di Fabrizio Casari

Con l’ormai più che probabile incarico a Gentiloni, si chiude la prima parte delle consultazioni del Quirinale alla ricerca di una soluzione politica alla crisi di governo. La richiesta di reincarico formulata da Renzi sembrerebbe essere stata bloccata da Mattarella e da buona parte del suo stesso partito, che tra regionali, municipali e referendum è stanco di perdere sotto l’effige del giglio magico. Resta ancora in pista Padoan: con la vicenda MPS che incombe, potrebbe rappresentare maggiori garanzie per i mercati e la stessa BCE. Ma tutto è in movimento, anche se la richiesta di Renzi di elezioni a breve, parrebbe essere stata respinta.

Fatto salvo al momento l’assoluto rispetto delle procedure istituzionali, c’è spazio anche per il paradosso nel centro dello scenario. Paradossale, infatti, è che tra Mattarella, Gentiloni, Renzi e Franceschini, emerge l’assoluta centralità di personaggi provenienti dalla Democrazia Cristiana, che si voleva uccisa tramite fax dall’allora segretario Benigno Zaccagnini.

Paradossali - ma gravi - sono le state invece le consultazioni parallele di Palazzo Chigi, dove Renzi ha ricevuto (dandone notizia) tutti i possibili incaricati del suo partito. Non li ha ricevuti a casa sua o al partito, cosa che si giustificherebbe con il ruolo di segretario del PD, ma nella sede del Governo, a voler ribadire che è lui a tenere il pallino della crisi in mano, che è lui e non l’arbitro formale della crisi - Mattarella - a decidere chi formerà il nuovo Esecutivo.

Si compie così un pesante  sgarbo istituzionale e politico verso il Quirinale, si conferma l’incomprensione totale del tamarro toscano delle prassi istituzionali e, nello stesso tempo, la sua ansia incontenibile per il suo personale destino.

Non c’è infatti il ritiro di Renzi dalla politica come ripetutamente annunciato. In linea con il suo operato al governo, annuncia ciò che non fa e fa quello che non aveva annunciato. L’arroganza e la superbia che lo caratterizzano in ogni sua espressione, fisica e verbale, gli impediscono di leggere ciò che è avvenuto il 4 Dicembre 2016. Non c’è stata ammissione di errore, bensì la colpevolizzazione di un PD che è apparsa fuori luogo. Invece di dire “dove ho sbagliato” e prendere atto di una stagione che si è conclusa per sempre, ha incolpato una parte del PD del risultato.

Ma quel PD correntizio, ormai riflesso di minor valore di ciò che fu la DC, pur non condividendo in buona parte il contenuto della riforma ha fatto il possibile per vincere. Non c’è riuscito perché il PD non è maggioranza nel Paese, perché la riforma faceva schifo e soprattutto perché il suo promotore è uno dei personaggi più detestati dagli italiani.

Obnubilato dal suo ego, Renzi non capisce che non si tratta di un complotto di Palazzo, ma di un rifiuto generalizzato degli italiani nei suoi confronti, conseguenza di una linea politica e di uno stile personale di governo che se ha trovato nella grande impresa e nelle banche il suo referente, ha però offeso e colpito praticamente tutte le categorie sociali della nazione. Lo stesso assalto alle nomine, lo sfacciato perseguimento del Renzi Power, insieme all’aggressione verbale, all’insulto e ai ricatti, distribuiti a mani basse, hanno prodotto una vera e propria crisi di rigetto del Paese verso il tamarro toscano.

Lotti ha spiegato agli aficionados che "si è cominciato dal 40 alle primarie e si riparte dal 40% dei voti al referendum". Peccato che non sia il gioco dell’oca, nel quale probabilmente Lotti eccelle, mentre non si registra pari competenza nella scienza delle dottrine politiche. L’idea che il 40% sia di Renzi è ridicola. Come ha spiegato l’istituto Cattaneo, il Sì ha raccolto molti consensi nell’area di centrodestra che mai voterebbe il PD alle elezioni. Dalle dinamiche innescatesi nel referendum si ricava invece che il 60% degli italiani è contro Renzi e il dimostrarsi attaccato alla poltrona nell’estremo e penoso tentativo di salvare lui e la sua cricca toscana, accentua ulteriormente le distanze con l’Italia.

Renzi e Lotti hanno una sola preoccupazione: non uscire di scena, non buttare alle ortiche il lavoro di occupazione del potere perseguito con ogni lena ed eccessiva sfacciataggine in mille giorni. Amici piazzati su indicazione dei poteri forti e marci che li hanno insediati è stato il vero core business del governo del giglio magico, con annesse le storielle inconfessabili. La rottamazione è stata solo sostituzione di un apparato di potere con un altro.

