di Fabrizio Casari

Le parole di Maria Elena Boschi sui “veri” partigiani sono state definite una gaffe. Ma una sufficiente conoscenza della terminologia e della avvocatessa improvvisatasi politica risultano soprattutto una manifestazione di ignorante arroganza. Cosa ne sa, infatti, la Boschi di partigiani? Di cosa sono stati, quali ideali hanno rappresentato e quale eredità politica, valoriale ed ideale hanno trasmesso? La Boschi non è mai stata di sinistra nemmeno un paio d’ore della sua vita, pur avendo, in passato, indicato cosa sia di sinistra e cosa non lo sia. Davvero l’imperizia diviene arroganza e l’arroganza rivela il ridicolo.

E’ stravagante, ma in qualche modo sintomatico, che Maria Elena Boschi sia un Ministro della Repubblica. Uscita dal guscio del giglio magico senza nessuna storia politica alle spalle - a meno di non voler considerare tale la sua attività a sostegno degli affari legali del mondo renziano - al suo attivo la Boschi ha certamente una conoscenza profonda di Matteo Renzi. Ha poi una certa esperienza in fallimenti bancari (anche per saperi di famiglia che si tramandano), conosce bene i movimenti di Verdini, ma davvero non ha nemmeno idea di cosa siano state le grandi ideologie che hanno attraversato il Novecento. Più che di partigiani è di partigianeria che la Boschi s’intende, basta ascoltarla. In totale assenza di cultura politica, l’inclinazione al sottobosco clientelare appare l’unico tratto identitario effettivamente riscontrabile in parole e atti del Ministro delle Riforme.

Nessuna gaffe quindi: le sue parole sui partigiani sono state un vero e proprio attacco politico, effettuato semmai con l’ignoranza crassa e l’arroganza di cui la signora ha già dato mostra in diverse occasioni. Un attacco politico volgare, (una consuetudine per il giglio magico) resosi necessario per reagire alle deliberazioni congressuale dell’Anpi. L’organizzazione che rappresenta la storia dei partigiani italiani, ha infatti celebrato il suo Congresso nel quale ha deciso, con soli 3 voti contrari, di impegnarsi nella battaglia per il NO al referendum sulle riforme istituzionali e l’annessa legge elettorale di Renzi portate avanti per delega proprio dal Ministro Boschi. La decisione dell’Anpi si spiega facilmente, è quasi un atto dovuto, proprio perché l’eredità storica dei partigiani è tutta scritta nella Costituzione italiana che, dal bislacco, pasticciato e autoritario disegno governativo, verrebbe lacerata inesorabilmente.

La Ministro Boschi dovrebbe studiare la storia partigiana, vi troverebbe il momento più alto della dignità italiana, l’epopea di uomini e donne che riscattarono l’onore della nostra nazione. A coloro si deve rispetto sacro e riconoscenza infinita e, se proprio non li si vuole prendere a modello, certo in nessun caso è possibile usarli per le cialtronerie politicanti.

Purtroppo però l’attacco della Boschi è stato sferrato proprio per il valore politico e simbolico dell’Anpi al disegno renziano di stravolgimento della Carta. E qui che il governicchio in carica si sente all’angolo. Perché nel suo progetto di riforma emerge proprio un’idea accentratrice ed autoritaria, che si esprime attraverso il dominio del potere esecutivo su quello legislativo, squilibrando i poteri e così alterando il disegno istituzionale e lo stesso equilibrio democratico del Paese.

Non si tratta di conservatorismo nell’architettura istituzionale, la questione riguarda la democrazia italiana. L’ascesa di Renzi ha già dimostrato come si costituiscono i governi nelle stanze dei poteri forti, senza nemmeno il fastidio del voto. Nell’ipotesi contenuta nella Riforma i prossimi governi si ritroverebbero eletti con manciate di voti ma dotati di poteri straordinari e privi di controllo da parte dei due rami del parlamento. Il che aprirebbe ulteriormente la strada ai governi delle elites.

Per questo la posizione dell’associazione che rappresenta i partigiani, cioè chi ha versato il sangue per la liberazione dalla dittatura fascista alleata della monarchia e ha reso possibile la stesura di una delle costituzioni più belle del mondo, non poteva essere diversa da quella di un rotondo ed inappellabile NO. Ovviamente il colpo è stato duro: la scelta dell’ANPI rappresenta un rifiuto che pesa sul piano della connessione sentimentale della storia partigiana con il popolo della sinistra e con lo stesso PD. Ma per un governicchio che ha deciso d’immolarsi sulla riforma e che vede speranze solo nel compattamento di quello che resta dell’elettorato del PD, la posizione dell’Anpi complica ulteriormente il cammino.

