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di Fabrizio Casari
Sarà Beppe Grillo, oggi, a chiudere la riunione fiume del Direttorio del M5S sul “caso Roma”. Ma quale che siano le deliberazioni che verranno adottate, una cosa è chiara: la guerra dei palazzinari e del partito trasversale delle olimpiadi, della gestione dei rifiuti e della manutenzione delle opere pubbliche, è ormai dichiarata. La dichiarazione di guerra del partito degli affari contro il Movimento 5 Stelle è stata affidata a giornali, radio e televisioni di proprietà o di complemento.
Il PD, che avrebbe milioni di motivi per tacere su Roma, urla e i giornali di riferimento del Premier ne diffondono la voce. La Sindaca, dal canto suo, pare prigioniera di errori suoi e dei suoi consiglieri. Insomma, Roma è stretta tra alcuni errori di gestione del governo della neo sindaca e l’aggressione mediatica della stampa di regime.
Ma il rumore di nemici non assolve gli errori grillini, frutto di mancanza di qualità politica e, ancor più, di comunicazione (anche se davvero il rapporto con i medi militarizzati non è questione da risolvere con qualche mago degli Uffici Stampa). L’impressione, fino ad oggi, è che il M5S e la stessa Raggi non avessero calcolato prima il peso di quello che sarebbe stata la reazione dei poteri forti alla vittoria di un governo contrario ai suoi interessi.
Governare Roma è certamente compito improbo. La mole dei problemi, che in una qualunque metropoli sono pari al suo volume, nel caso di Roma subiscono una ulteriore difficoltà per l’intreccio spaventoso di corruzione e incapacità delle amministrazioni precedenti. Il tutto poggiato su un letto di spine rappresentato da un debito mostruoso che oscilla tra i 13 e i 14 miliardi i Euro.
Dunque la neonata giunta Raggi ha di fronte a sé una difficoltà di gestione davvero impossibile da non riconoscere, su cui s’innesta una oggettiva scarsa esperienza. La competenza davvero non può essere rivendicata vista la sostanziale iniziazione del M5S e della sua Sindaca alla politica e all’amministrazione pubblica. Fatte salve infatti le legittime aspirazioni a governare da parte di chiunque, va ricordato - soprattutto ai Cinque Stelle - che il governo di un sistema complesso ha bisogno di competenze, professionalità, esperienze e abilità politiche.
Sì, politiche, perché diversamente da quanto sembra ormai essersi inculcatosi nel main stream in 20 anni di berlusconismo, governare non è questione tecnica, non è affare di gestione amministrativa. E’, invece, questione tutta politica, alla quale coerentemente si deve adeguare il modello di amministrazione e gestione che da quell’impostazione politica deriva. Certo, l’onestà e la trasparenza, cavalli di battaglia dei pentastellati, non possono mancare; ma queste sono una precondizione, non un programma di governo.
Ovviamente, nel contesto di una realtà criminogena ed incapace come quella dimostrata dalle amministrazioni che l’hanno preceduta, l’onestà del M5S ha giocato un ruolo preponderante al suo plebiscito, frutto soprattutto di un voto di castigo ai partiti “storici” più che una adesione al programma elettorale del M5S.
Ebbene, secondo molti, i primi due mesi della Giunta Raggi non hanno corrisposto alle attese. Anche qui si sconta più del dovuto la retorica dei “cento giorni”; una vulgata diffusa che non ha nessun motivo d’esistere, ma non è questo il punto. Anzi, va detto che la pulizia della città è risultata riscontrabile quanto apprezzabile, e l’obiezione per la quale sarebbe stato semplice pulire la città in quanto ad agosto una parte degli abitanti vanno in ferie, è un’autentica sciocchezza.
Se i romani vanno in ferie (sempre meno e per minor tempo) l’affluenza dei turisti è decuplicata rispetto agli altri mesi dell’anno, il che, sul piano numerico, pareggia i conti e oltre. Poi andrebbe ricordato che la schifosa gestione dell’Ama da Alemanno in poi non s’interrompeva nemmeno ad agosto, dunque meglio sorvolare.
