di Antonio Rei

A suo tempo Matteo Renzi disse di ispirarsi a Martin Luther King, ma sembra che come modello non disprezzi affatto Silvio Berlusconi. Ieri il Premier ha annunciato che con la nuova legge di Stabilità sarà alzata da mille a 3mila euro la soglia oltre la quale non è possibile pagare in contanti. La minoranza sinistrorsa del Pd non ci sta, sostenendo - a ragione - che con questa misura s'incoraggia l'evasione fiscale. I berluscones, invece, esultano, visto che proprio Forza Italia aveva proposto l’innalzamento del limite ai contanti in un progetto di legge presentato solo pochi giorni fa.

Il provvedimento in questione fa il paio con la legge che prevede l'obbligo per i professionisti di dotarsi del Pos: una norma che non prevede alcuna sanzione per chi sgarra, e perciò è sostanzialmente ignorata da tutta Italia. Ci sarebbero poi da citare il taglio del cuneo fiscale dell'anno scorso, che in realtà è stato un regalo alle imprese, e la cancellazione delle tasse sulla prima casa in arrivo quest'anno (socialmente iniquo perché avvantaggia i ricchi), che richiama le vecchie campagne elettorali forzaitaliote su Ici e Imu. Insomma, ce n'è abbastanza per considerare la politica fiscale di Renzi di ispirazione marcatamente berlusconiana.

Ma torniamo al tetto ai contanti. Nel tempo è cambiato varie volte, ma negli ultimi cinque anni ha subito solo riduzioni (nel maggio 2010 da 12.500 a 5mila euro, nell’agosto 2011 da 5mila a 2.500 euro e nel dicembre 2011 da 2.500 a mille euro). Il taglio progressivo puntava a incoraggiare l’utilizzo della moneta elettronica in funzione anti-evasione. Non sorprende quindi che l'ultimo premier ad alzare questa soglia sia stato proprio Berlusconi, il quale la riportò da 5mila a 12.500 euro nel giugno del 2008.

Finché a metterla in atto è Forza Italia, una misura del genere non sorprende: in fondo l'ex Cavaliere - che, ricordiamo, è un pregiudicato per frode fiscale -  ha raggiunto il successo politico solleticando in ogni modo la pancia degli evasori italiani. Se però la stessa proposta arriva da un leader che si definisce di sinistra, qualche dubbio nasce. Intendiamoci, la soglia di 3mila euro è lontana da quella berlusconiana di 12.500, ma il valore politico della mossa non cambia.

Renzi sostiene che il ritocco in arrivo porterà il limite di tracciabilità italiano alla media europea. In realtà andrà oltre, almeno se prestiamo fede uno degli emendamenti alla manovra, in cui si legge che "l’innalzamento della soglia di tracciabilità a 2.000 euro significa portare l’utilizzo del contante alla media europea". La proposta di modifica in questione è firmata da Viviana Beccalossi, Stefano Saglia e Maurizio Bianconi, tre deputati del gruppo Pdl. Il governo Pd, quindi, non solo accontenta i berlusconiani, ma va addirittura oltre le loro richieste.

Al di là dell'inutile diatriba sulla media, è vero che nell’Unione europea le leggi di 11 Stati (tra cui Germania e Olanda) non prevedono alcun limite all’uso dei contanti, mentre in altri casi il tetto è più alto di quello attualmente in vigore nel nostro Paese (ad esempio in Francia e in Spagna, rispettivamente a 3mila e 2.500 euro).

Ma il punto è un altro. Il confronto con il resto dell'Ue ha poco senso per due ragioni: primo, nessun altro Paese europeo ha un livello di evasione fiscale nemmeno lontanamente paragonabile a quello dell'Italia; secondo, da noi l'utilizzo della moneta elettronica è assai meno diffuso che nel resto dell'Unione.

