di Antonio Rei

Il primo maggio appena trascorso ha avuto un significato diverso da quelli degli anni passati. Oltre alla protesta, ai cortei, agli scontri fra polizia e antagonisti e alla retorica da concertone, quest’anno la festa dei lavoratori si è arricchita di una funzione nuova, la demistificazione. E c’è stato anche un colpo di scena: ad alzare il velo sulle panzane rassicuranti che il governo racconta in tema di lavoro non sono stati solo i sindacati, ma anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Senza abbracciare l’entusiasmo farneticante dell’Esecutivo, il Capo dello Stato ha parlato ieri di “ripresa contenuta” e ha detto chiaramente che non possiamo “accontentarci di numeri ancora limitati rispetto alla dimensione del problema”, perché “creare lavoro è un dovere costituzionale”. Il tema vede “al centro i giovani – ha sottolineato Mattarella – che pagano alla crisi un prezzo insostenibile e rischiano di subire con l'esclusione di oggi anche un'ipoteca negativa sulla loro condizione di domani. Non possiamo assistere inerti allo spreco di larga parte delle nuove generazioni. Un Paese che escludesse i giovani, o li inserisse in modo precario, si condannerebbe da solo, svilirebbe i suoi talenti e paralizzerebbe il rinnovamento sociale. Un Paese che non includesse i giovani sarebbe fermo e frenare o ritardare l'indipendenza dei giovani ha effetti negativi”.

Il Presidente ha chiesto al governo di fare di più anche per il lavoro femminile, per combattere il caporalato e per aumentare la sicurezza: sono “inaccettabili” – sottolinea Mattarella – le morti sul lavoro, che tra l’altro l’Inail ha confermato essere in aumento. Insomma, un discorso forse non originale, ma che di certo ha poco a che vedere con “il cambio di verso” su cui si favoleggia a Palazzo Chigi.

Gli stessi temi sono riecheggiati con accenti molto polemici contro il governo nella piazza di Cgil, Cisl e Uil a Genova. Tre i temi chiave della manifestazione: contrattazione, occupazione e pensioni, in un clima di rinnovata compattezza sindacale rilanciata dalle piattaforme unitarie sulle riforme di pensioni e contratti. “Da questo palco diamo appuntamento per le lotte che faremo successivamente: non pensi il governo che ci rassegniamo”, ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso, che si è espressa in modo netto contro il Premier, cui ha ricordato che ad aver creato più precarietà sono norme varate da “quelle stesse maggioranze che oggi garantiscono questo Governo”. Già nei giorni scorsi Camusso aveva bollato come “stucchevoli” i commenti del Presidente del Consiglio sull’occupazione, perché la crescita è minima: “Non è cambiato nulla di strutturale”. 

In tempi renziani, in effetti, la sfida della demistificazione ha acquisito più importanza che in passato, perché la propaganda del governo propone ogni giorno una rappresentazione deformata dell’Italia e – per capacità di penetrazione – riesce forse a battere perfino il marketing berlusconiano dei primi anni Duemila.

Le fandonie raccontate quotidianamente da Renzi, Poletti e Padoan non sono facili da smascherare, perché possono contare sull’appoggio involontario dell’Istat, che negli ultimi mesi – a parte una battuta d’arresto a febbraio – ha pubblicato dati in miglioramento sul mercato del lavoro.

Il problema su cui non si insisterà mai abbastanza è che quelle cifre sono drogate, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni a tempo indeterminato, perché beneficiano degli effetti del maxi-sconto garantito l’anno scorso ai datori di lavoro che stabilizzavano i dipendenti (bonus che quest’anno esiste ancora, ma è dimezzato).

Intendiamoci, la situazione di molti lavoratori è migliorata rispetto ai tempi dei co.co.pro selvaggi, ma i casi personali non devono far perdere di vista il punto centrale della questione: si è trattato di una misura estemporanea e molto costosa, non del frutto di una politica economica strutturata. Le aziende non hanno assunto perché nel frattempo sono ripartiti consumi, produzione e investimenti, ma solo per sfruttare un vantaggio fiscale che oggi già non esiste più.

