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di Antonio Rei
Sostenere che la legge di Stabilità 2016 sia una manovra di sinistra è assurdo. Nel pacchetto di misure varato dal governo non si rintraccia alcuna preoccupazione per la redistribuzione del reddito. Anzi, si arriva perfino a rinnegare il principio costituzionale della proporzionalità delle imposte, avvantaggiando i ricchi rispetto ai meno abbienti. E per non farsi mancare proprio nulla, il governo Renzi riesce anche a strizzare l'occhio agli evasori, riservando loro un bel regalino.
Senza contare la burla sulle pensioni: avevano promesso di aumentare la flessibilità in uscita (anche per aiutare l'occupazione giovanile), ma hanno partorito il topolino di un part-time che nessuno userà, perché aumenta il costo orario del lavoro (l'azienda pagherebbe tutti i contributi, ma avrebbe il lavoratore a disposizione per la metà del tempo).
Certo, c'è anche il piano per la lotta alla povertà che è meritorio e va sostenuto con forza, ma stiamo parlando di 600 milioni di euro per il 2016 su una manovra da 24-27 miliardi. Una miseria. Conviene dare un'occhiata al resto.
Partiamo dall'innalzamento della soglia oltre la quale è proibito pagare in contanti, che passa da mille a 3mila euro. Si tratta evidentemente di una norma che facilita i pagamenti in nero (lo pensava anche il ministro Padoan fino a qualche tempo fa, anche se ieri ha detto di aver "cambiato idea"), ma l'Esecutivo vuol farci credere che aumenterà i consumi. Già, ma i consumi di chi?
Non dei ricchi, che hanno sempre consumato e continueranno a farlo a suon di carta di credito. Nemmeno dei lavoratori dipendenti, che si vedono accreditare lo stipendio sul conto e di certo non passeranno le ore al bancomat solo per il gusto di pagare 3mila euro cash. Rimane l'esercito delle partite Iva: loro sì che potranno spendere un po' di più in contanti, anche perché in questo modo potranno evitare di versare il denaro in banca e quindi di renderlo visibile agli occhi del Fisco.
Non è proprio un'idea geniale nel Paese con l'evasione fiscale più alta d'Europa e con uno dei tassi di diffusione più bassi dei pagamenti elettronici (tracciabili). D'altra parte, fa il paio con la ridicola legge sul Pos: in teoria, tutti i lavoratori autonomi dovrebbero averlo per consentire ai clienti di pagare con la carta le somme superiori a 30 euro. La legge però non prevede sanzioni per chi sgarra, per cui tutti fanno come vogliono.
Passiamo ora alla punta di diamante di questa legge di Stabilità: l'abolizione delle tasse sulla prima casa. Tutti, ma proprio tutti hanno contestato questa norma (dall'Ue a Confindustria, da Assonime alla Cgil). Lo hanno fatto per motivi diversi, ma tutti corretti.
Alcuni sottolineano che sarebbe stato meglio intervenire sul cuneo fiscale, perché ciò avrebbe avuto un impatto incredibilmente superiore sul Pil e sull'occupazione. Altri pongono l'accento sul fatto che questo taglio, per com'è concepito, è socialmente iniquo: fa la fortuna dei ricchi (che potranno intestare una casa a ogni figlio e non pagare più nulla), mentre per due terzi delle famiglie interessate lo sgravio sarà in media di 17 euro (il calcolo è di Nomisma).In questo caso sarebbe grottesco parlare di spinta ai consumi, perciò Renzi va ripetendo che la misura punta a "ridare fiducia" agli italiani. In realtà, l'obiettivo è la pura e semplice propaganda elettorale: ci siamo già scordati di Berlusconi, che ha vinto due elezioni politiche promettendo di tagliare le tasse sulla casa?
Ma torniamo ai numeri. Il Governo assicura che lo Stato compenserà i Comuni per il mancato gettito della Tasi sulla prima casa, e che quindi non sarà necessario appesantire le imposte sulle altre abitazioni. Ma con quali soldi lo farà? A occhio non con quelli dei contribuenti francesi, per cui la cancellazione delle tasse sulla prima casa si ripercuoterà in ogni caso sul bilancio pubblico e prima o poi dovrà essere compensata da altre entrate fiscali, che potrebbero pesare anche su chi una casa non l'ha mai avuta e non l'avrà mai.
Ma seppure i mancati introiti dell’abolizione della Tasi colpiranno la fiscalità generale, stando a quanto trapela fino a questo momento, i nuovi nominati al vertice Rai possono stare tranquilli: il canone nella bolletta della luce lo pagheranno anche quelli che sono in affitto.