Da qui le parole acidognole della Boschi, puntualmente stigmatizzate. Renzi è dovuto correre ai ripari, cercando di annacquarle in un indistinto afflato polemico che, a sentir lui, accompagnerebbe la vicenda quotidiana del suo partito. La verità è che il terreno comincia a mancare sotto i piedi: l’aver legato la sopravvivenza del suo ruolo politico all’andamento del referendum si è già dimostrato un azzardo pericoloso, una sorta di riflesso pavloviano, una manifestazione bullesca della velocità propagandistica con la quale tace su ciò che fa e annuncia ciò che non fa.

Pentitosi così già abbondantemente di aver pronunciato l’ultimatum, Renzi si trova ora a dover tentare di recuperare spazi nell’area del suo stesso elettorato. Ripetutamente sollecitato dagli editorialisti dei media allineati, cerca quindi di ridurre il livello di coinvolgimento di coloro che, anche oltre il merito della ferita alla Costituzione, si recheranno a votare per il solo piacere di vederlo cadere e andarsene, con la speranza che ameno questa volta, faccia quello che annuncia: ovvero che in caso di sconfitta davvero salga sul Colle a presentare le dimissioni. Maria Elena Boschi, com’è accertato, è legata a vario titolo al Presidente del Consiglio e, come ha dichiarato ieri, ne seguirà la sorte. C’è già stato nella storia un esempio di tanta devozione. Ma allora si trattò di tragedia, oggi di farsa.

di Antonio Rei

È bello che, prima di andarsene, abbia fatto in tempo a vedere approvata la legge sulle unioni civili. Un ultimo schiaffo a quell’Italia democristiana che lui tanto odiava e contro cui ha combattuto dal dopoguerra fino a ieri. Il nome di Marco Pannella, scomparso a 86 anni, è inevitabilmente collegato alle battaglie per i diritti civili.

Non è sua la legge sul divorzio, che ha origini socialiste, ma l’immagine del fondatore del Partito Radicale Italiano rimarrà per sempre associata alla bocciatura del referendum che quella legge voleva abolire. Era il 1974 e fu il primo grande NO con cui gli italiani pretesero di vivere in una società più moderna, libera anche di non essere cattolica in cabina elettorale. Il secondo arrivò sette anni dopo e confermò la legge sull’aborto.

In entrambi i casi Pannella era in prima linea, anche se non da solo come provava a far credere. Senza i milioni di voti comunisti, socialisti e della sinistraextraparlamentare, Fanfani avrebbe vinto e con lui il medioevo patriarcale. In seguito, pur ritenendo l’arma referendaria strumento fondamentale per la politica del cambiamento, riconobbe come validi solo quelli indetti da lui, per gli altri non ci fu posto.

Com’è naturale fra esseri umani, di fronte alla morte la memoria si concentra sui ricordi migliori. Ma a essere onesti i motivi per criticare il leader radicale non sono mai mancati: dall’incredibile piroetta che lo portò dal flirt continuato con la sinistra ad allearsi con Berlusconi nel 1994 (nel 2006 invece sostenne Prodi) alla posizione interventista nelle guerre in Kosovo e in Afghanistan (“sono per la non violenza - diceva - non sono pacifista a oltranza”). Riteneva Israele modello di democrazia nonostante i crimini di guerra nei Territori Occupati e vedeva nel modello politico statunitense un faro indiscusso.

Incarnava l’autentico spirito liberale, che prevedeva totale libertà nei diritti civili e assoluta noncuranza per quelli sociali. Questo e altro era Marco Pannella. L'abuso di digiuni e referendum decretò il venir meno del valore insito nei due tipi di battaglie, ma di questo non se ne preoccupava. Gestì il Partito Radicale come creatura propria, inaugurando nela politica italiana il modello di partito personale, poi seguito da tanti. Le candidature di Cicciolina e l’adesione di Pasquele Barra (il killer cutoliano detto o’animale) al suo partito radicale rappresentavano insieme la provocazione a fini mediatici e il gusto del donchisciottismo che accompagnavano il suo ego senza freni.