Perché mai allora varare una misura che scoraggia la tracciabilità e incoraggia a fare i furbi? Semplice: per rispondere al pressing di commercianti e albergatori, che, soprattutto in vista del Giubileo, chiedono di facilitare i pagamenti alla moltitudine di turisti stranieri in arrivo. Una giustificazione di un naif che fa quasi tenerezza. Quanti saranno mai i pellegrini devoti che girano con in tasca un rotolo di banconote da 3mila euro e - chissà perché - non hanno in portafoglio né un bancomat né una carta di credito?

di Fabrizio Casari

Ignazio Marino si è dimesso. L’annuncio del ritiro della fiducia da parte della sua maggioranza consiliare e di alcuni dei suoi assessori ha messo fine all’avventura romana di un Sindaco certamente onesto ma ancor più incapace, una sorta di Forrest Gump all'amatriciana. Non poteva esserci epilogo diverso. La campagna mediatica e politica orchestrata da uno schieramento trasversale non gli ha risparmiato niente e lui, da parte sua, non si è fatto mancare niente.

Dalla sua Panda ai viaggi, alle finte spese di rappresentanza, l’imperizia amministrativa, l’incapacità di governare i processi di modernizzazione della città, la ripetuta, sfacciata reiterazione della sua autoreferenzialità, persino il rifiuto di ammettere come i suoi comportamenti furbetti male, molto male, si sposassero con il rigore etico che andava professando, sono stati l’epitaffio della sua giunta.

Ma non si tratta di imperizia da gaffes ripetute, di noncuranza, di gestione ridicola della sua comunicazione; non solo almeno. Per la scarsa conoscenza dell’amministrazione pubblica in generale e di Roma in particolare, per non cercare le risorse necessarie alla sfida della discontinuità nel personale politico più avveduto e fuori dai giochi, Marino non è riuscito a formare una squadra di persone capaci e politicamente allineate ed ha subito una controffensiva da parte da interi blocchi dell’apparato amministrativo e finanziario della città. Palazzinari e gruppi imprenditoriali che con gli appalti pubblici si sono gonfiati le tasche ed hanno schiantato quelle dei romani, non potevano tollerare che il business del Giubileo non prendesse la strada delle loro aziende.

Per una città con 9 miliardi di Euro di debiti e nessuna intenzione da parte del governo di farvi fronte, Marino era diventato un lusso intollerabile. Vuoi per una città lurida, per il suo sistema ormai in panne, per i suoi problemi ulteriormente aggravatisi durante la sua giunta, era ormai diventato oggetto di scherno in tutti e 22 i municipi della città. Che si divide tra coloro che pensano che sia scemo ma onesto e chi crede che sia onesto ma scemo. E questo è stato possibile sia per la gogna mediatica e politica, sia perché egli stesso ha aggiunto gaffes di comunicazione imperdonabili, riuscendo persino a farsi smentire da Papa Francesco, molto prima e più autorevolmente dei ristoratori della Capitale.

Un Papa che certo non ha gradito l’impegno del Sindaco sui matrimoni gay e più in generale sui diritti civili, che nella città di San Pietro assumono ovviamente un livello di sfida maggiore che in qualunque altro posto e che, proprio per questo, dovrebbero essere supportate da solidità politica e sostegno del suo schieramento più che da foto ridanciane.

Che sia stato colto con le mani nella marmellata sui conti del ristorante e che abbia fornito la scusa che il PD cercava per farlo dimettere e sostituirlo con qualcuno più in linea con il partito di nuova foggia verdiniana, assume un significato quasi simbolico. Ai commercianti simpatico non era di sicuro, visto che la campagna contro “tavolino selvaggio” gli aveva procurato non poche ostilità in una città che ormai vede aumentare a dismisura gli investimenti nel settore della ristorazione, che trasformano lo spazio pubblico in business privato. Nemmeno i vigili urbani si sono risparmiati, dopo che il Sindaco aveva proceduto con l’iniziativa legale contro i furbetti della malattia. O i dipendenti del Comune, che ritengono di aver diritto al salario accessorio per accedere agli uffici.

