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di Fabrizio Casari
La proposta del governo Renzi per l’anticipo della pensione ai nati tra il 1951 e il 1953, più che una soluzione rappresenta un insulto alle condizioni e all’intelligenza dei pensionati. Regali a banche ed assicurazioni da un lato e prelievo ai pensionati dall’altro, la storiella della nonna che si gode i nipotini, pietra miliare della narrazione renziana della prima ora, rischia di diventare la storia dei nipotini che chiedono l’elemosina per i nonni.
Un’intera generazione si trova esodata o rischia di divenirlo: da un lato perché ritenuta troppo anziana per convenire alle aziende, che preferiscono i salari d’inserimento e le mille forme truffaldine che consentono di pagare salari da terzo mondo ai giovani, piuttosto che sostenere stipendi con seniority importanti. Dall’altra quella stessa generazione è ritenuta troppo giovane per accedere alla pensione anticipatamente e si sceglie quindi di lasciarli in mezzo al guado senza nemmeno una scialuppa.
Non si tratta di risorse disponibili. Ci sono scelte di politica finanziaria e di business che intervengono, più che valutazioni sulla sostenibilità del sistema. In effetti, proprio l’incertezza sul quando e quanto della pensione contribuisce a spingere l’accesso dei pensionandi alla previdenza privata complementare, che si alimenta dell’incertezza e/o dell’insufficienza di quella pubblica. La pensione si allontana, quindi, anche perché se si avvicinasse il business si ridurrebbe.
L’ultima trovata del governo Renzi s’inquadra esattamente in questo contesto. Si offre l’anticipo di tre anni a chi può andare in pensione a fronte di una decurtazione pesante del già scarso assegno ma solo tramite un prestito ventennale con le banche. Non sono possibili percorsi diversi.
E qui si pone la pietra miliare del provvedimento: le banche, che hanno ottenuto dalla BCE la liquidità che va obbligatoriamente immessa nel mercato dei prestiti, troverebbero in questa manovra un modo di erogare denaro, sicure del suo rientro. Si dirà: come fanno ad esserne sicure, visto che la salute non è detto consenta a tutti di arrivare agli 85 anni ed oltre? Non a caso per i mutui ci sono solo porte chiuse e il raggiungimento massimo di 75 anni di età è considerata questione raramente superabile; come mai allora in questo caso si può arrivare agli 85 anni? Presto detto: nel caso di morte prematura o d’inadempienza intervengono le assicurazioni a garanzia! Ovvero l’altra gamba del tavolo degli istituti di credito.
La domanda è d’obbligo: ma perché non viene data la possibilità, a chi può, di anticipare i tre anni di contributi rimanenti in un’unica soluzione e, con il conseguente ricalcolo dei coefficienti, offrirgli la pensionabilità immediata? In fondo chi può pagarsi i tre anni di contribuzione volontaria non avrebbe motivo di ricorrere al prestito oneroso. No, non è possibile: il prestito è obbligatorio per l’operazione. Invece il pagamento diretto dovrebbe essere almeno considerato. Il sospetto che l’operazione sia destinata a rimpinguare le casse di banche e di assicurazioni non può essere rimosso senza dare questa possibilità.
Sono infatti banche ed assicurazioni i due soggetti che guadagnano con l’operazione. La prima erogando prestiti con interessi con il denaro ricevuto dalla BCE, le seconde assicurando lautamente il rischio d’insolvenza causa decessi prematuri. Ma i pensionati non avrebbero nulla da guadagnare nell’operazione, visto che pagherebbero per venti anni l’anticipazione di tre! E per di più pagherebbero con interessi pesanti l’anticipazione del loro denaro.Dai calcoli dello stesso governo, la decurtazione doppia, ovvero la riduzione dell’assegno e il pagamento degli interessi, renderebbe l’anticipazione del pensionamento un salasso economico che ricadrebbe interamente sul loro reddito per venti, lunghissimi anni. Per fare un esempio, un assegno pensionistico previsto intorno ai 1500 euro al mese, diverrebbe di circa 1200. Il 30% in meno, quando in Francia e in altri paesi europei siamo intorno al 2-4% in meno all’anno.