A destra hanno preso le distanze dalla sua battaglia per la legalizzazione delle droghe (nel 1975 si fece arrestare per aver fumato uno spinello in pubblico), a sinistra lo hanno rimproverato quando parlava di amnistia e indulto per porre rimedio alle condizioni di vita disumane nelle carceri italiane (l’ultima causa per cui si è battuto anima e corpo).

Pannella, in verità, non stava simpatico a nessuno, ma non aveva nemmeno delle vere e proprie nemesi. Forse perché i suoi voti facevano comodo e non avevano una collocazione precisa. Forse perché scegliere come nemico un paladino dei diritti civili non è mai sembrata a nessuno una mossa astuta. Forse, e sarebbe bello pensare che sia stato soprattutto per questo, perché Pannella nonostante tutto incuteva un rispetto bipartisan.

Giusta o sbagliata che si considerasse la sua crociata del momento, bisognava rendergli merito di una coerenza esasperata, spinta in continuazione fino al parossismo dei vari scioperi della sete e della fame. Il primo digiuno gandhiano, per intenderci, risale al 1968, quando venne arrestato a Sofia per aver contestato l'invasione sovietica della Cecoslovacchia.

Anche la sua vita privata è stata fuori dagli schemi: "Sono legato da 40 anni alla mia compagna Mirella - ha detto - ma ho avuto tre o quattro uomini che ho amato molto. E con lei non c'è stata mai nessuna gelosia". Nessun figlio dalla moglie, ma forse più d'uno, per sua stessa ammissione, frutto di amori giovanili.

Una libertà sessuale che faceva il paio con la sua convinta professione di fede anticlericale. Per questo, fra le tante manifestazioni di cordoglio scontate, vale la pena di leggere soltanto quelle dei cattolici. Dalla Santa Sede, il portavoce padre Federico Lombardi lo ricorda con queste parole: "Marco Pannella è una persona con cui ci siamo trovati spesso in passato su posizioni discordanti, ma di cui non si poteva non apprezzare l'impegno totale e disinteressato per nobili cause". E L'Osservatore romano parla di un protagonista di "battaglie talvolta discutibili", comunque "sempre in prima linea contro fame e pena di morte".

Le sue idee si potevano contestare, ma chi arriva a farsi ricoverare in ospedale pur di continuare a lottare per la causa che ha scelto merita considerazione a prescindere. In questo senso si può dire che quella di Pannella sia stata una figura di rara potenza nella storia politica italiana. Il grimaldello che ha aperto una crepa nel muro che separava - e in parte ancora separa - la coscienza democristiana dal progresso civile.

di Carlo Musilli

“Le persone prima dei profitti”. Dietro a uno striscione con questa frase sabato scorso migliaia di persone hanno sfilato a Roma per manifestare contro il Ttip. L’acronimo inglese sta per “Transatlantic trade and investment partnership”, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che da tre anni è al centro di un negoziato in larga parte segreto fra Unione europea e Stati Uniti.

L’accordo “calpesta i diritti dei lavoratori e mette a rischio la qualità dei prodotti - ha detto durante la manifestazione Susanna Camusso, numero uno della Cgil – e se non si arriverà alla firma sarà una vittoria”. Il ministro delle politiche agricole, Maurizio Martina, ha risposto che “l’Italia non rinuncerà mai ai suoi standard di sicurezza alimentare per fare un accordo commerciale”.

Le rassicurazioni e la cautela del governo italiano, fin qui favorevole al trattato tanto voluto da Barack Obama, arrivano dopo la netta marcia indietro della Francia: “Allo stato attuale del confronto - ha detto la settimana scorsa il presidente François Hollande - diciamo no all’intesa, perché non siamo per un sistema di libero scambio senza regole. Non accetteremo mai che vengano messi in discussione i principi essenziali della nostra agricoltura e della nostra cultura. E che non ci sia una totale reciprocità nell’accesso agli appalti pubblici”. Con queste parole il capo dell’Eliseo spera evidentemente di acquisire consenso in vista delle presidenziali di maggio 2017.

E come in Francia, anche in Germania l’anno prossimo sarà importante dal punto di vista elettorale. Non a caso, benché Angela Merkel sia ufficialmente favorevole al Ttip, nei giorni scorsi il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel - numero due del Governo e ministro dell’Economia - ha detto che “se gli Stati Uniti non vogliono aprire davvero il loro mercato, noi non abbiamo alcun bisogno di questo accordo commerciale”. Lo scorso ottobre, a Berlino, contro il Ttip scesero in piazza ben 250mila persone.