Ha provato - e in minima parte c’è riuscito - a dare discontinuità, ma provare ad intaccare privilegi ed abusi non è mai semplice e in una città come Roma lo è ancor meno. Quel 63,93 per cento con cui s’impose per la successione di Alemanno, il peggiore dei sindaci della storia della città, era stata una vera e propria investitura popolare, l’esito di una battaglia contro tutto il centro destra e anche contro il suo stesso partito, il PD.

Che Marino non l’ha mai né sopportato né supportato. Presentatosi alle primarie senza che il PD lo volesse, il Sindaco riuscì ad imporsi proprio perché la base elettorale della sinistra vedeva con piacere un personaggio lontano dagli interessi di bottega del partito romano. Interessi che, mesi dopo, con l’inchiesta su mafia capitale, ebbero a palesarsi anche agli occhi di chi si ostinava a non vedere quanto era chiaro da anni.

Con quegli interessi Marino non ha avuto nulla a che fare e sebbene alcuni dei suoi assessori siano rimasti coinvolti nell’inchiesta su Mafia capitale, la sua distanza con l’intreccio criminale tra la malavita e la politica romana non può essere discussa o ridimensionata.

In questo senso, davvero gli spiccioli spesi da Marino in cene familiari che suscitano la finta indignazione nel presidente del PD e nel gruppo consiliare romano, esibiscono una dose d’ipocrisia davvero indigeribile. Finge d’indignarsi un partito in buona misura corrotto e colluso, che ha co-governato con la destra e con il malaffare la gestione degli interessi occulti della città e ha sporcato per sempre l’immagine della buona amministrazione. Peccato mortale per un partito che, quando era di sinistra, a Roma seppe dare un nuovo volto fino a diventare negli anni 80 e 90 un modello per tutti. Oggi, quel che rimane di quel partito avrebbe potuto officiare il rito del ritiro della fiducia al Sindaco con più discrezione.

Perché persino in questo rito consumatosi in una città stremata dai protagonisti del suo sottobosco si sente forte la puzza di bruciato, di collusione e di vendette verso un uomo che, vuoi per onestà o per imperizia, non aveva accettato di mettere nelle mani dei potentati di partito l’Amministrazione comunale. Questo e altro paga Marino. Che a mo’ di Forrest Gump fu Sindaco suo malgrado.

di Antonio Rei

Papa Francesco non l'avrà invitato a Filadelfia, ma qualcuno - purtroppo - lo ha eletto sindaco. Da più di una settimana si discute del botta e risposta fra Ignazio Marino e il Pontefice, perché in effetti la notizia tira, grottesca e surreale com'è (sorvoliamo per il momento sul fatto che in realtà si tratta di uno scontro politico). Tuttavia, il gusto per la tragicommedia non deve far dimenticare quali siano le vere responsabilità del primo cittadino della Capitale.

Dell'antipatia personale che ha evidentemente ispirato nel cuore del Vicario di Pietro, Marino risponderà (eventualmente, in futuro) a entità superiori. Per il momento, dovrebbe rispondere ai romani delle condizioni in cui versa la loro città: case popolari allo sfacelo, appalti comunali affidati con gare sospette o addirittura senza gara, la malavita che controlla con spavalderia intere zone della città, l'Atac disastrata che viene lasciata fallire solo per poter privatizzare un domani il trasporto pubblico locale (intanto, però, i dipendenti scioperano quasi tutti i venerdì, creando un traffico da pandemonio e impedendo a molte persone di andare a lavorare).

E ancora: il bilancio contabile della città prossimo al collasso, le strade sporche e i netturbini dell'Ama che promettono d'incrociare le braccia per due giorni, i tombini che non funzionano e trasformano interi quartieri in piscine olimpioniche ogni volta che piove per mezza giornata, la carenza di poliziotti e carabinieri nelle zone più pericolose della città. Ah già, poi ci sono gli strascichi di Mafia Capitale. Il tutto a un paio di mesi dal nuovo Giubileo.