La fascia media verrebbe privata complessivamente di una percentuale importante dell’assegno e si deve poi considerare che - dato mai sottolineato - ammesso che lo si scelga, contrarre un prestito ventennale su una pensione media, semplicemente impedirebbe di fatto ogni altra esposizione.
Quale? Per esempio un mutuo per acquistare una casa per sé o per i propri figli, come si usava quando l’Italia era un paese normale nel quale l’ascensore sociale esisteva. Questo si concretizzava anche nei sacrifici dei padri a vantaggio dei figli e l’entrata in pensione dei genitori costituiva uno snodo importante, data la certezza dell’entrata e l’arrivo del TFR maturato in una vita di lavoro.
L’incertezza congenita sui trattamenti pensionistici non può proseguire. Sarebbe ora di stabilire un principio: se si vuole rimanere al lavoro fino ai 70 anni, si è liberi di farlo, ma si può andare in pensione dopo almeno 35 anni di contributi versati, che quasi mai peraltro corrispondono agli anni lavorati (questi, di solito, sono molti di più). Ci si dovrebbe andare con i contributi maturati, eventualmente decurtati, o anche bloccandoli fino alla soglia della pensione minima prevista del ricalcolo attivo; ma va garantito che, a versamenti contributivi effettuati, corrisponda l’assegno previdenziale.
Solo il rapporto tra questi due elementi può essere considerato legittimo, espressione del patto che intercorre tra Stato e cittadino, con quest’ultimo che versa i suoi contributi previdenziali per riaverli al momento della pensione. Per 35 anni finanzia le casse dello Stato che li restituisce (in parte) spalmandoli su una media di venti anni. Il continuo allontanarsi dell’età pensionabile pone invece uno sbilanciamento grave tra gli anni di contributi e quelli della pensione e si configura come un vero e proprio scippo dello Stato ai danni dei cittadini. Che se avessero la possibilità di scegliere, ormai si guarderebbero bene dal versare contributi che mai più riceveranno.
E’ vero che la tenuta dei conti è problema serio, ma le proposte avanzate per favorire l’accesso anticipato (prima fra tutte quella dell’ex ministro del Lavoro Damiano) sono ragionevoli, compatibili e risolutive per portare in pochi anni a regime il meccanismo e garantire così il necessario equilibrio finanziario. Riportare le norme alla corretta dinamica tra contributi versati e pensione percepita, oltre che restituire ai cittadini la certezza del diritto, consentirebbe una ripresa rapida dei consumi interni, volano strategico dell’economia e motore indiscutibile per la ripresa, condizione decisiva per la crescita del PIL e la conseguente riduzione del deficit. Ma servirebbe un governo nel vero senso della parola.
Questo assemblaggio di parvenu non lo è. Incapace di costruire una politica economica, inabile a determinare una ristrutturazione logica del sistema di welfare, il governo Renzi continua a fare solo propaganda, unica cosa alla quale si dedica ininterrottamente.
Così tenta di spacciare l’APE come un’iniziativa a favore dei pensionati, nascondendo come essi sono solo lo strumento per una ulteriore operazione speculativa del comparto creditizio e assicurativo, in nome e per conto del quale questo governo lavora senza sosta e con ogni fantasia. Dov’è la novità?
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di Antonio Rei
Si sono accorti che possono perdere. Anzi, si sono accorti che, se non agiscono subito, probabilmente perderanno. E il pericolo non riguarda solo le prossime elezioni politiche, ma anche e soprattutto il referendum sulla riforma costituzionale. Per questa ragione Giorgio Napolitano e Matteo Renzi si sono abbandonati alle più sfrenate piroette sull’Italicum.
In un’intervista al direttore de La Repubblica, l’ex Capo dello Stato ha ammesso che diversi aspetti della legge elettorale “meritano di essere riconsiderati”, e ha addirittura invitato il Premier a effettuare “una ricognizione tra le forze parlamentari per capire quale possa essere il terreno d’incontro per apportare modifiche” al testo.
