Parlare di “bocciatura a metà” è ridicolo. La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’Italicum nella parte che riguarda il ballottaggio, il vero cuore della riforma elettorale renziana. Per mesi l’ex premier ha decantato la sua legge ripetendo che “finalmente la sera stessa delle elezioni” avremmo conosciuto il nome del vincitore, il quale avrebbe avuto la possibilità di governare serenamente per l’intera legislatura.

 

La sentenza della Corte Costituzionale cancella tutto questo, rigettando il nucleo dell’assetto politico-istituzionale proposto da Matteo Renzi. Un progetto accentratore, che attraverso il ballottaggio senza soglia minima di accesso avrebbe permesso a un partito rappresentativo (ad esempio) del 25% del corpo elettorale di colonizzare il 54% dei seggi della Camera. La Consulta ha difeso l’Italia da questo scempio del principio di rappresentanza, ponendosi in linea di continuità con il voto espresso dagli italiani il 4 dicembre.

Superate le preoccupazioni di carattere normativo, a questo punto si aprono due questioni politiche. La prima riguarda il premio di maggioranza oceanico previsto dall’Italicum. I giudici costituzionali lo hanno tenuto in vita, riducendo però di molto il suo potenziale distorsivo. Con la cancellazione del ballottaggio, quel famoso 54% a Montecitorio (340 deputati su 630) potrà andare soltanto alla lista (non alla coalizione) capace di raccogliere alle elezioni oltre il 40% dei consensi. In questi termini si tratta di un premio ragionevole, ma anche del tutto inutile, perché è facile prevedere che nessun partito sarà mai in grado di prendere da solo tanti voti.

Per ridare senso alla norma, il Pd potrebbe trovare il modo di modificare l’Italicum in modo da attribuire il premio non alla lista, ma alla coalizione. Del resto, all’interno del partito di governo c’era già un’intesa in questo senso fra la maggioranza renziana e la componente ex Ds che fa capo a Gianni Cuperlo. È ovvio poi che Forza Italia, Lega e tutti i partiti minori non potrebbero che essere d’accordo. Con questa modifica apparentemente minima, infatti, spazzerebbero via ogni velleità governativa del Movimento 5 Stelle, che per statuto non può stringere alleanze con nessuno e quindi sarebbe condannato a un’esistenza di perpetua opposizione.

La seconda questione riguarda la data del voto. A parte i capricci di Renzi e l’ambizione di Salvini – che vuole sfruttare l’ultimo anno d’incandidabilità di Berlusconi per accreditarsi come leader del centrodestra – non esiste davvero alcuna ragione per andare alle elezioni a giugno. Al contrario, i motivi per tenere Gentiloni in sella sono moltissimi: la crisi umanitaria causata dai terremoti, la manovrina bis da 3,4 miliardi imposta dalla Commissione europea, la voragine del Monte dei Paschi da riempire. Senza contare che dal primo gennaio l’Italia è entrata nel consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ed ha assunto la presidenza del G7. Insomma, non è proprio il momento di un’altra campagna elettorale.

E allora, pur di non arrivare al 2018 (quando Berlusconi tornerebbe candidabile), si potrebbe scegliere novembre come soluzione di compromesso. Ma in autunno, si sa, tocca fare i conti con il solito psicodramma della legge di Bilancio e non sembra molto saggio presentarsi all’appuntamento senza governo.

C’è poi un’ultima questione, non proprio marginale. Nel suo discorso d’insediamento Gentiloni disse che questo governo sarebbe rimasto in carica finché avesse avuto la maggioranza in Parlamento. E visto che, anche per le ragioni già ricordate, è impensabile che Mattarella sciolga le camere solo perché Renzi sbatte i piedi per terra, bisognerebbe trovare un partito di maggioranza disponibile a sfilarsi per far cadere l’Esecutivo. Chi mai si lancerebbe in un’avventura così masochista?

Una cosa è certa: se, dopo il governo Bersani mai nato e il governo Letta abortito da Renzi, il Pd si producesse nel terzo harakiri consecutivo, non potrebbe aspettarsi di risalire nei sondaggi. Anzi, magari spingerebbe i grillini verso il 40% e il premio di maggioranza.

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