Intendiamoci, praticamente tutti questi problemi esistevano già prima che Marino diventasse sindaco. Il punto è che, da quando è arrivato al Campidoglio, il chirurgo ligure non ha fatto nulla per provare ad affrontare almeno una delle malattie croniche di Roma (chi usa la parola "emergenza" non ne conosce il significato, oppure non conosce la Capitale). Anzi, sotto la sua amministrazione da stato vegetativo permanente, molte questioni non hanno fatto che aggravarsi. In un quadro simile, i viaggi negli Stati Uniti sono il meno, ma certo il fatto che il sindaco sguazzasse ai Caraibi mentre veniva commissariato non depone in favore di quella straordinaria intelligenza da supermedico che Marino stesso si attribuisce ogni volta che ne ha occasione. 

Con questo, naturalmente, non s'intende affatto rivalutare l'opera di Gianni Alemanno, erede diretto di Galli, Visigoti, Vandali e Lanzichenecchi, nonché oggi indagato a rischio processo per corruzione (avrebbe ricevuto soldi da Buzzi e Carminati attraverso la sua fondazione). La sua amministrazione è anzi stata un'onta che una città come Roma non meritava.

A ben guardare, però, Marino e Alemanno hanno un'origine elettorale comune. Entrambi sono usciti vincenti dalle urne per la pura mancanza di concorrenza. L'ex attivista neofascista riuscì a spuntarla nel 2008 soltanto perché il Pd ebbe la geniale idea di candidare per la terza volta Francesco Rutelli.

Il medico genovese, invece, è stato  prima miracolato alle primarie Pd dalla clamorosa esclusione dell'ex numero uno della Provincia, Luca Zingaretti (trionfatore designato alle comunali, ma costretto da lotte interne al partito a ripiegare sulla Regione Lazio), poi ha avuto vita facile nella sfida contro lo stesso Alemanno, che nel frattempo era stato travolto da tanti scandali quanti nessun altro sindaco di Roma (Parentopoli prima ancora di Mafia Capitale).

Ma torniamo al battibecco col Papa. Paradossalmente - per quanto la simpatia di tutti, sinistra e destra, s'indirizzi naturalmente a Bergoglio - l'ultima batosta inferta a Marino è l'unica dalla quale il sindaco andrebbe difeso. Il Vaticano non era affatto ostile ad Alemanno (per quanto calamitoso, era pur sempre un cattolico con al collo il crocefisso e la croce celtica), mentre si accanisce contro l'attuale primo cittadino.

Come mai? Non c'entrerà mica il fatto che - pur "professandosi cattolico", come ha detto il Papa - Marino abbia sostenuto in passato il referendum sulla fecondazione eterologa? Oppure è perché ha istituito il registro comunale per le unioni civili? O magari ai preti ha dato fastidio anche il patrocinio del Comune al Gay Pride? Finché si indossa un abito talare, queste idiosincrasie sono comprensibili e prevedibili. I laici, invece, dovrebbero scegliere meglio i motivi per cui attaccare Marino. Tanto ce ne sono a iosa.

di Antonio Rei

Finché si tratta di stracciare l'articolo 18 o di falcidiare le pensioni, la parola dell'Unione europea è il vangelo. Quando invece da Bruxelles si permettono di dare dei suggerimenti in tema di fisco manifestamente corretti, ma che cozzano contro il disegno propagandistico di sua maestà Renzi, d'improvviso la Commissione Ue si trasforma in un coacervo di burocrati che non si deve permettere di dare lezioni e mettere in discussione la nostra intoccabile sovranità nazionale. 

Lunedì l'Esecutivo comunitario ha pubblicato un rapporto sulle riforme fiscali dei vari Paesi membri dell'Unione in cui sottolinea che il sistema in vigore in diversi Stati, Italia compresa, "tende a basarsi fortemente sulla tassazione del lavoro, che può deprimere sia l'offerta che la domanda di lavoro".

Secondo la Commissione europea, perciò, si deve concentrare l'attenzione "sui modi appropriati per spostare il carico fiscale dal lavoro ad altri tipi di tassazione che sono meno dannose per la crescita e l'occupazione, come i consumi, la proprietà e le tasse ambientali".