Parole cadute come manna dal cielo per Renzi, che da Bari si è sperticato nella più amichevole delle aperture: “La legge elettorale non piace? Che problema c’è - ha detto a margine dell’inaugurazione della fiera del Levante - discutiamone, ma facciamone una migliore”. Il Presidente del Consiglio ha addirittura precisato che l’Italicum si potrà modificare a prescindere dal verdetto della Corte Costituzionale: “Se serve, una riforma elettorale si può cambiare in tre, cinque mesi. Una legge costituzionale no”.
La fortuna di Napolitano e Renzi è che l’opinione pubblica, per sua natura, ha la memoria corta. Basta ricordare cosa dicevano i due fino a qualche tempo fa per farsi venire dei sospetti su questa improvvisa disponibilità al dialogo. Quando l’Italicum divenne legge, ad esempio, Napolitano sentenziò che si trattava di “un raggiungimento importante” e che “era inevitabile approvare” la legge così com’era, perché era stata prodotta “non in un mese, ma in oltre un anno”.
Renzi, invece, nei mesi scorsi ha ripetuto fino alla noia che l’Italicum era ormai immodificabile, se non altro perché in Parlamento non c’era una maggioranza in grado di votare un testo alternativo. Del resto, il suo governo era stato costretto a porre la fiducia sulla legge elettorale per farla passare, caso unico nella storia repubblicana e - secondo alcuni giuristi - addirittura illegittimo sotto il profilo costituzionale.
Ma come si spiega questa inversione di rotta così radicale da parte del Presidente emerito e del Premier? Nella stessa intervista a Calabresi, Napolitano spiega che con l’Italicum “si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti”. Un difetto che secondo l’ex Capo dello Stato è venuto alla luce solo di recente, perché “rispetto a due anni fa lo scenario politico è mutato: nuovi partiti in forte ascesa hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti” e si rischia “che vada al ballottaggio chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare”.
Ora, è indubbio che l’Italicum sia una legge assurda perché impone il bipolarismo in un sistema tripolare, distorcendo oltre ogni ragionevolezza il principio di rappresentanza con il ballottaggio e l’oceanico premio di maggioranza. Il punto è che questo scempio è sempre stato più che evidente: l’ex Presidente della Repubblica suggerisce che il nostro sistema politico sia diventato tripolare negli ultimi 24 mesi, ma non è così. Il Movimento 5 Stelle era più forte del centrodestra ancor prima che Napolitano finisse il suo novennato al Quirinale.
E comunque appare grave che Napolitano evidenzi come la riforma sia stata concepita per far vincere qualcuno e far perdere qualcun’altro. Infatti, bisognerebbe dire che l’Italicum è stato concepito quando Renzi - forte di un 40% incassato alle europee - si era convinto che qualsiasi consultazione non potesse concludersi che con un plebiscito in suo favore (peraltro, lo stesso delirio di onnipotenza lo ha portato a trasformare il referendum in un voto su stesso, un errore che ora cerca affannosamente di correggere).
Adesso, sondaggi alla mano, la situazione è davvero cambiata e Napolitano ha ragione ad avere paura: le elezioni amministrative hanno dimostrato che il ballottaggio favorisce i grillini (vedi Torino, dove Appendino ha trionfato malgrado il forte svantaggio rispetto a Fassino).
Eppure, la preoccupazione principale di Renzi e dei renziani non è nemmeno questa. Alle elezioni devono arrivarci, e per riuscirci devono superare lo scoglio del referendum, che con il passare del tempo sembra sempre più ostico.
In questa ottica, l’Italicum può essere usato come moneta di scambio per ottenere il sì dei bersaniani (che peraltro la riforma costituzionale l’hanno già approvata in Aula) e disinnescare le armi in mano a Massimo D’Alema, che con i suoi comitati per il No si sta preparando per far saltare gli equilibri nel partito.
Non a caso, Napolitano ha detto che per correggere la legge elettorale “c’è in questo momento una sola iniziativa sul tappeto: è di esponenti di minoranza del Pd, tra i quali Speranza”. Che sorpresa, eh?