Eppure, lo spettacolo offerto dalle correnti interne ai 5 Stelle di Roma non entusiasma. Si tratta ora di ripartire facendo tesoro degli errori. Non è possibile affrontare la macchina amministrativa del Campidoglio senza competenze e relazioni, ma queste non vivono solo negli avanzi delle giunte precedenti. Ci sono competenze e professionalità sparse che possono essere utilizzate con profitto.
Sono molte le zone d’ombra su quanto avviene, a cominciare dal ruolo dell’ ANAC che non si capisce a che titolo viene consultata, così come non è chiaro il ruolo di alcuni personaggi della giunta, dal vicesindaco a scendere. Urge buon senso. Certo non si può chiedere alla Sindaca di costruire una giunta solo con il consenso del direttorio del movimento; ha tutto il diritto di scegliere i collaboratori per gli incarichi di natura fiduciaria, ma è pur vero che non può essere ignorata la sensibilità del Consiglio Comunale e, dunque, del Movimento romano.
E se non è realisticamente possibile ritenere obbligatoria l’adesione al M5S da parte di ogni assessore o funzionario chiamato a lavorare in giunta, nemmeno si può rivendicare il cambiamento e poi affidarsi a persone e curricula ampiamente sperimentati nel flagello delle precedenti amministrazioni.
In particolare desta inquietudine quel filo relazionale tra la Sindaca e gli studi legali Sammarco e Previti, che a Roma significano cose precise e affatto gradevoli. Seppure la Raggi ha avuto esperienze professionali legate ai due studi - il che non è certo un reato - essi non possono riprodursi oggi, meccanicamente, in un contesto che è, gioco forza, politico.
Questa crisi d’inizio lavori dovrebbe anche contribuire all’apertura di una riflessione interna al Movimento Cinque Stelle. In particolare nel riconsiderare a norma di codici il valore giuridico dell’apertura di un fascicolo in un regime di obbligatorietà dell’azione penale. Una ipotesi di reato comporta quasi in automatico successivi avvisi di garanzia che, come indica la loro stessa denominazione, sono uno strumento di garanzia, non l’anticamera di una condanna.
Va dato atto ai 5 Stelle di non appartenere alla folta schiera di coloro per i quali la legge per nemici si applica e per gli amici si interpreta. Ma il procedimento è vario e non può essere ricondotto alla semplificazione forcaiola. Un Pm non è un giudice e sovrapporre i ruoli è un errore che non può divenire un programma.
Senza una condanna, almeno in primo grado, equiparare la persona che riceve un avviso di garanzia ad un colpevole, equivale a definire che l’accertamento giudiziario non ha valore, per il semplice fatto di essere inseriti in un inchiesta dovrà portare ad una sentenza di colpevolezza.
Così ottenendo, per converso e paradossalmente, l’affermarsi subdolo della teoria per la quale se tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è. Nemmeno i nemici.
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di Fabrizio Casari
Le lacrime, certo. Legittime, sacrosante. La commozione di un intero Paese che sa riconoscere il dolore e cerca di sopravvivervi è degna del massimo rispetto e considerazione. Poi però, passato il cordoglio, le domande, i dubbi e le osservazioni non possono restare nascoste dietro le lacrime. Diversamente si lascerebbero le responsabilità al fato o alla natura, che amica forse non è ma nemmeno le speculazioni lo sono.
Perché quando gli edifici pubblici, che andrebbero edificati con le norme antisismiche previste, vengono giù come in un orrendo videogame, è chiaro che la natura ci mette del suo ma la parte decisiva è la modalità con la quale si è costruito.
L’Italia è un paese ad alto rischio sismico. Per la placca tettonica africana ed euroasiatica che spingono da due punti diversi, per la conformazione stessa del suo assetto orografico e idrogeologico. Eppure non vi sono procedure di allarme sismico, di evacuazione e raccolta come in ogni paese a rischio sismico del mondo. Basta viaggiare per scoprire che ovunque vi sono, tranne che da noi. Dalle sirene per gli allarmi ai piani di evacuazione, all’illustrazione delle procedure da osservare, ogni città a rischio sismico prova a difendersi ed organizza simulazioni di sisma per evidenziare il grado di assimilazione da parte dei cittadini delle procedure da svolgere in caso di terremoto o altro.