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di Fabrizio Casari
Il voto del Senato che ha approvato il Ddl Boschi sulla riforma costituzionale ha esaurito il primo dei tre passaggi che dovrebbero sancire la sua entrata in vigore. La riforma, anche da un punto di vista lessicale, ben documenta l’analfabetismo politico dei Renzi boys, e sebbene alcuni singoli punti del testo siano accettabili, è l’impianto generale della riforma che risulta pernicioso e pericoloso. L’assenza delle opposizioni dal voto è un grave errore, dal momento che anche solo in via di principio non prendere parte ad un voto sull’assetto costituzionale tradisce in radice il mandato elettivo.
Politicamente, poi, un risultato che avesse visto l’esito finale con pochi voti di scarto avrebbe minato in profondità la stessa autorevolezza della riforma; ma i tatticismi di bottega hanno avuto, come sempre, la prevalenza. Non sono ipotizzabili modifiche sostanziali alla Camera, mentre è invece auspicabile un rifiuto secco dal referendum popolare che dovrà tra un anno confermare o annullare la riforma.
Renzi twitta entusiasta ricordando che i tempi sono stati rispettati. Già, i tempi. Ci si dovrebbe chiedere il perché di tanta fretta. Perché un governo di comparse e neofiti si ostina a spostare lo sguardo dai problemi economici e sociali di questo Paese per indirizzarsi invece sulle architetture istituzionali? Peraltro il contesto di legittimità nel quale la riforma è stata votata è quanto meno discutibile. Il premier, mai votato, è stato insediato da una manovra di Palazzo e il Parlamento tutto, che ha votato le modifiche alla Costituzione, è illegittimo, giacché eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Di ben altra legittimità politica ci sarebbe stato bisogno per procedere ad una modifica sostanziale dell’architettura istituzionale.
I commenti sono diversi, sia da parte dei cantori del renzismo che dai pochi critici ammessi da un’informazione ormai a ranghi serrati. Nel merito, si può facilmente argomentare come la modifica dei criteri d’eleggibilità, delle funzioni e dei poteri del Senato, rappresentino un pastrocchio inutile, ma sarebbe limitante concentrarsi solo sulla discussione concettuale circa il bicameralismo perfetto o sull’uso che i diversi partiti potranno fare dei posti a disposizione per i consiglieri regionali che, entrando in Senato, diverrebbero titolari di immunità. Il contestuale arresto del forzitaliota Mantovani racconta ironicamente il futuro che incombe.
Il tema centrale è l’alterazione profonda degli equilibri istituzionali. Il venir meno dei poteri di controllo che garantiscono il sistema di pesi e contrappesi che rappresenta il senso della relazione tra potere e controllo dello stesso, unica misura, in fondo, del tasso di democraticità di ogni sistema. La fine dei poteri del Senato (primo tra tutti quello di sfiduciare il governo, ma altrettanto importante è anche quello di non poter più intervenire sulla legge di Bilancio e nella modifica delle leggi di spesa approvate dalla Camera) porta con sè il potere abnorme della Camera.Un potere che diventa abnorme sia per l’assenza della funzione di controllo senatoriale, sia perché con la riforma elettorale (l’Italicum) - che è parte indissolubilmente legata - la Camera dei deputati sarà formata da una maggioranza assoluta espressione del partito che vincerà le elezioni, magari al secondo turno e con il solo 25% dei voti espressi.
Una Camera blindata a sostegno del Premier, senza nessun contrappeso in termini numerici e politici, semplicemente consegna al Presidente del Consiglio un potere assoluto che non si vedeva dai tempi dell’aula “sorda e grigia”.
E allora è qui che la lettura di questa riforma deve allarmare. Non solo sul piano della cultura democratica, che la scrittura della Carta, intervenuta proprio dopo la sconfitta della dittatura fascista, aveva interpretato come partecipativa e bilanciata negli equilibri istituzionali, ma anche per una legittimità democratica incerta che un governo privo di controlli inevitabilmente rappresenta.
A meno di voler iscriversi alla macchina propagandistica del governo, non si può pensare che la riforma Boschi sia un tentativo di riscrittura delle regole in funzione di snellimento dei processi legislativi e, con questo, dell’affermazione della volontà popolare. Emerge invece, ad una lettura attenta e contestualizzata in un quadro europeo, come la riforma sia sostanzialmente pensata e voluta proprio in direzione contraria.