E’ chiaro dunque che qualora il prossimo governo dovesse decidere di iniziare l’opera di smantellamento, a cominciare dalla Rai e passando per i consigli d’amministrazione di enti e società controllate di diversa grandezza, finendo con estraniarli dalle nomine prossime ai vertici di Carabinieri e Guardia di Finanza, il mesto ritorno a Pontassieve della cricca del giglio magico sarebbe inevitabile.

Come coloro che ballarono una sola estate, la destinazione indicata dal Gps sarebbe Via dell’Oblio. Ad evitare questo scenario, Gentiloni - avatar di Renzi come lo definiscono i 5 stelle - gli appare come la soluzione meno pericolosa. Ma, pur consapevole dello spessore davvero relativo dell’attuale ministro degli Esteri, del suo essere tutt’altro che un leone indomito, l’idea che possa essere etero-guidato dal Nazareno appare non priva d’incognite.

C’è comunque la necessità di aprire una fase che, di tre, cinque o di otto mesi, è comunque una fase politica con le elezioni sullo sfondo. Ovunque si chiede il voto, cosa che sarebbe doverosa dal momento che ci si avvia al quarto governo mai scelto dai cittadini. E’ vero che l’ordinamento costituzionale prevede che i governi si formano in Parlamento, ma c’è anche un elemento di opportunità politica che non può non essere considerato.

Perché il voto referendario ha espresso con forza l’intenzione degli italiani di riprendersi la parola e questa non è una indicazione che può essere sottostimata in ragione di prassi istituzionali che, seppure ineccepibili, non risultano politicamente adeguate al contesto politico.

Ma va anche detto che le richieste di voto rapido sono in buona parte “ammuina”, dal momento che i centristi non sono nulla, la sinistra deve essere ricostruita, la destra è frammentata e il PD è frantumato. Solo il M5S ha fretta di capitalizzare l’esito referendario cavalcando l’onda lunga che dalle municipali di Giugno lo vede in vantaggio sugli altri partiti.

Il PD non ha nessuna intenzione di suicidarsi definitivamente, cosa che avverrebbe se si votasse entro 3 mesi e se restasse Renzi alla sua guida. Ma il Congresso della resa dei conti - inevitabile - per quanto si possa accelerare ha bisogno di almeno tre mesi per essere realizzato. A meno che Renzi non scelga di fondare il suo partito personale o che Bersani non decida che si può abbandonare la "ditta", il percorso non sarà brevissimo.

La destra da parte sua non ha ancora risolto il problema dell’unità e della leadership: Berlusconi (ancora sotto provvedimento giudiziario che lo rende incandidabile) ha inteso riprendersi la guida, ma sa che dovrà di nuovo ricostruire una identità politica precisa e avviare un percorso unitario che, ad oggi, appare difficile.

La Lega, da parte sua, sa bene che pur avendo travalicato i confini padani, quando si spalma sul territorio nazionale il suo consenso corre il rischio di non superare la soglia di sbarramento e l’alleanza con Fratelli d’Italia non ne garantisce il suo agile superamento, visto che quelle della Meloni sono si truppe fedeli ma non certo numerose.

E poi al voto, ma con quale legge elettorale? Tutti affermano di voler attendere il 24 Gennaio il pronunciamento della Corte costituzionale in merito ai ricorsi sull’Italicum ma è altra “ammuina”.

Se si vuole votare con l’Italicum rivisto e corretto dalla Consulta non sarà sufficiente una operazione di sottrazione degli articoli contestati. Cambiare anche solo un aspetto di una legge elettorale comporta spesso cambiarne la logica della stessa. Bisognerà quindi riscrivere una legge elettorale nuova, perché quanto sentenziato sull’Italicum (e prima ancora sul Porcellum) dovrà essere amalgamato e ricomposto in una nuova legge elettorale.

Si potrebbe scriverne una simile? Difficile perché al momento, in assenza di coalizioni certe, non ci sono partiti che possano giovarsi del secondo turno come lo prevedeva lo scellerato Italicum. Grillo, che infatti è quello che vuole le elezioni subito, interpreta il lento abbandono dell’Italicum come un complotto ai suoi danni. Sa bene che solo con l’Italicum, per quanto rivisto dalla Corte, potrebbe vincere, ma solo con quello. Perché il rifiuto di M5S di coalizzarsi con altre forze, in un sistema elettorale che non prevedesse un premio di maggioranza al primo partito, bensì alla coalizione, non gli offrirebbe grandi possibilità di vittoria. Senza qualcosa di simile all’Italicum, insomma, rischierebbe di diventare quel che già è: la più grande forza dell’opposizione.