Da noi no. Ad eccezione di alcune situazioni, non vi sono esercitazioni per la difesa civile; soprattutto nelle grandi città non c’è nemmeno idea di cosa sia una difesa civile e quanto riesca ad attutire nelle calamità. Tutto, nelle emergenze, è lasciato all’attività dei membri della Protezione civile e ai volontari, con i primi dotati di risorse insufficienti e i secondi che, pur straordinariamente generosi, non possono raggiungere i livelli di efficienza di una struttura preparata specificamente ad affrontare ogni tipo di calamità.
Già l’inesistenza di procedure e piani d’emergenza adeguati al rischio per la popolazione rende ingovernabile ciò che invece (le calamità) potrebbe essere in qualche modo controllato, comunque contenuto nei loro effetti, pare incredibile. Addirittura criminale risulta la riduzione del budget e del personale per i Vigili del Fuoco: che sono abili, competenti, autentico elemento imprescindibile della struttura di soccorso.
Nessun governo ha mai ritenuto di dover fare della prevenzione e dell’addestramento un punto importante del suo programma: certo, comporta spese ma, soprattutto, ricostruire è molto più profittevole che mantenere. La ricostruzione porta con sé affari fenomenali e circolazione orizzontale e verticale del denaro, con la possibilità di farne passare percentuali a soggetti diversi; dalla politica all’amministrazione, dalle imprese che a loro volta subappaltano all’indotto.
Le inaugurazioni e i tagli di nastri offrono poi il valore aggiunto del l’esibizione pubblica dei politicanti d’ogni colore (ammesso che vi sia ancora una percettibile differenza cromatica nel quadro politico). Ricostruire è quindi la parola d’ordine: significa gare, appalti, licenze, assegnazioni, denaro che circola e appetiti che si soddisfano, nell’attesa del suo ritorno sotto forma di voti.
La manutenzione, invece, non produce esibizioni di propaganda, non costruisce consenso emotivo. Quando viene fatta, vedi il caso di Norcia, salva interi paesi e migliaia di persone. Agisce in condizioni di normalità e prevede un piano strutturato d’interventi, cosa quanto mai latitante nel Paese. Ma la manutenzione rappresenta un’eccezione, non la norma. Anche per una idea sciagurata della salvaguardia dei suoli, c’è la riduzione al lumicino dei flussi di spesa destinati alla prevenzione, che sono insufficienti in generale, persino per pagare correttamente le imprese alle quali vengono appaltati i lavori, se queste sono serie.
Vige invece la logica del massimo ribasso, contorta e fintamente rigorosa, che in molti casi ha prodotto il proliferare di piccole-medie imprese a scarso valore tecnico ed alta scaltrezza, che in considerazione dei costi previsti sono però le uniche a poter accedere ai bandi.
E qui c’è un altro aspetto non secondario: il procuratore della Repubblica ha detto che benché fossero stati costruiti con criteri antisismici, per come gli edifici pubblici sono franati l’impressione è che fossero stati costruiti con molta sabbia e ben poco cemento armato. Ovviamente utilizzare sabbia e non cemento produce una riduzione enorme dei costi a fronte di identica fattura per chi commissiona. In questo modo il costruttore realizza un surplus importante di profitto
Poi l’assenza di monitoraggio dei lavori, di controlli, di verifiche e collaudi, favorisce le condotte criminogene di personaggi che si definiscono imprenditori ma sono cialtroni la cui unica attività è l’accumulo illegittimo di denaro a spese di tutti. A definitiva conferma dell’inefficacia del codice degli appalti, basta vedere a chi questi sono andati, al giro corruttivo che hanno innescato ed ai risultati ottenuti.
E se questi sono elementi propri della deformazione del sistema, ci sono poi deformazioni strutturali della nostra mentalità che aggiungono problemi a problemi. Il nostro è un paese che è cresciuto con il mito della casa di proprietà. Se poi sono più di una, meglio ancora. Identificate come certezza per il futuro, segno di ricchezza, garanzia di ereditarietà, il mattone è stato, almeno fino alla crisi del 2008, considerato il bene-rifugio per eccellenza, divenendo il catalizzatore principale del risparmio privato. Nessun altro paese europeo ha la percentuale di proprietari di case come da noi (circa il 92 per cento delle persone abitano nella casa di proprietà).