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di Fabrizio Casari
Sarà Beppe Grillo, oggi, a chiudere la riunione fiume del Direttorio del M5S sul “caso Roma”. Ma quale che siano le deliberazioni che verranno adottate, una cosa è chiara: la guerra dei palazzinari e del partito trasversale delle olimpiadi, della gestione dei rifiuti e della manutenzione delle opere pubbliche, è ormai dichiarata. La dichiarazione di guerra del partito degli affari contro il Movimento 5 Stelle è stata affidata a giornali, radio e televisioni di proprietà o di complemento.
Il PD, che avrebbe milioni di motivi per tacere su Roma, urla e i giornali di riferimento del Premier ne diffondono la voce. La Sindaca, dal canto suo, pare prigioniera di errori suoi e dei suoi consiglieri. Insomma, Roma è stretta tra alcuni errori di gestione del governo della neo sindaca e l’aggressione mediatica della stampa di regime.
Ma il rumore di nemici non assolve gli errori grillini, frutto di mancanza di qualità politica e, ancor più, di comunicazione (anche se davvero il rapporto con i medi militarizzati non è questione da risolvere con qualche mago degli Uffici Stampa). L’impressione, fino ad oggi, è che il M5S e la stessa Raggi non avessero calcolato prima il peso di quello che sarebbe stata la reazione dei poteri forti alla vittoria di un governo contrario ai suoi interessi.
Governare Roma è certamente compito improbo. La mole dei problemi, che in una qualunque metropoli sono pari al suo volume, nel caso di Roma subiscono una ulteriore difficoltà per l’intreccio spaventoso di corruzione e incapacità delle amministrazioni precedenti. Il tutto poggiato su un letto di spine rappresentato da un debito mostruoso che oscilla tra i 13 e i 14 miliardi i Euro.
Dunque la neonata giunta Raggi ha di fronte a sé una difficoltà di gestione davvero impossibile da non riconoscere, su cui s’innesta una oggettiva scarsa esperienza. La competenza davvero non può essere rivendicata vista la sostanziale iniziazione del M5S e della sua Sindaca alla politica e all’amministrazione pubblica. Fatte salve infatti le legittime aspirazioni a governare da parte di chiunque, va ricordato - soprattutto ai Cinque Stelle - che il governo di un sistema complesso ha bisogno di competenze, professionalità, esperienze e abilità politiche.
Sì, politiche, perché diversamente da quanto sembra ormai essersi inculcatosi nel main stream in 20 anni di berlusconismo, governare non è questione tecnica, non è affare di gestione amministrativa. E’, invece, questione tutta politica, alla quale coerentemente si deve adeguare il modello di amministrazione e gestione che da quell’impostazione politica deriva. Certo, l’onestà e la trasparenza, cavalli di battaglia dei pentastellati, non possono mancare; ma queste sono una precondizione, non un programma di governo.
Ovviamente, nel contesto di una realtà criminogena ed incapace come quella dimostrata dalle amministrazioni che l’hanno preceduta, l’onestà del M5S ha giocato un ruolo preponderante al suo plebiscito, frutto soprattutto di un voto di castigo ai partiti “storici” più che una adesione al programma elettorale del M5S.Ebbene, secondo molti, i primi due mesi della Giunta Raggi non hanno corrisposto alle attese. Anche qui si sconta più del dovuto la retorica dei “cento giorni”; una vulgata diffusa che non ha nessun motivo d’esistere, ma non è questo il punto. Anzi, va detto che la pulizia della città è risultata riscontrabile quanto apprezzabile, e l’obiezione per la quale sarebbe stato semplice pulire la città in quanto ad agosto una parte degli abitanti vanno in ferie, è un’autentica sciocchezza.
Se i romani vanno in ferie (sempre meno e per minor tempo) l’affluenza dei turisti è decuplicata rispetto agli altri mesi dell’anno, il che, sul piano numerico, pareggia i conti e oltre. Poi andrebbe ricordato che la schifosa gestione dell’Ama da Alemanno in poi non s’interrompeva nemmeno ad agosto, dunque meglio sorvolare.
Eppure, lo spettacolo offerto dalle correnti interne ai 5 Stelle di Roma non entusiasma. Si tratta ora di ripartire facendo tesoro degli errori. Non è possibile affrontare la macchina amministrativa del Campidoglio senza competenze e relazioni, ma queste non vivono solo negli avanzi delle giunte precedenti. Ci sono competenze e professionalità sparse che possono essere utilizzate con profitto.