Comunque se si vorrà ridisegnare una nuova legge elettorale si andrà avanti per lo meno fino ad Aprile e, considerando i 54 giorni di legge per la campagna elettorale, si voterebbe a Giugno. Si è disposti ad attendere tanto? Perché se si volesse davvero votare subito, l’unica strada sarebbe scrivere un solo rigo che cancellasse la legge elettorale vigente. In automatico tornerebbe in vigore il Mattarellum e si potrebbe votare rapidamente.

L’aria che tira è quella di una generale riconsiderazione del valore del sistema proporzionale. Non per afflato istituzionale, intendiamoci, ma per convenienze incrociate e per aver verificato come la sbornia del maggioritario ha prodotto vulnus ripetuti tanto alla sovranità popolare che alla stessa governabilità. E allora, se si decidesse di riprendere il cammino interrotto dal referendum Segni, l’unica soluzione valida per tutti è una legge elettorale proporzionale con  una soglia di sbarramento al 4 per cento (modello tedesco).

Il sistema di voto proporzionale garantirebbe la rappresentatività di tutte le sensibilità politiche. Queste però, vista la necessità di superare lo sbarramento, si vedrebbero costrette alla ricerca di una dimensione di coalizione, favorendo così la governabilità e riducendo la frammentazione. Non a caso con la proporzionale in vigore i partiti erano 9 e con il maggioritario (che doveva limitarli !) sono diventati 19. Dunque sarebbe bene tornare sui propri passi. Non è mai troppo tardi per riprendere a pensare.


di Fabrizio Casari

Questo Paese ama la sua Costituzione. La rispetta e la difende contro qualsiasi manipolazione, non importa da dove venga. Considera la sua Carta dei principi, il tessuto connettivo della nostra società e non consente avventure politiche alle sue spalle. Soprattutto quando a produrle sono un ex Presidente della Repubblica come Napolitano, che ha imposto a Renzi il terreno dello scontro costituzionale. Non si può tacere del ruolo fondamentale avuto dall’ex-presidente della Repubblica in questa vicenda.

Silente nella soluzione dei problemi politici e sociali dell’Italia, Napolitano ha caratterizzato la sua presidenza con l’ossequio costante verso i poteri forti internazionali; lo ha fatto anche ampliando a dismisura i poteri d’intervento del Presidente della Repubblica previsti dalla Costituzione, arrivando ad intestarsi la direzione politica de facto dell'Italia.

Quale che fosse il Presidente del Consiglio, Napolitano lo ha soverchiato assumendo su di sé le scelte fondamentali del Paese, tra le quali il pareggio di bilancio in Costituzione e la controriforma Boschi ieri rifiutata dagli italiani.

Ma il voto di ieri non è solo la dimostrazione della fedeltà alla nostra Carta, pure ribadito con simile forza. Contiene un giudizio netto e senza appello anche sul governo, sulla sua proposta politica, persino sullo stile di governo di un premier intriso di bullismo. Che ha voluto trasformare la campagna elettorale in un plebiscito su di sé, conducendo una competizione fatta di bugie, ricatti, minacce, campagne terroristiche destinate ad installare la paura nell’elettorato.

Il voto esprime il rifiuto popolare verso un premier considerato un abusivo e un arrogante, un bugiardo seriale dotato di ambizione eccessiva e di spregiudicatezza senza limiti nella ricerca della sua affermazione personale. Tutto ciò ha certamente inciso molto sul sentiment del Paese espresso nel voto. Ha definito “accozzaglia” la storia della politica italiana, ma non é servito: anzi, è probabile che la sua scorrettezza abbia spinto al voto più gente di quanta ci si sarebbe aspettato.

La chiave del successo del NO è stata la risposta di milioni di italiani piagati dalle politiche economiche del governo. Che hanno visto nel voto la possibilità di riprendersi la parola negata da governi che si succedono senza esser stati eletti. E, quello Renzi, oltre all’assunzione inginocchiata delle disposizioni della UE, ha operato per azzerare il patto sociale e costituzionale, visto come scalpo necessario per riscrivere l’assetto dei poteri, da raggiungere piegando ogni opposizione ed estromettendo i corpi intermedi della società dal suo ruolo di mediazione sociale.

Hanno risposto NO come era logico attendersi i lavoratori privati dell’articolo 18, ritrovatisi senza tutele nei confronti dell’arroganza padronale. Allo stesso modo gli insegnanti derisi e umiliati dalla “buona scuola”, così come i giovani che si sono visti turlupinati con i vaucher, spacciati come occupazione quando invece sono elemosina precaria utile solo a truccare i dati sul mercato del lavoro.