Sarebbe lungo - e non è questa la sede - analizzare le ragioni ed il significato di questa che a molti appare come una idiosincrasia, ma tant’è. Il problema, però, è che il desiderio di possedere una casa e l’assenza di piani abitativi e degli investimenti per la politica residenziale pubblica, ha spinto milioni di persone in cerca di un tetto al “fai da te”; abusivo e senza logica, pericoloso per chi vi abita e per le zone circostanti.
Basta ricordare ciò che avvenne a Sarno o tenere a mente la situazione del Vesuvio, alle cui pendici abitano un milione di persone che potrebbero diventare vittime di una eruzione particolarmente violenta. Senza nessun piano regolatore, senza controlli e senza piani territoriali, sono nati e cresciuti decine di Comuni che non dovevano e non potevano nascere in una zona ad altissimo rischio.
L’Italia, oltre a 7500 km di coste in molti casi friabili, sopporta catene montuose, vulcani e fiumi insultati da decine di migliaia di abitazioni costruite fuori da ogni logica e capaci di determinare ulteriori e gravi problemi anche ai nostri flussi d’acqua. Che nessun governo ritenga di dover investire per il riassetto idrogeologico e per la costituzione di una unità speciale di sorveglianza tecnica diretta dalle Procure che vigili contro ogni abusivismo è grave.
Che fare per invertire la tendenza? Servirebbe concepire la nascita di un grande polo pubblico dell’edilizia destinato alla messa in sicurezza dell’Italia. Una sorta di nuova IRI, destinataria di ogni assegnazione di lavori per opere di pubblica utilità, a cominciare dal riassetto idrogeologico e dal consolidamento antisismico degli edifici nelle zone a più alto rischio ed alla manutenzione ordinaria e straordinaria.
Comporterebbe un piano nazionale di manutenzione del territorio, cui dovrebbe accompagnarsi un progetto di finanziamento straordinario per decine di migliaia di assunzioni di ogni figura professionale necessaria, dagli operai edili ai trasportatori, ai geologi, ai eometri e agli ingegneri civili. Sarebbe possibile tenere al di fuori del patto di stabilità l’investimento necessario e lascerebbe muti i criminali che si fregano le mani ad ogni tragedia pensando al business della ricostruzione.
Con le opere a carico dell'impresa pubblica finirebbero i finanziamenti a pioggia per le imprese degli “amici” e, con ciò, verrebbe dato un colpo mortale alla corruzione che alimenta il sistema degli appalti. Anche solo con questa consistente quota di risparmio di quei 60.000 miliardi di euro annui (che sono il costo della corruzione) si potrebbero trovare parte dei fondi necessari. E ciò potrebbe essere realizzato anche ignorando eventuali veti della UE, così come altri paesi hanno fatto. Avremmo più occupazione, più sicurezza e meno corruzione.
Vedremo se questa Paese che partorisce affaristi con il pelo sullo stomaco come gli Anemone, gaffeur come Vespa e Del Rio e idioti come quelli che propongono di scambiare italiani con stranieri nei centri di alloggio, sarà capace di battere i pugni sul tavolo, almeno una volta. Vedremo se arriverà il giorno che potremo gettare al vento il dogma delle privatizzazioni che tanti danni ha prodotto.
Perché più che a vivere con il terremoto, il movimento sussultorio e oscillatorio cui ci siamo abituati e quello della corruzione, che nel nostro Paese è passato dall’essere elemento di contorno a perno centrale delle politiche socioeconomiche. Per alimentarla si delineano molti più interventi che per eliminarla. La corruzione, insomma, non è più la conseguenza di un sistema, è ormai essa stessa sistema. E sotto le macerie restano i corpi e anche l’anima di un Paese che ha perso se stesso insieme ai suoi cari.