Sono molte le zone d’ombra su quanto avviene, a cominciare dal ruolo dell’ ANAC che non si capisce a che titolo viene consultata, così come non è chiaro il ruolo di alcuni personaggi della giunta, dal vicesindaco a scendere. Urge buon senso. Certo non si può chiedere alla Sindaca di costruire una giunta solo con il consenso del direttorio del movimento; ha tutto il diritto di scegliere i collaboratori per gli incarichi di natura fiduciaria, ma è pur vero che non può essere ignorata la sensibilità del Consiglio Comunale e, dunque, del Movimento romano.
E se non è realisticamente possibile ritenere obbligatoria l’adesione al M5S da parte di ogni assessore o funzionario chiamato a lavorare in giunta, nemmeno si può rivendicare il cambiamento e poi affidarsi a persone e curricula ampiamente sperimentati nel flagello delle precedenti amministrazioni.
In particolare desta inquietudine quel filo relazionale tra la Sindaca e gli studi legali Sammarco e Previti, che a Roma significano cose precise e affatto gradevoli. Seppure la Raggi ha avuto esperienze professionali legate ai due studi - il che non è certo un reato - essi non possono riprodursi oggi, meccanicamente, in un contesto che è, gioco forza, politico.Questa crisi d’inizio lavori dovrebbe anche contribuire all’apertura di una riflessione interna al Movimento Cinque Stelle. In particolare nel riconsiderare a norma di codici il valore giuridico dell’apertura di un fascicolo in un regime di obbligatorietà dell’azione penale. Una ipotesi di reato comporta quasi in automatico successivi avvisi di garanzia che, come indica la loro stessa denominazione, sono uno strumento di garanzia, non l’anticamera di una condanna.
Va dato atto ai 5 Stelle di non appartenere alla folta schiera di coloro per i quali la legge per nemici si applica e per gli amici si interpreta. Ma il procedimento è vario e non può essere ricondotto alla semplificazione forcaiola. Un Pm non è un giudice e sovrapporre i ruoli è un errore che non può divenire un programma.
Senza una condanna, almeno in primo grado, equiparare la persona che riceve un avviso di garanzia ad un colpevole, equivale a definire che l’accertamento giudiziario non ha valore, per il semplice fatto di essere inseriti in un inchiesta dovrà portare ad una sentenza di colpevolezza.
Così ottenendo, per converso e paradossalmente, l’affermarsi subdolo della teoria per la quale se tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è. Nemmeno i nemici.
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di Fabrizio Casari
Le lacrime, certo. Legittime, sacrosante. La commozione di un intero Paese che sa riconoscere il dolore e cerca di sopravvivervi è degna del massimo rispetto e considerazione. Poi però, passato il cordoglio, le domande, i dubbi e le osservazioni non possono restare nascoste dietro le lacrime. Diversamente si lascerebbero le responsabilità al fato o alla natura, che amica forse non è ma nemmeno le speculazioni lo sono.
Perché quando gli edifici pubblici, che andrebbero edificati con le norme antisismiche previste, vengono giù come in un orrendo videogame, è chiaro che la natura ci mette del suo ma la parte decisiva è la modalità con la quale si è costruito.
L’Italia è un paese ad alto rischio sismico. Per la placca tettonica africana ed euroasiatica che spingono da due punti diversi, per la conformazione stessa del suo assetto orografico e idrogeologico. Eppure non vi sono procedure di allarme sismico, di evacuazione e raccolta come in ogni paese a rischio sismico del mondo. Basta viaggiare per scoprire che ovunque vi sono, tranne che da noi. Dalle sirene per gli allarmi ai piani di evacuazione, all’illustrazione delle procedure da osservare, ogni città a rischio sismico prova a difendersi ed organizza simulazioni di sisma per evidenziare il grado di assimilazione da parte dei cittadini delle procedure da svolgere in caso di terremoto o altro.