Chi sta entrando o deve ancora entrare nel mercato del lavoro non ha e non avrà la stessa fortuna di chi è stato assunto nel 2015, come dimostra la proliferazione dei voucher per il lavoro a ore, nuova frontiera del precariato. Nel frattempo, però, l’articolo 18 è stato abolito davvero, rendendo più semplici i licenziamenti senza giusta causa. E in questo caso sì, la misura è strutturale.

di Antonio Rei

Informatico, imprenditore, politico astuto, teorico del web come strumento di democrazia diretta, burattinaio occulto e dispotico, delirante sciamano. Si possono trovare mille definizioni per Gianroberto Casaleggio, scomparso ieri a Milano all’età di 61 anni al termine di una lunga malattia, ma nessuna prevale sulle altre. Per comodità, da anni i giornali italiani hanno optato per l’etichetta di “guru”. Un termine polivalente, difficile da decifrare e perciò adatto al cofondatore del Movimento 5 Stelle, una delle figure più ambigue, contraddittorie e a suo modo potenti degli ultimi anni della politica italiana.

Al di là delle narrazioni di colore proliferate sul suo conto, il contributo più importante che Casaleggio ha portato alla vita del nostro Paese è stata probabilmente la comprensione di quanto il web sia decisivo per orientare le opinioni di massa, e dunque per fare politica. Mentre celebrava il funerale della vecchia comunicazione di partito (ma anche del marketing berlusconiano in stile Publitalia), Casaleggio ha trasformato il blog di un comico carismatico nel punto di riferimento ideologico di milioni di italiani, dando vita a un’entità che in pochi anni si è affermata come seconda lista più votata d’Italia. Il Movimento 5 Stelle era al 2% nel 2011, mentre oggi viaggia intorno al 28%.

Un’impresa del genere poteva riuscire soltanto pescando voti ovunque, da Casa Pund ai centri sociali, dagli incolti a Dario Fo. In questo modo la creatura di Casaleggio e Grillo ha assunto i connotati di un populismo apolide, connotandosi come unica entità trasversale tra le forze populiste europee. I fondatori del Movimento ritennero non aver più alcun senso dividere l'Italia fra destra e sinistra e sono arrivati al successo catalizzando la rabbia di milioni di persone, interpretando in modo efficace il sentimento di rifiuto nei confronti dei partiti, dei sindacati e di qualsiasi forma di rappresentanza. Hanno dato un’alternativa ai delusi di destra e di sinistra, facendo leva su un traboccante e più che giustificato misto di indignazione e frustrazione.

A questo punto rimane da capire quale direzione prenderà il Movimento. Se la scomparsa di Casaleggio fosse arrivata qualche anno fa, probabilmente la compagine grillina si sarebbe sfarinata dando ragione ai molti (e per ora smentiti) profeti di sventura che con snobismo si ostinano a considerare M5S una meteora nella politica italiana. La progressiva strutturazione del Movimento, invece, ha creato nel tempo una vera e propria classe dirigente pentastellata, capeggiata da Luigi Di Maio e da Alessandro Di Battista. E’ evidente che adesso il ruolo dei due grillini di punta si rafforza e che entrambi dovranno dimostrare di saper esercitare un ruolo di guida anche in assenza della silenziosa regia dall’alto di Casaleggio.

Ma anche se ci riusciranno non sarà sufficiente: statuto alla mano, i parlamentari di M5S non possono rimanere in carica per più di due mandati, perciò tanto Di Maio quanto Di Battista dovranno abbandonare la politica al più tardi nel 2023, ancora giovani. E’ probabile che, se l’istinto di sopravvivenza prevarrà su quello autolesionista, il Movimento si troverà costretto a modificare questa norma, rassegnandosi all’assioma secondo cui in qualsiasi agglomerato politico le élites direttive si formano sempre e comunque, spontaneamente. Forse non sono auspicabili, ma risultano comunque necessarie e inevitabili.