Hanno votato NO le persone che erano prossime alla pensione ma che sono state schiacciate dalla riforma Fornero, che li ha trasformati in esodati a tempo indeterminato. Una riforma che non solo Renzi non ha modificato (come aveva promesso) ma che addirittura ha infarcito di presa in giro degli italiani con la proposta di anticipo pensionistico.

Ha votato NO il Paese schiacciato dalle politiche del governo dispiegate, oltretutto, con arroganza e sarcasmo. Ha votato NO chi ritiene che sia necessaria una nuova politica industriale per l’occupazione, che vuole porre al centro dell'agenda politica una politica salariale che riporti alla decenza la prestazione lavorativa, che inverta la tendenza alla riduzione pesante dello stato sociale, confermata negli anni con la rinuncia ad ogni intervento di sostegno su sanità, previdenza e assistenza.

E non è casuale che il Si abbia vinto nei pochi centri dove il contesto socioeconomico è migliore e che proprio al Centro Italia e nel Sud, dove invece le piaghe sociali sono più dolorose, la vittoria del NO sia stata così netta.

Sul piano più strettamente partitico, il voto di ieri indica anche la fine della breve ed ingloriosa storia del PD. L’esperimento di laboratorio che ha obbligato alla convivenza forzata due culture politiche conquistata attraverso l’uccisione di quella di sinistra, non ha funzionato. Si apre ora una fase completamente diversa e la analizzeremo nei prossimi giorni.

Ma quel che è certo è che è rimasto sepolto sotto le schede elettorali è il progetto renziano del Partito della Nazione. Il PD, che ha perseguito una strategia fondata sulla eliminazione della sinistra e l’attrattiva per il voto moderato, ha ridato vigore alla sinistra dentro e fuori dal partito mentre ha perso il voto moderato.

La promessa di Renzi di risollevare l’Italia e sconfiggere Grillo è diventata il peggioramento dei conti del Paese e l’affermazione del M5S. Il voto ha invece dimostrato che, molto più del PD, è il M5S che ha la capacità di intercettare i voti orfani della storia ideologica del Paese, persino quelli dei moderati. I giovani, che si volevano arruolabili nella battaglia renziana per la rottamazione, hanno rottamato il rottamatore. Un fallimento completo e senza appello.

Oltre al PD renziano, la grande sconfitta è la struttura mediatica del Paese, che a Renzi è stata devota per la sintonia piena tra il personaggio e le banche che sostengono i rispettivi gruppi editoriali. Toni apocalittici, pressioni e sotterfugi, bugie ricevute e rilanciate senza decenza deontologica, non sono però state sufficienti.

L’occupazione militare della RAI da parte di Renzi, lo schieramento vergognosamente di parte di Mediaset e Sky e la mobilitazione della grande editoria cartacea, che ha stampato su carta quello che Palazzo Chigi indicava, non sono servite. I pizzini elettronici con i quali Filippo Sensi indicava contenuti e titoli alla maggioranza degli organi di stampa, da ieri sono carta straccia e si registra una la più pesante sconfitta di sempre per il sistema mediatico ufficiale.

L'informazone è stata trasformata in propaganda e questa, destinata alla persuasione forzata (palese come occulta) dell’opinione pubblica, è stata sconfitta da una consapevolezza generale della posta in gioco. E, sempre per restare nella sfera  mediatica, non sono servite le genuflessioni di Benigni e di Santoro, per non parlare dei conduttori del 90 per cento delle trasmissioni televisive e radiofoniche. Il dialogo tra le persone ha prevalso sulle lingue battenti sui tamburi.

Finisce qui la carriera politica di Renzi e ciò è certamente un bene per il Paese e anche per lo stesso PD. Da oggi la parola è al Capo dello Stato che dovrà ricevere le dimissioni di Renzi e cercare la soluzione parlamentare alla crisi.

Ma se le prerogative presidenziali potranno delinearsi solo attraverso le procedure previste dalla Carta, quelle popolari hanno già fornito una indicazione netta e senza appello. Legge di stabilità (da modificare sensibilmente) entro Dicembre, quindi Riforma elettorale e poi alle urne. Gli italiani vogliono tornare a votare: questo ha detto, chiaro e forte, il voto di ieri.




di Fabrizio Casari

Siamo dunque giunti al momento del voto, per decidere se la Carta Costituzionale deve essere difesa o diventare invece lo strumento giuridico fondamentale per le nuove avventure autoritarie. E' una controriforma folle, pasticciata nella sua elaborazione e demenziale nella sua applicazione.