Da noi no. Ad eccezione di alcune situazioni, non vi sono esercitazioni per la difesa civile; soprattutto nelle grandi città non c’è nemmeno idea di cosa sia una difesa civile e quanto riesca ad attutire nelle calamità. Tutto, nelle emergenze, è lasciato all’attività dei membri della Protezione civile e ai volontari, con i primi dotati di risorse insufficienti e i secondi che, pur straordinariamente generosi, non possono raggiungere i livelli di efficienza di una struttura preparata specificamente ad affrontare ogni tipo di calamità.
Già l’inesistenza di procedure e piani d’emergenza adeguati al rischio per la popolazione rende ingovernabile ciò che invece (le calamità) potrebbe essere in qualche modo controllato, comunque contenuto nei loro effetti, pare incredibile. Addirittura criminale risulta la riduzione del budget e del personale per i Vigili del Fuoco: che sono abili, competenti, autentico elemento imprescindibile della struttura di soccorso.
Nessun governo ha mai ritenuto di dover fare della prevenzione e dell’addestramento un punto importante del suo programma: certo, comporta spese ma, soprattutto, ricostruire è molto più profittevole che mantenere. La ricostruzione porta con sé affari fenomenali e circolazione orizzontale e verticale del denaro, con la possibilità di farne passare percentuali a soggetti diversi; dalla politica all’amministrazione, dalle imprese che a loro volta subappaltano all’indotto.
Le inaugurazioni e i tagli di nastri offrono poi il valore aggiunto del l’esibizione pubblica dei politicanti d’ogni colore (ammesso che vi sia ancora una percettibile differenza cromatica nel quadro politico). Ricostruire è quindi la parola d’ordine: significa gare, appalti, licenze, assegnazioni, denaro che circola e appetiti che si soddisfano, nell’attesa del suo ritorno sotto forma di voti.
La manutenzione, invece, non produce esibizioni di propaganda, non costruisce consenso emotivo. Quando viene fatta, vedi il caso di Norcia, salva interi paesi e migliaia di persone. Agisce in condizioni di normalità e prevede un piano strutturato d’interventi, cosa quanto mai latitante nel Paese. Ma la manutenzione rappresenta un’eccezione, non la norma. Anche per una idea sciagurata della salvaguardia dei suoli, c’è la riduzione al lumicino dei flussi di spesa destinati alla prevenzione, che sono insufficienti in generale, persino per pagare correttamente le imprese alle quali vengono appaltati i lavori, se queste sono serie.
Vige invece la logica del massimo ribasso, contorta e fintamente rigorosa, che in molti casi ha prodotto il proliferare di piccole-medie imprese a scarso valore tecnico ed alta scaltrezza, che in considerazione dei costi previsti sono però le uniche a poter accedere ai bandi.E qui c’è un altro aspetto non secondario: il procuratore della Repubblica ha detto che benché fossero stati costruiti con criteri antisismici, per come gli edifici pubblici sono franati l’impressione è che fossero stati costruiti con molta sabbia e ben poco cemento armato. Ovviamente utilizzare sabbia e non cemento produce una riduzione enorme dei costi a fronte di identica fattura per chi commissiona. In questo modo il costruttore realizza un surplus importante di profitto
Poi l’assenza di monitoraggio dei lavori, di controlli, di verifiche e collaudi, favorisce le condotte criminogene di personaggi che si definiscono imprenditori ma sono cialtroni la cui unica attività è l’accumulo illegittimo di denaro a spese di tutti. A definitiva conferma dell’inefficacia del codice degli appalti, basta vedere a chi questi sono andati, al giro corruttivo che hanno innescato ed ai risultati ottenuti.
E se questi sono elementi propri della deformazione del sistema, ci sono poi deformazioni strutturali della nostra mentalità che aggiungono problemi a problemi. Il nostro è un paese che è cresciuto con il mito della casa di proprietà. Se poi sono più di una, meglio ancora. Identificate come certezza per il futuro, segno di ricchezza, garanzia di ereditarietà, il mattone è stato, almeno fino alla crisi del 2008, considerato il bene-rifugio per eccellenza, divenendo il catalizzatore principale del risparmio privato. Nessun altro paese europeo ha la percentuale di proprietari di case come da noi (circa il 92 per cento delle persone abitano nella casa di proprietà).