Rifiutare questo principio significa inseguire l’ideale della società che seleziona al proprio interno i migliori e si autogoverna attraverso la rete, realizzando in terra (peggio, in Italia) il massimo della trasparenza e della democrazia. Era esattamente questa l’utopia propugnata da Gianroberto Casaleggio, che a volte si lasciava andare ad accenti talmente predicatori e strampalati da far nascere il sospetto di uno strisciante intento canzonatorio.

Lo stesso guru, però, era anche accusato da più parti di esercitare il potere nel Movimento senza alcuna democrazia né trasparenza, come dimostrano le innumerevoli epurazioni ordinate dall'alto e la disinvoltura della Casaleggio Associati nella gestione della posta elettronica dei parlamentari grillini. Era forse questa la più grande contraddizione di Casaleggio. Uno scontro di mondi opposti che strideva ancor più dei capelli da hippie sul completo da manager.

di Giovanni Gnazzi

Le polemiche sulla trasmissione di Bruno Vespa, Porta a Porta, sono ormai ricorrenti come a conduttore conviene. L’occasione ultima è stata offerta dall’intervista di Vespa al figlio di Totò Riina, capo dei Corleonesi nella stagione tremenda dell’offensiva mafiosa, ovvero gli anni ’80 e ’90. Il giornalista abruzzese ha ritenuto di dover ospitare il figlio del boss mafioso che, bontà sua, ha risposto da figlio di mafioso alle domande (invero non particolarmente incisive) riguardo vita, opere e soprattutto omissioni del padre.

E, cosa non secondaria, ha presentato il suo libro prossimo all’uscita e, dunque, trova in Vespa un naturale interlocutore. Che è persino costretto a far vedere prima domande e risposte per ottenere la liberatoria. Glorioso esempio di schiena dritta, momento epico per il giornalismo italiano.

Il figlio di Riina ha il merito di non tentare di presentarsi per quello che non é. Mafioso il padre, da mafioso si atteggia il figlio. Nessun infingimento se non quello di non presentarsi con lupara e coppola. Non presenta un finto quanto inutile pentimento per le malefatte del padre, che invece assolve.

E sebbene tenti di dipingere il boss dei corleonesi come un uomo a metà strada tra il padre modello e un candidato alla beatificazione, per quanto provi maldestramente a vendere una presunta innocenza riguardo le stragi e l’assassinio di Falcone e Borsellino, non tenta di proporre niente di nuovo rispetto alla dinamica processuale. Non era questo lo scopo dell’intervista, anche perché non é questo lo scopo del libro a cui l’intervista è funzionale.

Ma certo le sue parole rimbombano nelle teste dei familiari delle vittime di mafia e vedere seduto nel salotto dei plastici dell’ammiraglia Rai un personaggio che, sia pure da figlio, difende le malefatte del padre, non può certo annoverare la trasmissione di mercoledì sera come una pietra miliare del servizio pubblico. "Le colpe dei padri - diceva Gramsci - non debbono ricadere sui figli". Ma quando i figli le riconoscono come tali e non come meriti.

Le critiche per aver dato udienza ad una interpretazione negazionista ed assolutoria delle gesta criminali di Totò Riina sono arrivate da ogni dove. Quelle più aspre sono arrivate dalla Presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, ma questo era prevedibile, sia per il ruolo istituzionale che per la sensibilità politica dell’ex ministro della salute.

Quello che invece non torna è la presunta correttezza dell’operazione che rivendica Vespa. Perché è lo stesso Vespa che, all’epoca dei cosiddetti “anni di piombo”, rivendicava con altrettanta baldanza il rifiuto da parte dei media di pubblicare i comunicati dei gruppi armati clandestini, Brigate Rosse in testa, perché non si voleva fungere da “cassa di risonanza” ai proclami di chi combatteva contro lo Stato.

Si può ritenere quella posizione giusta o sbagliata e, a distanza di anni, è persino possibile insistere a dispetto della storia politica e giudiziaria intervenuta. Ma non si capisce la ragione di una diversità di trattamento, sebbene è noto come gli editori di riferimento di Vespa non siano stati un esempio di equidistanza tra i due fenomeni.