Sul piano politico generale é una controriforma che affossa il patto sociale e costituzionale siglato dalle forze politiche a seguito della sconfitta del fascismo. Sul pian normativo afferma la fine dell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato (Esecutivo, Legislativo e Giudiziario) e, con la venuta meno della relazione tra pesi e contrappesi (il famoso ceck and balance) sancisce la supremazia dell’Esecutivo sugli altri due.

Attraverso la legge elettorale che l’accompagna, la controriforma di Renzi propone con un solo 25% dei voti al secondo turno la conquista della maggioranza assoluta dei seggi alla Camera; il che, attraverso il consenso del Parlamento, consente la formazione del Governo, la nomina della Corte Costituzionale e di una quota del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che dei vertici della RAI. Quindi, gli organi di controllo del Governo saranno nominati dal partito che vincerà le elezioni.

Questo stabilisce che i controllori diverranno controllati e i controllati diverranno controllori. Il Primo Ministro diventa imperatore. E non a caso il governo Renzi ha imposto al Parlamento la fiducia per far passare la sua legge elettorale. Anche se ora inganna gli elettori dicendo che la cambierà, in realtà Controriforma costituzionale e Italicum fanno parte della stessa operazione, si tengono l’una con l’altra.

Il Paese si è diviso come mai nelle epoche recenti e già questo dovrebbe indicare l’impraticabilità di questa controriforma, dato che le modifiche alla Carta, oltre alle procedure previste all’articolo 138, si fondano su un consenso ampio e trasversale di tutta la società, dal momento che le regole del gioco democratico devono incontrare il favore di tutti coloro che al gioco partecipano.

Già in premessa c’è da osservare l’assurdità del tutto. Che a riformare il Senato sia stato un Parlamento eletto con una legge incostituzionale, rappresenta perfettamente il lato paradossale di questa penosa commedia italiana, così come lo è altrettanto il fatto che un premier eletto da un complotto di corte si erga a garante del funzionamento democratico.

Nel merito, poi, se vincerà il Sì, il Senato sarà destinato a diventare il maggiore e più costoso ente inutile del sistema pubblico. I risparmi non esistono, visto che il costo per le attività dei nuovi senatori sarà superiore ai risparmi, comunque ammontanti a un caffè all’anno per ogni elettore. Verrà insediato senza un voto popolare ma scelto dal censo imperante, cioè la casta partitocratica venduta a quella finanziaria.

I nuovi senatori avranno un doppio incarico (e annessa immunità) e daranno ai partiti la possibilità di scegliere chi nominare senatore senza nemmeno togliersi il disturbo di chiedere il voto popolare. Così, la riforma del Titolo V della Carta resta impantanata nell’applicazione del dettato del Piano di Rinascita Democratica redatta da un toscano ancor più famoso di Renzi.

Solo in Italia è possibile ipotizzare l’elezione di un organo legislativo che non sia votato dagli elettori. In nessun altro paese al mondo sarebbe possibile anche solo pensarlo. Se si vogliono cercare parallelismi internazionali è bene ricordare un esempio su tutti: nel 1913, gli Stati Uniti decisero che i senatori - fino ad allora eletti dalle assemblee degli stati - dovessero essere eletti direttamente dai cittadini, proprio per rafforzare la democrazia rappresentativa.

Una ulteriore anomalia di questa campagna elettorale è stata il protagonismo del Governo, che diversamente da quanto prevede una prassi consolidata, non è stato affatto neutrale. Anzi, si è schierato con i mezzi e le risorse di cui dispone grazie alla fiscalità generale, alterando così la regolarità del confronto che dovrebbe basarsi sulla parità di condizioni.

Ed è proprio sull’invasione di campo del governo nel referendum che si è misurato il peggio di questa campagna elettorale. Minacce, bugie spudorate, insulti, aggressioni e ricatti, manipolazione dei dati e della stessa scheda elettorale, false informazioni sulle ricadute economiche del voto, raggiro del voto estero, sono state la quinta essenza della campagna di un Primo Ministro scorretto e bugiardo, capace di vendere fumo e mentire pur di vincere.

Chiunque può porsi una domanda semplice: perché tanto livore, tanta furia? Perché esibire un armamentario come quello testé citato visto che il Paese fino ad oggi è andato avanti lo stesso? Perché trasformare in un Armageddon una riforma che, anche chi ha deciso di votarla, ammette non essere certo un capolavoro?

Le ragioni sono diverse, di ordine interno ed internazionale e sarebbe lungo trattarle qui ed ora. Ma quello che si può dire subito è che la posta in gioco è molto più alta di una modifica della Carta, che non sarebbe poi né la prima né l’ultima. La controriforma di Renzi non ha come obiettivo snellire i procedimenti legislativi, bensì quello di imporre un modello autoritario di governo che, ad oggi, non potrebbe realizzarsi a Costituzione vigente.