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di Antonio Rei
Inizia nel più solenne dei modi una stagione d’affanni per Matteo Renzi. Il Premier ospita oggi a Ventotene il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel per parlare di temi come la gestione dei migranti e la lotta al terrorismo. La scelta di tenere l’incontro nello stessa isola dove durante la guerra Spinelli, Rossi e Hirschmann scrissero il Manifesto “Per un'Europa libera e unita” voleva essere simbolica, evocativa, ma il risultato è una grottesca parodia del progetto concepito negli anni Quaranta.
Per dare almeno un’impressione di unità avrebbero potuto organizzare a Ventotene una riunione paneuropea. Invece, con involontaria onestà, hanno scelto l’isola del Manifesto unitario per celebrare la frammentazione che governa l’Ue, dove le decisioni vengono prese dal direttorio franco-tedesco e ratificate dagli altri Paesi.
A questi vertici di comando partecipava negli anni passati anche il Regno Unito, che però si è auto-escluso con il voto in favore di Brexit. All’Italia è stato concesso il posto lasciato libero da Londra, ma la posizione del nostro Paese rimane più che mai subalterna, soprattutto dopo gli ultimi sviluppi del quadro economico.
Al di là dell’agenda ufficiale, è facile prevedere che il Presidente del Consiglio sfrutterà la riunione di oggi per affrontare in modo informale il nodo della flessibilità sul deficit che l’Italia si prepara anche quest’anno a chiedere alla Ue. In sostanza, il Premier vuole convincere Merkel e Hollande a concedergli le risorse aggiuntive necessarie alla nuova legge di Stabilità, che a sua volta dovrà servire da grimaldello per la vittoria del Sì al referendum costituzionale.
Il problema è che, numeri alla mano, il nostro Paese sta andando peggio della media europea e difficilmente potrà meritare altri sconti. Secondo la stima preliminare dell’Istat, nel secondo trimestre il Pil è rimasto al palo: +0% (non accadeva dal 2014), contro il +0,1/+0,2% che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva detto di attendersi soltanto lo scorso 27 luglio.
A questo punto il governo dovrà ridurre le stime di crescita per il 2016 nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza che sarà pubblicata entro settembre. Ormai “siamo decisamente sotto l’1%”, ha anticipato il viceministro Enrico Morando. Lo scorso aprile, invece, il governo aveva previsto di chiudere quest’anno con una crescita dell’1,2% e un deficit al 2,3% del Pil, un dato inferiore al 3% imposto dalle regole di Maastricht, che perciò avrebbe consentito buoni margini di flessibilità.
Tuttavia, poiché il Pil aumenterà molto meno del previsto - e contemporaneamente non arriverà alcun taglio alla spesa pubblica - il rapporto deficit-Pil sarà superiore alle attese, limitando molto la flessibilità che potrà essere concessa al nostro Paese. Come anticipato dal Corriere della Sera, gli scenari peggiori contenuti nello stesso Def prevedono per il 2016 una crescita dello 0,7% e un deficit al 2,9% del Pil. Una vera batosta per la manovra pro-referendum.
Renzi potrebbe aggirare l’ostacolo portando gli elettori alle urne sulla riforma costituzionale entro fine novembre, cioè prima del via libera alla legge di Stabilità 2017. In questo modo potrebbe sfruttare l’effetto annuncio, promettendo mance, mancette e favori sparsi (ai pensionati, ad esempio, ma anche ai lavoratori dipendenti e agli autonomi) per accumulare voti in favore del Sì, salvo poi fare marcia indietro in fase di chiusura della manovra.
Del resto, lo spettacolo è già iniziato. Il Premier non spreca un’occasione per ribadire che “il governo continuerà ad abbassare le tasse con la nuova legge di Stabilità”. È il nuovo mantra renziano, che tutti i membri dell’Esecutivo hanno il compito di ripetere fino alla noia, ovviamente senza mai entrare nel merito. Si dice che la priorità sarà data allo stop dell'incremento automatico dell'Iva e al taglio dell’Ires, mentre l’intervento sull’Irpef (ben più costoso) sarà rinviato ancora.
Basterà per comprare il voto degli italiani, molti dei quali vogliono bocciare la riforma della Costituzione per semplice ostilità nei confronti di questo governo? Probabilmente no. Sempre che da Ventotene non arrivi un salvagente per il maldestro inquilino di Palazzo Chigi.