Non si tratta di porre distinguo tra mafia e terrorismo, che non avrebbero senso, viste le diverse origini, ragioni, scopi e modalità con le quali hanno attraversato la storia del nostro paese. D’altra parte, tentare di associare un fenomeno di rottura dell’establishment (almeno nelle intenzioni) ad uno che invece ne rappresenta da sempre il consolidamento, sarebbe esercizio sperticato quanto sciocco.

Resta invece il doppio standard "giornalistico" che però con il giornalismo ha poco a che fare. E' piuttosto quasi una involontaria ammissione di sentieri del cuore inconfessabili, di verità indicibili. Per questo il contorto sentiero della professione s’inerpica sulla curva prima della quale c’è il mestiere da embedded e subito dopo la passione civile a un tanto al chilo. Per il terrorismo si usa quindi l’elmetto, per la mafia insorge invece un sobbalzo, chiamato affettuosamente diritto di cronaca.


di Antonio Rei

Il caso di Federica Guidi, che si è dimessa da ministro dello Sviluppo economico per una telefonata in cui assicurava al suo fidanzato il via libera a un emendamento che lo avrebbe favorito, dimostra perlomeno tre cose. Primo: la pretesa superiorità morale della società civile rispetto alla classe politica tradizionale è una delle panzane più grandi che ci abbiano propinato negli ultimi anni, perché l’odore dei soldi piace proprio a tutti, anche a chi si autoassegna la patente di civiltà.

Secondo: il principio per cui “bisogna essere del campo per operare nel campo” - nello specifico bisogna essere un imprenditore per governare lo Sviluppo economico - è qualunquista e miope, perché non tiene conto della molteplicità di conflitti d’interessi diretti e indiretti che si presentano a ogni passo compiuto (per non dire a ogni emendamento approvato). Terzo: la propaganda renziana de “la volta buona” e dell’Italia che “cambia verso” è una favola che non potrebbe essere più lontana dalla realtà.

Al nostro Presidente del Consiglio va riconosciuto un talento nel marketing superiore perfino a quello del fu Silvio Berlusconi. Grazie alla sua propensione al mestiere di imbonitore riesce serenamente a vendere come vittorie e prove di trasparenza persino le figure più meschine e losche. Da Washington, infilando nel calderone un riferimento all’ex ministro Cancellieri, Renzi ha avuto la faccia di presentare la Guidi come innocente martire del buon costume politico: “Non ha commesso nessun tipo di reato o di illecito - ha scandito il Premier - ma ha fatto una telefonata inopportuna, e se prima per telefonate inopportune non ci si dimetteva, ora ci si dimette. L’Italia non è più quella di una volta”.

Invece sì, Matteo, è esattamente quella di una volta. Anzi, forse è perfino peggiore, visto che nepotismo e conflitti d’interessi trovano spazio in questo governo ancor più che negli Esecutivi di Monti e Letta.

A ben vedere, le dimissioni della Guidi non sono arrivate affatto per trasparenza, ma per ben altri motivi. Innanzitutto, l’ormai ex ministro dello Sviluppo economico era un frutto del patto del Nazareno: voluta da Berlusconi per tutelare gli interessi delle imprese, Guidi non solo non faceva parte del Giglio magico, ma era probabilmente il ministro di cui Renzi avrebbe fatto a meno più volentieri.

E così sono bastati pochi secondi per imporle le dimissioni. Un passo indietro decisivo in chiave elettorale per il Pd, visto che, con le amministrative alle porte, l’eventuale tentativo di resistenza da parte della Guidi avrebbe pompato ancora più benzina nel serbatoio delle opposizioni, grillini in testa. Ma soprattutto, l’immediatezza con cui Palazzo Chigi ha imposto alla Guidi di lasciare l’incarico è servita a evitare che l’ennesimo scandalo di questo governo arrivasse a lambire per l’ennesima volta l’adorata Maria Elena Boschi.