Quanto agli Stati Uniti, Donald Trump, a un passo dalla nomination repubblicana per la Casa Bianca, ha già dichiarato tutta la sua ostilità per il progetto di accordo transatlantico e perfino la sua omologa sul versante democratico, Hillary Clinton, sembra meno convinta che in passato.

Insomma, il clima internazionale intorno al Ttip è cambiato. Nato per favorire gli affari delle multinazionali (soprattutto americane), il trattato si sta trasformando a poco a poco in uno strumento di politica interna, uno spauracchio contro cui agitare il vessillo del protezionismo per stimolare l’orgoglio e l’approvazione degli elettori. Proprio per evitare il rischio di questa metamorfosi, l’amministrazione Obama avrebbe voluto chiudere il negoziato entro il 2015, ma le trattative si sono allungate e a questo punto una chiusura in tempi brevi sembra davvero improbabile.

Del resto, l’impopolarità del Ttip non fa che aumentare con il passare del tempo. Le critiche contro il trattato che dovrebbe creare l’area di libero scambio più grande del pianeta (oltre 800 milioni di persone coinvolte) sono diverse. La polemica più nota è quella contro la clausola Isds (Investor-State Dispute Settlement), che consentirebbe alle multinazionali di fare causa ai singoli Paesi davanti a una corte arbitrale per contrastare le leggi (comprese quelle in materia sanitaria o ambientale) potenzialmente dannose per i loro profitti. Nel 2010 e nel 2011, ad esempio, Philip Morris ha portato in tribunale l’Uruguay e l’Australia per le loro campagne anti-fumo, mentre nel 2009 il gruppo svedese Vattenfall ha intentato una causa da 1,4 miliardi di euro contro il governo tedesco per la sua decisione di abbandonare l’energia nucleare.

Secondo i critici, inoltre, il Ttip metterebbe a rischio servizi pubblici e welfare, favorendone la privatizzazione, e affosserebbe le piccole e medie imprese, che si ritroverebbero disarmate di fronte alla concorrenza delle multinazionali. Dal punto di vista dei consumatori, invece, il pericolo è legato al fatto che negli Usa per una serie di prodotti non vale il principio di precauzione che vige in Europa a tutela della salute dell’ambiente, ovvero in America la valutazione dei rischi non avviene prima dell’immissione sul mercato. Questo potrebbe avere conseguenze sulla diffusione nell’Ue di Ogm, carne trattata con ormoni, pesticidi e altro ancora.

All’inizio di maggio Greenpeace Olanda ha pubblicato 240 pagine di documenti segreti interni al negoziato che dimostrano proprio quanto sia agguerrita la battaglia degli Usa contro il principio di precauzione europeo.

L’obiettivo è consentire la vendita nei Paesi Ue di quei prodotti americani che non rispettano le norme europee in tema di salute, ambiente e protezione dei consumatori. In particolare, per convincere Bruxelles ad allentare le maglie sull’importazione di prodotti agricoli e alimentari made in Usa, Washington avrebbe minacciato di bloccare le facilitazioni sulle esportazioni per l’industria automobilistica europea.

Altri punti di dissidio riguardano il mercato dei cosmetici (gli americani fanno pressing contro le norme europee che vietano la sperimentazione sugli animali), le regole di standardizzazione tecnica, dei servizi finanziari e degli appalti pubblici.

È evidente perciò che gli interessi al centro del negoziato sul Ttip sono esclusivamente quelli delle grandi aziende, in particolare statunitensi, che puntano a migliorare il fatturato aggirando le regole soprattutto in materia ambientale e sanitaria. Il nuovo clima di ripensamento sui termini dell’accordo è legato essenzialmente a ragioni elettorali dei singoli Paesi e fin qui ha permesso di rinviare la firma, ma purtroppo questo non significa che il progetto sarà abbandonato. Come in tutti i balletti che si rispettino, ogni momento è buono per una nuova piroetta.