Il disegno di controriforma costituzionale, infatti, rappresenta la formalizzazione di una nuova idea di comando del potere economico e finanziario (al quale è asservito quello politico) sulla società italiana. Di fronte ad un evidente scollamento tra Paese reale e Paese politico, si è scelto di impedire che il primo  orienti o condizioni il secondo.

Con il venir meno della capacità di governare, si sceglie il controllo autoritario sui governati, imponendo la fine dei processi elettorali per interrompere il problematico legame tra rappresentanze e rappresentati. La causa evidente di questa involuzione autoritaria sta proprio nella difficoltà da parte dei poteri dominanti di governare i processi di scomposizione sociale determinati dalla crisi economica che attanaglia le società europee.

E’ una crisi di credibilità e di prospettive quella delle elites, seguita al fallimento della proposta ideale della globalizzazione, dipinta come l’età dell’oro e rivelatasi invece come la crisi più nera della storia economica e sociale contemporanea. Il capitale ha dichiarato guerra al lavoro e l’idea del fare denaro con il denaro è stata la summa della trasformazione di un sistema che ha imposto la progressiva supremazia del capitalismo finanziario su quello industriale, mentre l’ideologia del rigore finanziario ha sostituito quella di un modello economico applicabile e inclusivo.

Ciò ha trasformato il lavoro in una variabile da sostenere solo se in condizioni di schiavitù e con politiche salariali destinate verso il minimo di sussistenza in nome del contenimento dell’inflazione. Queste politiche hanno determinato lo sprofondamento dei ceti medi verso l’area della proletarizzazione e, quest’ultima, è divenuta un magma fondato sulla precarietà più assoluta, oltre a veder chiaro come l’ascensore sociale sia ormai un malinconico ricordo.

Parallelamente, i ricchi sono diventati molto più ricchi e i poveri molto più poveri, la forbice sociale si è allargata a dismisura e l’azzeramento del welfare è stato la leva per costruire nuova capitalizzazione attraverso la privatizzazione dei servizi.

Ma la sostituzione dei servizi pubblici a vantaggio del profitto privato, oltre a rappresentare la fine della concezione universalistica dei diritti, ha uteriormente impoverito il Paese. Con una disoccupazione giovanile che sfiora il 55%, una mancanza di lavoro che arriva al 12%, con 11 milioni di italiani che hanno smesso di curarsi per mancanza di risorse e l’erosione del risparmio familiare, si è creata una condizione di arretratezza economica che ha riportato l’Italia indietro di decenni. La crescita è ridicola, non arriva allo 0,9% e non è stata in grado di approfittare della congiuntura straordinariamente positiva, determinata dal prezzo basso del petrolio e dal quantitative easing della BCE.

Nemmeno questo è servito: il debito pubblico è aumentato ed il riassetto idrogeologico italiano non è nemmeno cominciato. Ma il governo, da quattro mesi, si occupa solo del suo disegno di potere, l’Italia è ormai terra di conquista per un manipolo di grembiulini e compassi dalle ambizioni decisamente superiori alle loro qualità.

In questo quadro, quindi, inutile tacciare di populismo le reazioni della società colpita, umiliata e ridotta a variabile dei cicli economici. In assenza della rappresentanza di interessi popolari e in presenza di un processo normativo che tende con forza all’eliminazione dei corpi intermedi, si delinea una distanza incolmabile tra le esigenze di tenuta del quadro sociale che si riverbera su quello politico.

Ecco perché la contrazione degli spazi di democrazia che ci viene proposta esprime una insopportabilità delle regole che lo stesso sistema liberal-democratico si è dato: l’investitura popolare delle istituzioni risulta un terreno minato per i poteri e la governabilità si trasforma in comando.

Uno dei passaggi nei quali avviene il percorso di rigetto della volontà popolare è proprio la riduzione ai minimi termini dell’esercizio del voto, che ha imposto - con la complicità attiva del Quirinale a guida Napolitano - ben tre governi tecnici, espressione cioè del controllo europeo sul Paese.

Certo, la Carta prevede che sia il Parlamento a fornire della fiducia il governo e che questo non sia diretta espressione del voto popolare, ma questo aspetto non tragga in inganno. Costruire governi in Parlamento è legittimo quando lo stesso è espressione comunque del voto, mentre sia il governo Monti che quello Letta, e a maggior ragione quello Renzi, sono espressione di equilibri determinatisi negli apparati di sistema interni ed esteri e non conseguenza di un voto popolare.