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di Giovanni Gnazzi
L’Anpi? Può partecipare ma non parlare. Questo è quanto ha stabilito il soviet supremo del PD in relazione alla partecipazione dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani alla Festa dell’Unità. Il festone a base di tortelli e passerelle, quest’anno, pare sia dedicato in esclusiva alla campagna per il SI al referendum costituzionale d’autunno e, in barba ad ogni rivolo di decenza, le posizioni di chi ha scelto di schierarsi per il NO non sono ammesse. Il che è davvero sintomatico e apre gli occhi anche ai più tenaci degli increduli circa il tasso di democrazia interna al partito di Matteo Renzi.
Immaginiamo cosa possano diventare i momenti conviviali della direzione del PD, fin troppo facile ipotizzare menù unici per pensieri unici. Sintomatico però per un partito che ha costruito la sua proposta di riforma e l’intera politica governativa sulla base di un patto immondo e segreto con la destra che a non poter parlare sia proprio la sinistra.
A detta degli organizzatori, il PD ha il diritto di non sentire critiche alle sue posizioni trovandosi a casa propria. Ovvero, si ospita solo chi la pensa allo stesso modo. Il confronto, che dovrebbe essere il sale della democrazia, viene così rivisitato in una nuova formulazione: chi non è d’accordo con me, non può venirlo a dire in casa mia.
Ovviamente la questione non riguarda solo una scarsa concezione dell’ospitalità. La verità è che il PD ha ormai il terrore di una campagna elettorale che rischia di diventare la tomba politica della lobby che del PD si è impossessata. L’autorità morale e la legittimità politica di una organizzazione come l’ANPI, d’altra parte, giustamente riscuote un rispetto assoluto nelle fila degli iscritti al PD e dunque, il loro NO avrebbe certamente un peso che potrebbe riverberarsi in tutta l’area degli indecisi. Anche perché le notizie circa il dissenso crescente nelle sedi di partito per la scelta governativa sono ormai quotidiane.
Ma in tutta la sua cialtroneria, l’idea di una discussione nella quale sono ammesse solo le posizioni concordanti racconta bene la paura degli argomenti, oltre che dei sondaggi. Del resto l’ANPI, già accusato duramente da Maria Etruria Boschi di deragliare dai suoi compiti istituzionali a seguito del Congresso dove l’associazione decise di schierarsi per il NO ad una riforma a dir poco sbagliata, ora dovrebbe rispettare persino la consegna del silenzio che i parvenu della Leopolda hanno deciso d’imporre a tutti coloro che non spingono sul carretto delle loro ambizioni personali e politiche.
Fa niente che si deve proprio ai partigiani la possibilità che in Italia sia permesso di tenere dibattiti politici con posizioni contrapposte, dal momento che senza la sconfitta del fascismo nessuno potrebbe parlare di niente. Emerge comunque, nella posizione dei dirigenti del PD, una mancanza di rispetto verso quelli che sono stati lo scheletro della nascita del PCI e dell’intera sinistra italiana e questo si accompagna ad un’idea arrogante e totalitaria della politica e ad una concezione proprietaria del partito.
Detti elementi dovrebbero far riflettere la cosiddetta “sinistra del PD”, che ritiene aver ancora margini di discussione interna, con tanto di “pontieri” dell’ultima ora impegnati a ridurre le distanze, a costruire ponti, insomma, tra due sponde che si vorrebbero lontane.
Sarebbe opportuno, per i professionisti del malumore interno perenne, dichiarare che dove non ha diritto di parola la storia, le radici, l’eredità morale del PCI e dei suoi derivati, nemmeno loro possono partecipare. Che i loro seguaci, a qualunque titolo, non parteciperanno a nessuna delle feste, che sembrano essere diventate feste riservate ai signorsì.
Sarebbe un modo efficace per ribadire la connessione sentimentale con i partigiani. L’ANPI, infatti, ove non venisse meno il divieto renziano, non parteciperà alle Feste dell’Unità. Scelta doverosa oltre che comprensibile. Non ebbero la tentazione del silenzio dinanzi all’occupazione militare nazifascista, figuriamoci di fronte all’occupazione di un partito orientato verso la deriva morale e politica che ne sancirà la caduta. Quando mai, del resto, la storia si è impressionata davanti alla cronaca?