di Antonio Rei

Il primo maggio appena trascorso ha avuto un significato diverso da quelli degli anni passati. Oltre alla protesta, ai cortei, agli scontri fra polizia e antagonisti e alla retorica da concertone, quest’anno la festa dei lavoratori si è arricchita di una funzione nuova, la demistificazione. E c’è stato anche un colpo di scena: ad alzare il velo sulle panzane rassicuranti che il governo racconta in tema di lavoro non sono stati solo i sindacati, ma anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Senza abbracciare l’entusiasmo farneticante dell’Esecutivo, il Capo dello Stato ha parlato ieri di “ripresa contenuta” e ha detto chiaramente che non possiamo “accontentarci di numeri ancora limitati rispetto alla dimensione del problema”, perché “creare lavoro è un dovere costituzionale”. Il tema vede “al centro i giovani – ha sottolineato Mattarella – che pagano alla crisi un prezzo insostenibile e rischiano di subire con l'esclusione di oggi anche un'ipoteca negativa sulla loro condizione di domani. Non possiamo assistere inerti allo spreco di larga parte delle nuove generazioni. Un Paese che escludesse i giovani, o li inserisse in modo precario, si condannerebbe da solo, svilirebbe i suoi talenti e paralizzerebbe il rinnovamento sociale. Un Paese che non includesse i giovani sarebbe fermo e frenare o ritardare l'indipendenza dei giovani ha effetti negativi”.

Il Presidente ha chiesto al governo di fare di più anche per il lavoro femminile, per combattere il caporalato e per aumentare la sicurezza: sono “inaccettabili” – sottolinea Mattarella – le morti sul lavoro, che tra l’altro l’Inail ha confermato essere in aumento. Insomma, un discorso forse non originale, ma che di certo ha poco a che vedere con “il cambio di verso” su cui si favoleggia a Palazzo Chigi.

Gli stessi temi sono riecheggiati con accenti molto polemici contro il governo nella piazza di Cgil, Cisl e Uil a Genova. Tre i temi chiave della manifestazione: contrattazione, occupazione e pensioni, in un clima di rinnovata compattezza sindacale rilanciata dalle piattaforme unitarie sulle riforme di pensioni e contratti. “Da questo palco diamo appuntamento per le lotte che faremo successivamente: non pensi il governo che ci rassegniamo”, ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso, che si è espressa in modo netto contro il Premier, cui ha ricordato che ad aver creato più precarietà sono norme varate da “quelle stesse maggioranze che oggi garantiscono questo Governo”. Già nei giorni scorsi Camusso aveva bollato come “stucchevoli” i commenti del Presidente del Consiglio sull’occupazione, perché la crescita è minima: “Non è cambiato nulla di strutturale”. 

In tempi renziani, in effetti, la sfida della demistificazione ha acquisito più importanza che in passato, perché la propaganda del governo propone ogni giorno una rappresentazione deformata dell’Italia e – per capacità di penetrazione – riesce forse a battere perfino il marketing berlusconiano dei primi anni Duemila.

Le fandonie raccontate quotidianamente da Renzi, Poletti e Padoan non sono facili da smascherare, perché possono contare sull’appoggio involontario dell’Istat, che negli ultimi mesi – a parte una battuta d’arresto a febbraio – ha pubblicato dati in miglioramento sul mercato del lavoro.

Il problema su cui non si insisterà mai abbastanza è che quelle cifre sono drogate, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni a tempo indeterminato, perché beneficiano degli effetti del maxi-sconto garantito l’anno scorso ai datori di lavoro che stabilizzavano i dipendenti (bonus che quest’anno esiste ancora, ma è dimezzato).

Intendiamoci, la situazione di molti lavoratori è migliorata rispetto ai tempi dei co.co.pro selvaggi, ma i casi personali non devono far perdere di vista il punto centrale della questione: si è trattato di una misura estemporanea e molto costosa, non del frutto di una politica economica strutturata. Le aziende non hanno assunto perché nel frattempo sono ripartiti consumi, produzione e investimenti, ma solo per sfruttare un vantaggio fiscale che oggi già non esiste più.