Molti Paesi, tra cui il nostro, "appaiono avere sia una necessità potenziale di ridurre il carico relativamente alto della tassazione sul lavoro - si legge ancora nel rapporto - sia lo spazio potenziale per aumentare le imposte meno discorsive".

In sintesi, Bruxelles ci consiglia di aumentare l'Iva, la Tasi o l'Imu e di ridurre il cuneo fiscale (davvero però, non come l'anno scorso, quando l'operazione si risolse in un regalo alle imprese), ovvero l'esatto contrario di quello che il nostro Governo intende fare con la legge di Stabilità 2016, il cui pezzo forte è proprio la cancellazione delle tasse sulla prima casa. Il principio cui fa riferimento l'Ue è semplice: le tasse sui consumi e sulla proprietà zavorrano il Pil molto meno di quelle sul reddito. E' un dato empirico elementare, che qualsiasi matricola delle facoltà di Economia dovrebbe conoscere.

Lo conosce anche il nostro ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, che infatti ancora prima del rapporto Ue si era prodotto in una delle ormai consuete piroette accademiche: "La critica degli economisti è che abolire le tasse sulla casa sia meno efficiente che abbattere le tasse sul lavoro - aveva sottolineato il titolare dell'Economia in risposta a un report di Moody's -. Questo è vero in generale, ma nel caso specifico italiano l'abbattimento della Tasi è relativamente più efficiente".

Il motivo, secondo il numero uno del Tesoro, è che si tratta di una misura che riguarda l'80% degli italiani e che sarà in grado di "restituire fiducia" ai proprietari. In questo modo, sempre nell'analisi del ministro, sarà possibile sostenere l'industria delle costruzioni, "uno tra i pezzi dell'economia che risulta ancora in ritardo".

Quello che Padoan non dice è che l'abolizione della Tasi è una misura socialmente iniqua, perché consente agli italiani più ricchi di risparmiare molti soldi (chi ha 4 case e 4 figli non pagherà nulla: gli basterà intestare un immobile a ogni pargolo), mentre per oltre due terzi delle famiglie lo sgravio sarà in media di 17 euro al mese, come ha certificato il centro di ricerca Nomisma, secondo cui "difficilmente ci saranno maggiori transazioni immobiliari e maggiori spese per i consumi". Critiche a questa misura del Governo sono arrivate anche da Confindustria e da Assonime, oltre che dalla Cgil.

Ma allora perché mai il Governo insiste? Ovviamente la ragione è politica. Nonostante tutti gli studi di economia in circolazione, le tasse sulla casa continuano ad essere percepite come le più ingiuste e da sempre i politici puntano su questo tasto per parlare alla pancia dell'elettorato.

La cosa più assurda è pretendere che un'operazione del genere possa essere considerata "di sinistra", come pure ha detto Padoan, forse dimenticando che Berlusconi vinse le elezioni del 2008 comprandosi gli italiani con l'abolizione dell'Ici.

Alla luce di tutto ciò, le parole pronunciate ieri da Renzi contro il rapporto della Commissione europea suonano come l'ennesima trovata per raggirare gli italiani: "Quali tasse ridurre lo decidiamo noi e non un euroburocrate", ha tuonato con il piglio del Premier che non deve chiedere mai. "Su questo tema - ha aggiunto - decide l'Italia. Ciascuno faccia il suo mestiere". E su questo ha ragione: la politica fiscale andrebbe modulata da chi ha studiato queste cose. Da noi, invece, se ne occupano quelli del marketing.

di Carlo Musilli

Renzi spera, Padoan ammonisce, qualcun altro fa i conti ma rimane dietro le quinte. Intanto, l'esercito di ultrasessantenni in attesa di pensione trattiene il fiato per la volata finale. Mancano ormai pochi giorni alla presentazione della nuova legge di Stabilità - il testo deve arrivare in Senato non più tardi del 15 ottobre - e uno dei capitoli più attesi della manovra rimane ancora avvolto dal mistero.

