristi - addirittura illegittimo sotto il profilo costituzionale.

Ma come si spiega questa inversione di rotta così radicale da parte del Presidente emerito e del Premier? Nella stessa intervista a Calabresi, Napolitano spiega che con l’Italicum “si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti”. Un difetto che secondo l’ex Capo dello Stato è venuto alla luce solo di recente, perché “rispetto a due anni fa lo scenario politico è mutato: nuovi partiti in forte ascesa hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti” e si rischia “che vada al ballottaggio chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare”.

Ora, è indubbio che l’Italicum sia una legge assurda perché impone il bipolarismo in un sistema tripolare, distorcendo oltre ogni ragionevolezza il principio di rappresentanza con il ballottaggio e l’oceanico premio di maggioranza. Il punto è che questo scempio è sempre stato più che evidente: l’ex Presidente della Repubblica suggerisce che il nostro sistema politico sia diventato tripolare negli ultimi 24 mesi, ma non è così. Il Movimento 5 Stelle era più forte del centrodestra ancor prima che Napolitano finisse il suo novennato al Quirinale.

E comunque appare grave che Napolitano evidenzi come la riforma sia stata concepita per far vincere qualcuno e far perdere qualcun’altro. Infatti, bisognerebbe dire che l’Italicum è stato concepito quando Renzi - forte di un 40% incassato alle europee - si era convinto che qualsiasi consultazione non potesse concludersi che con un plebiscito in suo favore (peraltro, lo stesso delirio di onnipotenza lo ha portato a trasformare il referendum in un voto su stesso, un errore che ora cerca affannosamente di correggere).

Adesso, sondaggi alla mano, la situazione è davvero cambiata e Napolitano ha ragione ad avere paura: le elezioni amministrative hanno dimostrato che il ballottaggio favorisce i grillini (vedi Torino, dove Appendino ha trionfato malgrado il forte svantaggio rispetto a Fassino).

Eppure, la preoccupazione principale di Renzi e dei renziani non è nemmeno questa. Alle elezioni devono arrivarci, e per riuscirci devono superare lo scoglio del referendum, che con il passare del tempo sembra sempre più ostico.

In questa ottica, l’Italicum può essere usato come moneta di scambio per ottenere il sì dei bersaniani (che peraltro la riforma costituzionale l’hanno già approvata in Aula) e disinnescare le armi in mano a Massimo D’Alema, che con i suoi comitati per il No si sta preparando per far saltare gli equilibri nel partito.

Non a caso, Napolitano ha detto che per correggere la legge elettorale “c’è in questo momento una sola iniziativa sul tappeto: è di esponenti di minoranza del Pd, tra i quali Speranza”. Che sorpresa, eh?


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