Chi sta entrando o deve ancora entrare nel mercato del lavoro non ha e non avrà la stessa fortuna di chi è stato assunto nel 2015, come dimostra la proliferazione dei voucher per il lavoro a ore, nuova frontiera del precariato. Nel frattempo, però, l’articolo 18 è stato abolito davvero, rendendo più semplici i licenziamenti senza giusta causa. E in questo caso sì, la misura è strutturale.

di Antonio Rei

Informatico, imprenditore, politico astuto, teorico del web come strumento di democrazia diretta, burattinaio occulto e dispotico, delirante sciamano. Si possono trovare mille definizioni per Gianroberto Casaleggio, scomparso ieri a Milano all’età di 61 anni al termine di una lunga malattia, ma nessuna prevale sulle altre. Per comodità, da anni i giornali italiani hanno optato per l’etichetta di “guru”. Un termine polivalente, difficile da decifrare e perciò adatto al cofondatore del Movimento 5 Stelle, una delle figure più ambigue, contraddittorie e a suo modo potenti degli ultimi anni della politica italiana.

Al di là delle narrazioni di colore proliferate sul suo conto, il contributo più importante che Casaleggio ha portato alla vita del nostro Paese è stata probabilmente la comprensione di quanto il web sia decisivo per orientare le opinioni di massa, e dunque per fare politica. Mentre celebrava il funerale della vecchia comunicazione di partito (ma anche del marketing berlusconiano in stile Publitalia), Casaleggio ha trasformato il blog di un comico carismatico nel punto di riferimento ideologico di milioni di italiani, dando vita a un’entità che in pochi anni si è affermata come seconda lista più votata d’Italia. Il Movimento 5 Stelle era al 2% nel 2011, mentre oggi viaggia intorno al 28%.

Un’impresa del genere poteva riuscire soltanto pescando voti ovunque, da Casa Pund ai centri sociali, dagli incolti a Dario Fo. In questo modo la creatura di Casaleggio e Grillo ha assunto i connotati di un populismo apolide, connotandosi come unica entità trasversale tra le forze populiste europee. I fondatori del Movimento ritennero non aver più alcun senso dividere l'Italia fra destra e sinistra e sono arrivati al successo catalizzando la rabbia di milioni di persone, interpretando in modo efficace il sentimento di rifiuto nei confronti dei partiti, dei sindacati e di qualsiasi forma di rappresentanza. Hanno dato un’alternativa ai delusi di destra e di sinistra, facendo leva su un traboccante e più che giustificato misto di indignazione e frustrazione.

A questo punto rimane da capire quale direzione prenderà il Movimento. Se la scomparsa di Casaleggio fosse arrivata qualche anno fa, probabilmente la compagine grillina si sarebbe sfarinata dando ragione ai molti (e per ora smentiti) profeti di sventura che con snobismo si ostinano a considerare M5S una meteora nella politica italiana. La progressiva strutturazione del Movimento, invece, ha creato nel tempo una vera e propria classe dirigente pentastellata, capeggiata da Luigi Di Maio e da Alessandro Di Battista. E’ evidente che adesso il ruolo dei due grillini di punta si rafforza e che entrambi dovranno dimostrare di saper esercitare un ruolo di guida anche in assenza della silenziosa regia dall’alto di Casaleggio.

Ma anche se ci riusciranno non sarà sufficiente: statuto alla mano, i parlamentari di M5S non possono rimanere in carica per più di due mandati, perciò tanto Di Maio quanto Di Battista dovranno abbandonare la politica al più tardi nel 2023, ancora giovani. E’ probabile che, se l’istinto di sopravvivenza prevarrà su quello autolesionista, il Movimento si troverà costretto a modificare questa norma, rassegnandosi all’assioma secondo cui in qualsiasi agglomerato politico le élites direttive si formano sempre e comunque, spontaneamente. Forse non sono auspicabili, ma risultano comunque necessarie e inevitabili.

Rifiutare questo principio significa inseguire l’ideale della società che seleziona al proprio interno i migliori e si autogoverna attraverso la rete, realizzando in terra (peggio, in Italia) il massimo della trasparenza e della democrazia. Era esattamente questa l’utopia propugnata da Gianroberto Casaleggio, che a volte si lasciava andare ad accenti talmente predicatori e strampalati da far nascere il sospetto di uno strisciante intento canzonatorio.

Lo stesso guru, però, era anche accusato da più parti di esercitare il potere nel Movimento senza alcuna democrazia né trasparenza, come dimostrano le innumerevoli epurazioni ordinate dall'alto e la disinvoltura della Casaleggio Associati nella gestione della posta elettronica dei parlamentari grillini. Era forse questa la più grande contraddizione di Casaleggio. Uno scontro di mondi opposti che strideva ancor più dei capelli da hippie sul completo da manager.


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