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di Fabrizio Casari
E’ un voto netto, senz’appello, che indica due letture distinte ma non distanti. Quella di un voto contro Matteo Renzi e il PD, e l’affermazione decisa del M5S, che del governo Renzi è avversario acerrimo. Movimento 5 Stelle che da ieri smette di essere un’ipotesi, un’incertezza, una scommessa politica. E’ ora, a tutti gli effetti, una forza di governo, sebbene la sua affermazione risulti ancora a macchia di leopardo, con consensi importantissimi in alcune zone del paese e maggiori difficoltà in altre. Vedremo da oggi quale sarà la capacità di proporsi come alternativa di medio-lungo termine per un movimento che, difficile da inquadrare ideologicamente, rappresenta certamente una forza di rottura del sistema politico italiano.
Ma sarebbe un errore leggere solo come voto di protesta il consenso ai M5S: il voto di protesta si registra semmai nell’astensione, mentre il voto ai pentastellati appare piuttosto come consapevole, ragionato, che identifica nella novità politica una rappresentanza possibile. Il fatto che il Movimento abbia prevalso ovunque la partita lo abbia visto contro il PD, evidenzia che molti sono stati gli elettori della sinistra, privi di una casa di riferimento, che si sono recati a votare per loro. Perché i meno distanti, perché i più puliti, sono molte le sfaccettature che si sono mescolate in ogni voto di questa porzione significativa dell’elettorato con i 5 stelle.
Ma, prima ancora, perché è ormai persino epidermicamente evidente la percezione del PD renziano come partito di regime, come strumento della lotta per il potere senza nessuna pregiudiziale ideologica o politica. Da Mafia capitale al Nazareno, fino a Verdini, il PD appare ormai come un partito che ha un solo disegno strategico: il potere per il potere, a qualunque prezzo.
E che il voto della sinistra decida ancora lo dimostra la vittoria di Sala a Milano. Di fronte alla possibilità di rivedere la destra a Palazzo Marino scatta la disciplina repubblicana della sinistra radicale e degli indecisi della stessa area che vanno alle urne per votare la soluzione meno drammatica. A conferma di ciò c’è il margine di vittoria di Sala su Parisi, che equivale nelle percentuali al voto della sinistra radicale del primo turno. E indica nei numeri un elemento politico chiaro: la contrapposizione tra il PD e il Centrodestra è l’unica possibilità che vede il PD prevalere.
A conferma di ciò particolarmente significativa risulta l’affermazione di Torino, ottenuta con una candidata portatrice di un pedigree inequivocabilmente di sinistra. E non è casuale che la vittoria di Appendino nasce nei quartieri operai della città, nelle aree più colpite dalla deindustrializzazione, che ha costruito le nuove marginalità sociali. Sono le aree che si ribellano al tradimento della rappresentanza e votano contro una partito che ha scelto l’amministratore delegato della Fiat Marchionne come simbolo della nuova Italia da disegnare, mentre ha riservato un attacco senza sosta, pieno di furore ideologico, contro il sindacato e le rappresentanze dei lavoratori.
Torino è la città delle lotte operaie contro Valletta e Romiti e dunque c’è poco da fare: scegliere il modello Fiat come ispiratore del ridisegno del tessuto economico e sociale, comporta in automatico il rifiuto di chi, di quel modello, è la vittima principale benché non l’unica. Risuonano ora un tantino stonate, anche solo dal punto di vista scaramantico, le parole che Fassino dedicò al Movimento 5 Stelle al quale disse: “Fondi un partito e vediamo se è capace di raccogliere voti”. Ci riesce benissimo, a quanto pare.
La vittoria della Raggi a Roma, prima volta in assoluto di un sindaco donna, è eclatante, tanto per la novità politica che per le dimensioni numeriche, che riducono Giachetti a comparsa e il PD ad un ruolo minore nella città che da sempre lo ha visto come primo partito. D’altra parte, quanto fatto a Marino prima e il coinvolgimento del partito in Mafia Capitale, non potevano restare senza risposta da parte dell’elettorato progressista. E non è certo con Giachetti, espressione del sottobosco politico romano, con Orfini, burocrate listo all’asservimento ai potenti nel ruolo di commissario (ma di cosa e di chi?) o con l’ondivago ed opportunista Barca, tutti nelle vesti di improvvisati salvatori della patria, che si poteva risanare il PD romano.