Sarebbe lungo - e non è questa la sede - analizzare le ragioni ed il significato di questa che a molti appare come una idiosincrasia, ma tant’è. Il problema, però, è che il desiderio di possedere una casa e l’assenza di piani abitativi e degli investimenti per la politica residenziale pubblica, ha spinto milioni di persone in cerca di un tetto al “fai da te”; abusivo e senza logica, pericoloso per chi vi abita e per le zone circostanti.
Basta ricordare ciò che avvenne a Sarno o tenere a mente la situazione del Vesuvio, alle cui pendici abitano un milione di persone che potrebbero diventare vittime di una eruzione particolarmente violenta. Senza nessun piano regolatore, senza controlli e senza piani territoriali, sono nati e cresciuti decine di Comuni che non dovevano e non potevano nascere in una zona ad altissimo rischio.
L’Italia, oltre a 7500 km di coste in molti casi friabili, sopporta catene montuose, vulcani e fiumi insultati da decine di migliaia di abitazioni costruite fuori da ogni logica e capaci di determinare ulteriori e gravi problemi anche ai nostri flussi d’acqua. Che nessun governo ritenga di dover investire per il riassetto idrogeologico e per la costituzione di una unità speciale di sorveglianza tecnica diretta dalle Procure che vigili contro ogni abusivismo è grave.
Che fare per invertire la tendenza? Servirebbe concepire la nascita di un grande polo pubblico dell’edilizia destinato alla messa in sicurezza dell’Italia. Una sorta di nuova IRI, destinataria di ogni assegnazione di lavori per opere di pubblica utilità, a cominciare dal riassetto idrogeologico e dal consolidamento antisismico degli edifici nelle zone a più alto rischio ed alla manutenzione ordinaria e straordinaria.
Comporterebbe un piano nazionale di manutenzione del territorio, cui dovrebbe accompagnarsi un progetto di finanziamento straordinario per decine di migliaia di assunzioni di ogni figura professionale necessaria, dagli operai edili ai trasportatori, ai geologi, ai eometri e agli ingegneri civili. Sarebbe possibile tenere al di fuori del patto di stabilità l’investimento necessario e lascerebbe muti i criminali che si fregano le mani ad ogni tragedia pensando al business della ricostruzione.
Con le opere a carico dell'impresa pubblica finirebbero i finanziamenti a pioggia per le imprese degli “amici” e, con ciò, verrebbe dato un colpo mortale alla corruzione che alimenta il sistema degli appalti. Anche solo con questa consistente quota di risparmio di quei 60.000 miliardi di euro annui (che sono il costo della corruzione) si potrebbero trovare parte dei fondi necessari. E ciò potrebbe essere realizzato anche ignorando eventuali veti della UE, così come altri paesi hanno fatto. Avremmo più occupazione, più sicurezza e meno corruzione.
Vedremo se questa Paese che partorisce affaristi con il pelo sullo stomaco come gli Anemone, gaffeur come Vespa e Del Rio e idioti come quelli che propongono di scambiare italiani con stranieri nei centri di alloggio, sarà capace di battere i pugni sul tavolo, almeno una volta. Vedremo se arriverà il giorno che potremo gettare al vento il dogma delle privatizzazioni che tanti danni ha prodotto.
Perché più che a vivere con il terremoto, il movimento sussultorio e oscillatorio cui ci siamo abituati e quello della corruzione, che nel nostro Paese è passato dall’essere elemento di contorno a perno centrale delle politiche socioeconomiche. Per alimentarla si delineano molti più interventi che per eliminarla. La corruzione, insomma, non è più la conseguenza di un sistema, è ormai essa stessa sistema. E sotto le macerie restano i corpi e anche l’anima di un Paese che ha perso se stesso insieme ai suoi cari.