Proprio la difesa a spada tratta del ministro delle Riforme è uno dei cavalli di battaglia in cui si manifesta tutto il talento renziano nell’arte di presentare come immacolate anche le operazioni più torbide. Secondo il Premier, Guidi sarebbe colpevole solo di una telefonata inopportuna, non di aver brigato per far passare un emendamento che favoriva la Total e indirettamente anche l’azienda del suo fidanzato: “È un provvedimento giusto - sostiene il presidente del Consiglio - perché porta posti di lavoro. Una cosa sacrosanta”.

E siccome dalla telefonata incriminata usciva fuori chiaro e tondo il nome della Boschi, Renzi si è affrettato a inventare spiegazioni: “È naturale che il ministro dei Rapporti con il Parlamento firmi un emendamento del governo”. La diretta interessata ha aggiunto il carico con la consueta arroganza: “Lo rifirmerei domani mattina”.

In realtà quell’emendamento non era affatto sacrosanto e la firma del ministro delle Riforme non era per nulla un atto dovuto. Al contrario, la misura pro-Total era stata bloccata alla Camera dal un deputato di Sel, Filiberto Zaratti, e dal presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci (Pd), che lo aveva ritenuto inammissibile. Non è perciò un caso che, nella telefonata col fidanzatino, Guidi lasci intendere che il via libera all’operazione dipenda essenzialmente dal consenso della Boschi.

Ma il nome di “Mariaele” non si può infangare, questo Renzi non lo permetterà mai. Non si è parlato di “opportunità politica” quando Boschi figlia sedeva nel Consiglio dei ministri che ha deciso il destino di Banca Etruria, l’istituto che Boschi padre ha contribuito a mandare in bancarotta, probabilmente truffando anche migliaia di risparmiatori. Se ne era parlato invece, oltre che per la Guidi, anche per l’ex ministro Maurizio Lupi, che pur non essendo mai indagato fu costretto a dimettersi dal governo Renzi per il Rolex e i lavori offerti a suo figlio dall’imprenditore Stefano Perotti, coinvolto nell’inchiesta sugli appalti delle “grandi opere”.

Insomma, il metro di valutazione cambia a seconda di quale ministro finisce nei guai. Ma nepotismo e conflitti d’interessi no, quelli davvero non cambiano mai.

di Fabrizio Casari

Un insuccesso senza precedenti quello registrato domenica dal Partito Democratico. Sono stati infatti solo 50.000 i votanti, ovvero la metà del minimo stabilito dallo stesso PD per poter definire un successo le primarie a Roma per la scelta del candidato a sindaco. Se si pensa che gli iscritti del PD a Roma sono oltre diecimila, si capisce subito come sia ridotta al minimo la capacità di appeal elettorale. La diserzione in massa del popolo del PD dalle primarie ha fatto sì che in un deserto di affluenza vincesse un candidato renziano.

Il fatto che Giachetti abbia ottenuto più del 60 per cento delle preferenze conta poco e, semmai, indica quello che tutti i romani sanno: ovvero che a votarlo è corso l’apparato e che con il solo apparato non vincerà le elezioni, bene che andrà arriverà secondo.

Una affluenza così scarsa indica come prima cosa che Giachetti non scalda i cuori di nessuno. più che vincere in realtà ha messo la prima pietra sulla sua sconfitta. Risulta quindi ridicolo il giubilo dell’ex sottopancia di Rutelli, che parla di vittoria e afferma di lavorare alla formazione della squadra di governo. Al più conferma la stoffa da esaltato perdente che da sempre lo caratterizza.

A ben vedere, Giachetti avrebbe dovuto riconoscere il dato politico oggettivamente inequivocabile, che associa il suo nome ad una sicura disfatta per il partito e per lui stesso e, quindi, rinunciare alla corsa. Ma l’ambizione lo divora e dunque ne verrà divorato. Pazienza, nessuno si straccerà le vesti per lui. La questione più generale certifica invece che il PD ha perso il suo popolo e la sconfitta che l’attende a Roma è solo l’ultima e più grave conseguenza dell’avvento di Renzi alla guida del partito.