E che la tendenza sia quella di bypassare completamente la volontà popolare lo si può osservare ad ogni livello. Esempi? Nonostante una sentenza della Corte Costituzionale, anche nella controriforma s’impedisce la possibilità di apporre le preferenze sulla scheda elettorale; benché continui l’esistenza di un ente come le Province, si toglie ai cittadini il diritto di votarle; nonostante si mantenga in vita il bicameralismo, si nega al popolo il diritto di eleggere i senatori. Di questo passo non voteremo più nemmeno nelle assemblee di condominio.

La possibile dicotomia alla quale Norberto Bobbio si riferiva quando poneva a confronto la democrazia formale e quella sostanziale, trova così la sua sintesi peggiore e definitiva: ormai lontana quella sostanziale, si elimina del tutto anche quella formale.

Questo è quello su cui siamo chiamati a votare: la possibilità di continuare a farlo. Il tentativo di Renzi è quello di assegnare ai poteri forti - e speso occulti - il dominio completo sull’Italia. Sarà obbligatorio dire di NO. Abbiamo bisogno di un Paese di sana e robusta Costituzione.




di Antonio Rei

Mentre tutta Europa aspetta il referendum del 4 dicembre e mezza Italia s’interroga sul verdetto della Corte Costituzionale in merito all’Italicum, la Consulta spiazza tutti e boccia la riforma della pubblica amministrazione. Una sberla inattesa per il governo, che pochi giorni prima aveva varato cinque decreti attuativi proprio della legge Madia. Provvedimenti che ora andranno riscritti, visto che i giudici costituzionali hanno ritenuto illegittima la legge delega che sta a monte.

In particolare, la riforma della PA contraddice la Carta nel punto in cui stabilisce che per gli atti di riordino del settore pubblico (compresi i licenziamenti) il Governo non è tenuto a trovare un’intesa con la Conferenza Stato-Regioni: basta che ne ascolti il parere. Un’impostazione contro cui si è scagliato il Veneto, che ha fatto ricorso perché non accettava di non poter più nominare i direttori generali delle aziende ospedaliere regionali, i quali dopo la riforma sarebbero stati imposti da una commissione di nomina governativa.

La reazione del premier Matteo Renzi è sembrata mossa da furia impulsiva: “Noi avevamo fatto un decreto per rendere licenziabile il dirigente che non si comporta bene - ha detto - e la Consulta ha detto che siccome non c’è intesa con le Regioni, avevamo chiesto un parere, la norma è illegittima. E poi mi dicono che non devo cambiare le regole del Titolo V. Siamo circondati da una burocrazia opprimente”.

Al di là della solita arroganza, non è chiaro se stavolta Renzi sia arrivato a insultare addirittura la Corte Costituzionale, a cui logicamente dovrebbe essere riferito quel poco onorevole epiteto di “burocrazia opprimente”. Sono parole di un leader sull’orlo di una crisi di nervi, ma stavolta è comprensibile. Il Premier sa benissimo che questo pronunciamento della Consulta avrà un peso sull’esito del referendum della prossima settimana.

In effetti, a qualsiasi elettore può sorgere un dubbio assai banale, ma non per questo sbagliato. Ovvero: perché mai dovremmo consentire a questo governo di riformare 47 articoli della Costituzione, visto che non è stato in grado nemmeno di riformare la PA senza violare la Carta? La risposta è altrettanto banale, ma non per questo meno giusta: non dovremmo.

E non dovremmo soprattutto perché lo stesso destino della riforma Madia ci dimostra quale sia la reale concezione del potere ai tempi del renzismo. Per l’attuale Premier la parola “concertazione” è una bestemmia, a qualsiasi livello, mentre la “sussidiarietà” di cui parlavano i padri costituenti si è una parola uscita da vocabolario. Il bullismo istituzionale del Presidente del Consiglio si fonda su un presupposto semplice: l’efficienza è inversamente proporzionale al numero di persone che esercitano il potere. In altri termini, l’obiettivo principale di Renzi è il rafforzamento dell’esecutivo a danno degli altri poteri e delle altre istituzioni.

Di qui il Governo che decide senza ascoltare le Regioni, la Camera che legifera senza bisogno del Senato, il partito vincitore delle elezioni che incassa il 54% dei seggi anche se rappresenta il 30% (o meno) degli elettori, il capo del partito che stabilisce le liste elettorali determinando chi sarà eletto deputato. Fa tutto parte dello stesso pacchetto, che s’inserisce nella logica post-berlusconiana dello Stato come azienda e del governo come Consiglio d’amministrazione. Un’ottica in cui gli statali vengono licenziati come fossero stati assunti tramite colloquio in una struttura privata anziché al termine di un concorso pubblico.