A Napoli non c’è stata storia: il sindaco De Magistris ha doppiato Lettieri, espressione della borghesia napoletana dai guanti bianchi per coprire le mani sporche. Desta semmai interesse la percentuale del 67 per cento al sindaco di sinistra, che in due turni ha dapprima interrato il PD di Renzi e poi il centrodestra tutto.
Decisamente ridimensionato appare Salvini, che vede fermarsi a percentuali simili a quelle dei migliori anni di Bossi i consensi alla Lega e, soprattutto, con la sconfitta di Varese perde uno dei suoi feudi storici. L’esposizione mediatica perenne del portatore di felpe non è servita a trasformare le verbosità xenofobe in ipotesi politica. A commento della sconfitta di Parisi a Milano Salvini ha incolpato la scelta di un candidato moderato, dimenticando però che a Roma, dove la sua candidata era tutt’altro che moderata, semmai affine alla storia del fascismo sociale, ha comunque perso. Perché la destra, orfana della leadership di Berlusconi e responsabile di un ventennio negativo nella sua esperienza di governo è somma di voti ma non rappresenta più il sogno con il quale ha incantato milioni di elettori per più di venti anni.
E’ comunque Renzi il grande sconfitto. Lui, per una questione di scontrini, ha scatenato la cacciata indegna di Marino dal Campidoglio, che aveva vinto le elezioni con la stessa percentuale con la quale oggi la Raggi è Sindaco di Roma. Dopo aver perso Perugia, Venezia, la Liguria ed ora Roma e Torino, il Presidente del Consiglio registra un voto che, da nord a sud, si delinea come un voto contro lui e il suo governo.
Non ha solo la colpa di aver trinciato l'anima progressista del suo partito, ma quella di aver inserito con forza la meccanica del complotto, del sotterfugio e dell'ipocrisia come elemento centrale nella battaglia politica, l'affermazione evidente di come le leggi per i nemici si applicano e per gli amici s'interpretano. Da Letta a Marino e in numerose altre circostanze, la cifra etica di Renzi è questa.
Raccoglie, Renzi, l’opposizione trasversale dei diversi settori sociali, chi più chi meno colpiti dal suo governo che appare ormai come un regime. Un regime illegittimo perché mai votato che ha dedicato ogni sforzo a colpire l’area dei diritti sociali per avvantaggiare ulteriormente le sacche di privilegio.
Il suo è un governo che ha incrementato i regali al padronato e la disoccupazione per i lavoratori, che si burla dei pensionati, che toglie le tasse ai ricchi e le aumenta ai poveri, che ha tagliato la spesa sociale pur aumentando la spesa pubblica, che ha provveduto a sistemare la sua rete di compari ed amici nei posti chiave del potere economico, politico, finanziario e mediatico, in funzione della costruzione di una sua rete personale di potere, smentendo ogni promessa di meritocrazia a danno del sistema clientelare.
Invece di intercettare il malessere del Paese si è dedicato al benessere delle imprese amiche. Lo ha fatto con scorrettezza nella comunicazione e con le menzogne diffuse a reti unificate e senza contraddittorio. Il tutto con l’arroganza e la volgarità che sono il tratto distintivo del suo operare. L’abusivo ha abusato.
Nonostante il tentativo di scaricare su candidati e partito il peso della sconfitta, è lui lo sconfitto. Servirà ora sconfiggerlo anche nel suo progetto di riforma della Costituzione e della riforma elettorale, esempio plastico di disegno incerto ed arruffato scritto da incompetenti ma dal chiaro segno autoritario a beneficio dei poteri forti nazionali ed esteri, che vedono all’orizzonte l’azzeramento della centralità della rappresentanza e delle istituzioni. Sarà il referendum d’autunno a scrivere la parola fine all’avventura del rottamatore che finirà rottamato.