Sono diversi i fattori che hanno concorso al raggiungimento del flop, che è politico, non solo numerico. Il primo di essi ha a che vedere l’immagine del PD dopo lo scoperchiamento del pentolone putrido di Mafia Capitale, nel quale le cosche del partito romano bollivano allegramente insieme all’immondizia neofascista e al clan degli affari che, trasversalmente, apparecchiava, consumava e digeriva l’indigesto banchetto. Il partito erede dell’etica berlingueriana prima e interprete forse abusivo di Mani Pulite poi, ha ampiamente dimostrato come il nuovo corso della governabilità con chiunque e comunque, con ogni mezzo, lecito o illecito, non trova sostegno in un elettorato che ha già preso le misure a questo nuovo abito e non vuole più indossarlo.

Privo di riferimenti ideali quanto si vuole, ma con ancora gli anticorpi dell’impegno civile, il popolo del centrosinistra indica con il ritiro dalla contesa la giusta distanza da un apparato di potere privo di ogni disegno che non sia quello di sopravvivere a se stesso.

Il secondo elemento che spiega la diserzione in massa dalle primarie ha invece a che vedere con quanto avvenuto con la giunta Marino, dove il PD, capitanato dal voltagabbana Orfini, passato nello sbattere di ciglia da oppositore a presidente in cambio di obbedienza, ha deciso di spodestare il sindaco eletto con una maggioranza assoluta dai romani, che prima ancora l’avevano scelto (contro il volere dell’apparato correntizio del partito) come il candidato a sindaco per una stagione di rinnovamento dopo le sconcezze della giunta Alemanno (per i romani Aledanno). La scelta di cacciare Marino è stata devastante sia nel merito che nel metodo.

Nel merito perché è stato costruito un battage politico-mediatico di sapore complottistico destinato a danneggiare l’immagine di un Sindaco che non distribuiva prebende. La goffagine di Marino aveva poi condito la polpetta avvelenata concepita a Palazzo Chigi, dove si voleva la caduta della giunta romana come prova generale del Partito della Nazione e per dare in pasto al clan composito degli affari romani i fondi del Giubileo. Nel metodo perché la scelta di recarsi dal notaio a sottoscrivere il ritiro della fiducia dei consiglieri e, così, la caduta della giunta, è apparso squallido, stupidamente burocratico da un lato e indicatore del clima di sfiducia esistente all’interno degli stessi consiglieri, che non si fidavano l’uno dell’altro.

Il terzo elemento è l’evidente risposta della base del partito alla mutazione genetica in corso nel Pd. La versione renziana del partito, il suo progetto politico centrista di co-governo con la destra di cui il bullo toscano si fa interprete, rende chiaro come a suo tempo l’accusa al governo Letta di stare in maggioranza con la destra fosse solo strumentale. Letta governava con la destra in assenza di una maggioranza alle Camere, mentre Renzi, che sposta ogni giorno di più il partito su posizioni neocentriste, vede proprio nel governo con la destra il suo orizzonte strategico.

Godono sia il M5S che Marchini, mentre il centrodestra assapora con gioia il risultato di Giachetti, ritenendolo giustamente il primo vero sondaggio elettorale. Per la sinistra romana, per quello che ne rimane, c’è ora una dead line obbligata: trovare la strada per azzerare ogni polemica e differenza, abbandonare ogni protagonismo e calcolo di bottega, scegliere un cammino unitario e un nome che sappia rappresentare una prospettiva di governo progressista per la città. Forse è già tardi, quasi certamente il tentativo è superiore alle forze disponibili, ma non si può voltare la testa altrove. Questo è l’appuntamento chiave anche per una sinistra del PD che voglia alzare la testa.

Ci si deve provare. Per non riportare Roma sotto le unghie dei fascisti che l’hanno spolpata, per evitargli figli di papà ai quali ogni idea rischia di perdersi nel vuoto della mente, e per salvaguardarla da improbabili tribuni con amicizie indebite, che hanno preferito candidarsi alla sconfitta piuttosto che rendere elastiche le regoline interne di un movimento che parla di Europa mentre vive in Corea del Nord. Roma si trova così a rappresentare i difetti peggiori della politica italiana. E non lo merita.


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