"Spero che la flessibilità in uscita per i pensionati sia realizzata già con questa legge di stabilità", scrive il Premier rispondendo a un lettore dell'Unità. La sua speranza è più che motivata. Il Presidente del Consiglio si gioca una buona dose di popolarità e di credibilità su questa misura, da lui sbandierata nei mesi scorsi con l'ormai celebre metafora della "nonna che vuole andare in pensione due o tre anni prima rinunciando a 20-30-40 euro per godersi il nipotino". Anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha ribadito più volte la necessità di ammorbidire la legge Fornero, mentre il presidente dell'Inps, Tito Boeri, ha perfino consegnato al governo una sua proposta di riforma.

Quello che manca non sono le idee. Anzi, di proposte sul tavolo ce ne sono fin troppe: dai prepensionamenti concessi in cambio di un taglio dell'assegno pari al 3-4% per ogni anno d'anticipo al cosiddetto "prestito pensionistico" (un anticipo di 7-800 euro al mese per un periodo di due o tre anni sulla futura pensione che sarebbe restituito a rate una volta maturati i requisiti); dagli incentivi per le aziende che s'impegnano a pagare parte dei prepensionamenti all'applicazione per legge degli accordi di solidarietà, passando per la possibilità di prorogare l'opzione donna (in scadenza a fine 2015).

Tra il dire e il fare, però, c'è di mezzo il Tesoro. "L’idea che la flessibilità sia a costo zero è semplicemente inesatta", tuona il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan. A livello tecnico ha ragione: per quanto variabile, ognuna delle misure elencate in precedenza avrebbe un costo. Tuttavia, il nostro Paese dovrebbe essere felice di pagare oggi questo prezzo, poiché nel medio periodo si rivelerebbe un vantaggio anche in termini contabili.

Le ragioni principali sono tre. Primo, l'anticipo dell'età pensionabile consentirebbe all'Erario di ridurre notevolmente la spesa per la cassa integrazione. Secondo, gli over-60 che andrebbero in pensione libererebbero posti di lavoro per i più giovani e le nuove assunzioni - oltre ad avere effetti benefici sull'occupazione e quindi sui consumi - aumenterebbero il gettito contributivo annuo per le casse pubbliche. Terzo, permettendo di anticipare la pensione in cambio di una decurtazione dell'assegno previdenziale lo Stato spenderebbe qualcosa di più oggi, ma alla fine risparmierebbe, poiché in futuro (e per molti anni, visto che l'aspettativa di vita si allunga) dovrebbe pagare pensioni d'importo inferiore al previsto.

"La flessibilità nel sistema pensionistico fa risparmiare: se si fa un calcolo corretto - spiega Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera -, nel caso di uscita a 62 anni anziché a 66, il costo dell'anticipo per i primi 4 anni di una pensione penalizzata dell'8% sarà largamente compensato dai risparmi cumulati nei successivi 18 anni, con un risparmio del 4,22%". Il punto è che "quando parliamo di pensioni - continua Damiano - non possiamo limitarci a calcoli che si fermano ai primi anni, secondo una logica di cassa, ma occorre fare delle proiezioni: solo in questo modo si può parlare di sostenibilità del sistema".

Purtroppo i tecnici di Bruxelles sembrano pensarla diversamente. Per loro, come sempre, i conti pubblici di oggi valgono più di qualsiasi progetto che guardi oltre la prossima analisi dei bilanci. "Bisogna spiegare all'Europa che non vogliamo cancellare la riforma Fornero - conclude Damiano -, ma correggerla e consolidarne gli effetti finanziari". Una spiegazione che si preannuncia tutt'altro che semplice, anche perché il governo italiano ha già chiesto all'Ue di sbloccare a suo favore quasi 18 miliardi in termini di maggiore flessibilità sui vincoli comunitari. E da quelle risorse dipende buona parte della legge di Stabilità 2016.


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