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di Antonio Rei
Inizia nel più solenne dei modi una stagione d’affanni per Matteo Renzi. Il Premier ospita oggi a Ventotene il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel per parlare di temi come la gestione dei migranti e la lotta al terrorismo. La scelta di tenere l’incontro nello stessa isola dove durante la guerra Spinelli, Rossi e Hirschmann scrissero il Manifesto “Per un'Europa libera e unita” voleva essere simbolica, evocativa, ma il risultato è una grottesca parodia del progetto concepito negli anni Quaranta.
Per dare almeno un’impressione di unità avrebbero potuto organizzare a Ventotene una riunione paneuropea. Invece, con involontaria onestà, hanno scelto l’isola del Manifesto unitario per celebrare la frammentazione che governa l’Ue, dove le decisioni vengono prese dal direttorio franco-tedesco e ratificate dagli altri Paesi.
A questi vertici di comando partecipava negli anni passati anche il Regno Unito, che però si è auto-escluso con il voto in favore di Brexit. All’Italia è stato concesso il posto lasciato libero da Londra, ma la posizione del nostro Paese rimane più che mai subalterna, soprattutto dopo gli ultimi sviluppi del quadro economico.
Al di là dell’agenda ufficiale, è facile prevedere che il Presidente del Consiglio sfrutterà la riunione di oggi per affrontare in modo informale il nodo della flessibilità sul deficit che l’Italia si prepara anche quest’anno a chiedere alla Ue. In sostanza, il Premier vuole convincere Merkel e Hollande a concedergli le risorse aggiuntive necessarie alla nuova legge di Stabilità, che a sua volta dovrà servire da grimaldello per la vittoria del Sì al referendum costituzionale.
Il problema è che, numeri alla mano, il nostro Paese sta andando peggio della media europea e difficilmente potrà meritare altri sconti. Secondo la stima preliminare dell’Istat, nel secondo trimestre il Pil è rimasto al palo: +0% (non accadeva dal 2014), contro il +0,1/+0,2% che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva detto di attendersi soltanto lo scorso 27 luglio.
A questo punto il governo dovrà ridurre le stime di crescita per il 2016 nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza che sarà pubblicata entro settembre. Ormai “siamo decisamente sotto l’1%”, ha anticipato il viceministro Enrico Morando. Lo scorso aprile, invece, il governo aveva previsto di chiudere quest’anno con una crescita dell’1,2% e un deficit al 2,3% del Pil, un dato inferiore al 3% imposto dalle regole di Maastricht, che perciò avrebbe consentito buoni margini di flessibilità.
Tuttavia, poiché il Pil aumenterà molto meno del previsto - e contemporaneamente non arriverà alcun taglio alla spesa pubblica - il rapporto deficit-Pil sarà superiore alle attese, limitando molto la flessibilità che potrà essere concessa al nostro Paese. Come anticipato dal Corriere della Sera, gli scenari peggiori contenuti nello stesso Def prevedono per il 2016 una crescita dello 0,7% e un deficit al 2,9% del Pil. Una vera batosta per la manovra pro-referendum.Renzi potrebbe aggirare l’ostacolo portando gli elettori alle urne sulla riforma costituzionale entro fine novembre, cioè prima del via libera alla legge di Stabilità 2017. In questo modo potrebbe sfruttare l’effetto annuncio, promettendo mance, mancette e favori sparsi (ai pensionati, ad esempio, ma anche ai lavoratori dipendenti e agli autonomi) per accumulare voti in favore del Sì, salvo poi fare marcia indietro in fase di chiusura della manovra.
Del resto, lo spettacolo è già iniziato. Il Premier non spreca un’occasione per ribadire che “il governo continuerà ad abbassare le tasse con la nuova legge di Stabilità”. È il nuovo mantra renziano, che tutti i membri dell’Esecutivo hanno il compito di ripetere fino alla noia, ovviamente senza mai entrare nel merito. Si dice che la priorità sarà data allo stop dell'incremento automatico dell'Iva e al taglio dell’Ires, mentre l’intervento sull’Irpef (ben più costoso) sarà rinviato ancora.
Basterà per comprare il voto degli italiani, molti dei quali vogliono bocciare la riforma della Costituzione per semplice ostilità nei confronti di questo governo? Probabilmente no. Sempre che da Ventotene non arrivi un salvagente per il maldestro inquilino di Palazzo Chigi.