Vogliono convincerci che questo modo di pensare sia la sola medicina possibile, l’unica via per ammodernare il Paese e farlo ripartire. La Corte Costituzionale ha detto di no e c’è da sperare che il 4 dicembre l’Italia faccia altrettanto.

di Antonio Rei

Non solo non lo hanno punito né ripreso: lo hanno addirittura premiato. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, sembra mettercela davvero tutta per screditare se stesso e il Partito Democratico, ma il governo Renzi non può prendere le distanze da uno dei suoi principali amministratori a 10 giorni dal referendum costituzionale. Non era però scontato che decidesse addirittura di approvare un emendamento alla legge di Bilancio per aumentare il suo potere.

Ma andiamo con ordine. Nel corso di una riunione con i sindaci campani, stando a una registrazione pubblicata da Il Fatto Quotidiano, De Luca si è espresso in questi termini: “Prendiamo Franco Alfieri, notoriamente clientelare - risate, applausi - Come sa fare lui la clientela lo sappiamo. Una clientela organizzata, scientifica, razionale, come Cristo comanda. Che cosa bella. Ecco, l’impegno di Alfieri sarà di portare a votare la metà dei suoi concittadini, 4mila persone su 8mila. Li voglio vedere in blocco, armati, con le bandiere andare alle urne a votare il Sì. Franco, vedi tu come Madonna devi fare, offri una frittura di pesce, portali sulle barche, sugli yacht, fai come cazzo vuoi tu, ma non venire qui con un voto in meno di quelli che hai promesso”.

Umorismo vergognoso o istigazione al voto di scambio? Se le parole del governatore costituiscano o meno un illecito penale lo decideranno i magistrati e al momento la Procura competente afferma che non è stata formulata alcuna ipotesi di reato. Ma il punto non è questo. Il punto è che questo volgare discorsetto tra compagni di bevute non è avvenuto in un bar dello sport, ma in una riunione tra amministratori pubblici.

E infatti più avanti De Luca spiega le vere ragioni della sua sfrenata passione per il Sì al referendum. Non c’entra nulla la riforma in sé, né alcuna preoccupazione per la nostra Carta Costituzionale, ma un bieco calcolo di campanile: fin qui il governo Renzi ha concesso alla Campania tutti i soldi pubblici che poteva, come nessuno aveva fatto prima, perciò non deve cadere.

A questo siamo ridotti. Ai sindaci e ai governatori che si spendono per cambiare 47 articoli della Costituzione con l’unico obiettivo di far quadrate i propri conticini della serva. Sarebbe questo il radicamento sul territorio del Pd. E, soprattutto, sarebbe questa la schiatta di politici che andrebbe a colonizzare il Senato nello scenario post-riforma.

In effetti, visto che è tornato di stretta attualità parlare di localismo, campanilismo e soprattutto clientelismo, vale la pena di sottolineare una delle principali aberrazioni che la riforma tanto magnificata da De Luca rischia d’introdurre. L’elezione diretta dei senatori non è un capriccio di chi vota NO, ma l’unico modo per garantire che a Palazzo Madama si riunisca un’assemblea davvero rappresentativa delle autonomie locali. La versione partorita da Boschi e Verdini, invece, prevede che a scegliere i consiglieri regionali e i sindaci che andranno in Senato siano i Consigli regionali.

Questo significa che la carriera politica dei senatori rimarrebbe legata al loro contesto iper-locale. Il che avrebbe conseguenze allucinanti: ad esempio, se il sindaco di Pisa venisse eletto senatore, a Palazzo Madama farebbe gli interessi di Pisa, non della Toscana. E lo stesso discorso varrebbe per i consiglieri regionali legati a particolari province (e lo sono sempre). A quel punto immaginate quante belle conversazioni sulle fritture di pesce.

Insomma, con quel suo sproloquio indifendibile De Luca ci ha spiegato involontariamente ma come meglio non avrebbe potuto per quale ragione dobbiamo votare NO. Ovviamente il governo ha già derubricato le risate sul clientelismo a innocua goliardia, un po’ come faceva Berlusconi qualche anno fa con le sparate assurde di Bossi e compagnia padana.

Solo che, nel caso di De Luca, il Pd ha addirittura rilanciato. La commissione Bilancio della Camera, infatti, ha approvato l’emendamento del relatore della legge finanziaria (Mauro Guerra, Pd) che prevede la possibilità per i presidenti di Regione di ricoprire l’incarico di commissari della sanità quando si verifica un percorso di rientro dai conti in rosso.

Una norma cucita addosso al governatore della Campania, che si trova proprio in questa situazione. L’unico vincolo che dovrà sopportare sarà una verifica semestrale da parte dei ministeri dell’Economia e della Salute. E tra un controllo e l’altro, sai quante altre battute esilaranti?


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