Parlare di “bocciatura a metà” è ridicolo. La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’Italicum nella parte che riguarda il ballottaggio, il vero cuore della riforma elettorale renziana. Per mesi l’ex premier ha decantato la sua legge ripetendo che “finalmente la sera stessa delle elezioni” avremmo conosciuto il nome del vincitore, il quale avrebbe avuto la possibilità di governare serenamente per l’intera legislatura.

La dialettica politica italiana sembra diventata una maionese impazzita. C’è chi propone indecenti censure sul web e chi improbabili tribunali del popolo. L’idea di verità con la “V” maiuscola agita il torpore tipico del post vacanze natalizie. Ma sarebbe stolto mettere sullo stesso piano le pericolose minacce censorie di un potere all’angolo, con le baggianate di Grillo, ormai visibilmente non in grado di gestire un Movimento che purtroppo, nel suo divenire forza politica, mostra inadeguatezza, assenza di equilibrio e di sintesi politica, elementi necessari per proporsi come forza di governo.

Siamo entrati nel 2017 ma il 2016 non ci ha abbandonati. In fondo, per molti aspetti quello appena finito è stato significativo, nel bene e nel male, di ciò che siamo oltre che di quel che siamo stati. L’Italia è stordita da una crisi economica che si è già mutata in crisi di civiltà e il susseguirsi di governi mai votati e di politiche mai volute estranea sempre più. La stagione di caccia ai diritti sociali non si chiude mai e l’aggettivo più usato dell’anno è “populisti”. Ma i populisti non esistono, esistono invece le politiche antipopolari.

Lascia sbigottiti la sentenza della Corte di Cassazione n.25201 del 7 dicembre scorso. Licenziare, a detta della Suprema Corte, sarebbe legittimo sempre e comunque. Ovvero non solo nei casi di crisi economica aziendale, d’impossibilità alla prosecuzione del rapporto di lavoro a fronte di un disinvestimento o della chiusura di tutta o anche solo una parte della produzione, in presenza di episodi di slealtà o, nel caso di un dirigente, nel venir meno del rapporto fiduciario.

di Fabrizio Casari

Leggere la lista del cosiddetto governo Gentiloni è come un deja-vu. Identico, fatto salvo per qualche spostamento di caselle a quello precedente, si propone infatti come proseguimento del renzismo con altro manico. La Boschi, tra i principali artefici della disfatta referendaria, che aveva garantito di seguire la sorte del Premier in caso di sconfitta, ha battuto i piedi fino a che non gli è stato garantito un ruolo. Nemmeno con il gioco delle differenze si potrebbero scorgere segnali di discontinuità tra il governo Gentiloni e quello Renzi. E' il governo Renzi formalmente guidato da Gentiloni. Siamo di fronte al primo governo ventriloquo della storia d’Italia.

Verdini ha annunciato che in assenza di poltrone ministeriali per il suo gruppo non voterà la fiducia ma è tutto da dimostrare che ciò avvenga. Quello tra lui e Renzi potrebbe essere un gioco di sponda: l’ex uomo di fiducia di Berlusconi sa bene che Renzi ha bisogno di allargare il suo consenso interno al PD e fare a meno di Verdini costituisce mossa a ciò destinata. Infatti, leggendo in controluce la compagine governativa, si capisce come l’equilibrio nelle nomine ministeriali serva ad allargare i consensi per il segretario nella scacchiera correntizia in seno al PD.

Per questo Renzi, che al Congresso vuole arrivare blindando sé e i suoi, allarga all’area Dem con l’innesto della Finocchiaro e della Fedeli. L’operazione è destinata ad un maggiore coinvolgimento degli ex-bersaniani, nel tentativo di evitare che possano saldarsi con l’area Franceschini. Perché è di Franceschini che l’ex-premier si preoccupa e non a caso, pur avendo scelto Gentiloni, non si fida fino in fondo degli ex rutelliani e lascia la Boschi a guardia del Palazzo, coadiuvata da Lotti. Ci riusciranno?

Non è detto che l’operazione riesca con semplicità. Il PD è in subbuglio e l’interlocuzione con i poteri forti del Paese è stata messa in discussione dopo la sconfitta rovinosa alle regionali, alle municipali e nel referendum, che ha dimostrato come Renzi sia tutt’altro che un cavallo vincente. Ad indicare le difficoltà nel processo di affidamento dei poteri forti con il segretario del PD c’è stato incarico di Lotti allo Sport: si è trattato di evidente ripiegamento, visto che il segretario PD si era battuto per promuoverlo Sottosegretario con delega ai Servizi, nel ruolo che da diversi anni ricopre Minniti. Ha pensato che promuovendo Minniti al Viminale e lasciando così libera la casella della sua delega, ci si potesse infilare il suo Lotti. Errore. E’ stato stoppato come già gli accadde con la nomina dell’altro suo sodale Carrai, che l'ex premier voleva nominare addirittura Capo della cyber security dei Servizi Segreti.

Non vi riuscì per via dell’opposizione degli stessi vertici delle "barbe finte", che ritennero l’idea una assoluta provocazione. Proporre ai vertici delle strutture d’intelligence un personaggio estraneo alle stesse e decisamente incompetente in materia, solo per essere amico personale del premier, apparve una boutade di cattivo gusto e determinò un deciso stop anche Oltreoceano.

Insomma Renzi da due anni a questa parte tenta l’assalto alle posizioni di primo piano nella struttura della nostra intelligence, che ritiene pedina strategica per il rafforzamento e l’affermazione definitiva del suo gruppo di potere, il Renzi power come lo chiamano. Il fatto che non vi riesca racconta della sua arroganza e incapacità, visto che invece di scegliersi interlocutori privilegiati nell’ambito dei Servizi civili e militari per un avvicinamento graduale e discreto, tenta d’imporre a forza amichetti del giglio magico privi di ogni curriculum e di ogni affidabilità adeguati all’ambito. Ma Renzi è questo: non c’è sconfitta che possa trascinarlo nel regno della politica.

Sul piano del messaggio politico si dimostra altrettanto incapace. I peggiori ministri del governo Renzi sono nel governo (per modo di dire) di Gentiloni. Eppure l’occasione per dimostrare di aver compreso che lo scontro con tutte le categorie sociali del Paese potesse trovare un serio ripensamento era ghiotta: togliere i ministri più discussi avrebbe rappresentato la dimostrazione di un partito e del suo segretario che, appresa la lezione, invertono la rotta fin qui fallimentare e cercano di ricostruire un dialogo con le vittime delle loro politiche.

Si è preferito invece proseguire, anche simbolicamente, con la sfida aperta a 17 milioni di italiani, con la ricerca dello scontro sociale e politico. Questa è la continuità che inopinatamente rivendica Gentiloni. Legge elettorale e appuntamenti internazionali non saranno sufficienti a ridurre il rifiuto popolare verso Renzi e sarà il PD, quale che sia l’esito del congresso, a pagare il prezzo più alto.


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