Abolire il Senato corrisponde ad un disegno autoritario, che spinge sull’acceleratore della riduzione della dialettica politica in funzione di una maggiore agilità della struttura di comando. L’operazione politica che vi soggiace, ma che ne rappresenta il senso politico più profondo, è l’indebolimento crescente e progressivo dei poteri dello Stato e rappresenta la volontà di smantellamento del sistema della rappresentanza popolare.
La progressiva dismissione degli organi elettivi, accompagnata ad una reiterazione di governi mai votati, indica con chiarezza come il governo del Paese si ritenga debba essere privo di totale controllo da parte degli elettori e che il suo agire debba essere indirizzato ad una definitiva acquiescenza ai poteri economici e finanziari. Si ritiene l’interesse pubblico ostativo agli interessi dei potentati, alternativo per quanto riguarda la destinazione d’uso delle risorse ed il modello socio-economico che implicitamente prevede. Dunque, si ritiene nocivo agli interessi dei poteri forti il modello politico partecipativo e, con esso, il modello di relazione tra rappresentanti e rappresentati,Basta vedere il testo del Trattato tra USA ed Europa, il Ttip, che in sostanziale segretezza continua a macinare strada a Bruxelles passando letteralmente sopra la testa dei parlamenti nazionali. Si deve considerare che la sostanza del Trattato prevede che le legislazioni nazionali ed europee non possano prevalere sulla libertà dei mercati e sugli interessi delle multinazionali che i mercati governano. La libertà d’impresa diventa indiscutibile e non circoscrivibile; si afferma con brutale nettezza che le leggi e le norme che disciplinano il sistema non possano mai agire in contrasto con gli interessi delle imprese.
In sostanza, se un’azienda decide d’investire in una attività che in tutta evidenza nuoce all’interesse pubblico, Parlamento e governo non possono legiferare o ricorrere a precedenti leggi per impedirlo. E se l’interesse pubblico diventa secondario, perché quello privato diventa primario, si capisce come le istituzioni deputate per definizione alla salvaguardia dell’interesse pubblico - quindi della democrazia - vengano viste come un elemento inutile o addirittura nocivo, e diventino quindi un ostacolo da rimuovere.
La riforma ha ancora dei passaggi parlamentari e popolari da affrontare. Non si può restare con le mani in mano, magari nascondendosi dietro qualunquistiche letture che vedono la politica come incrostazione normativa, o a sterili considerazioni sulla corruzione che si vorrebbe solo figlia della politica ma che, invece, abita in ogni luogo della nostra società. Serve un colpo di reni per dare il via ad una battaglia per la democrazia che veda nel NO al referendum confermativo il punto di approdo.
La battaglia per ripristinare l’interesse pubblico è la condizione necessaria per cominciare a ripristinare la democrazia in Italia. Ritenere le istituzioni superflue o addirittura dannose apre la strada ad una concezione autoritaria del sistema che in Italia ha già procurato tragedie epocali. Nessuno può chiamarsi fuori e, meno che mai, tacere ora per protestare poi. I diritti che non si difendono, si perdono.
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di Antonio Rei
A suo tempo Matteo Renzi disse di ispirarsi a Martin Luther King, ma sembra che come modello non disprezzi affatto Silvio Berlusconi. Ieri il Premier ha annunciato che con la nuova legge di Stabilità sarà alzata da mille a 3mila euro la soglia oltre la quale non è possibile pagare in contanti. La minoranza sinistrorsa del Pd non ci sta, sostenendo - a ragione - che con questa misura s'incoraggia l'evasione fiscale. I berluscones, invece, esultano, visto che proprio Forza Italia aveva proposto l’innalzamento del limite ai contanti in un progetto di legge presentato solo pochi giorni fa.
Il provvedimento in questione fa il paio con la legge che prevede l'obbligo per i professionisti di dotarsi del Pos: una norma che non prevede alcuna sanzione per chi sgarra, e perciò è sostanzialmente ignorata da tutta Italia. Ci sarebbero poi da citare il taglio del cuneo fiscale dell'anno scorso, che in realtà è stato un regalo alle imprese, e la cancellazione delle tasse sulla prima casa in arrivo quest'anno (socialmente iniquo perché avvantaggia i ricchi), che richiama le vecchie campagne elettorali forzaitaliote su Ici e Imu. Insomma, ce n'è abbastanza per considerare la politica fiscale di Renzi di ispirazione marcatamente berlusconiana.
Ma torniamo al tetto ai contanti. Nel tempo è cambiato varie volte, ma negli ultimi cinque anni ha subito solo riduzioni (nel maggio 2010 da 12.500 a 5mila euro, nell’agosto 2011 da 5mila a 2.500 euro e nel dicembre 2011 da 2.500 a mille euro). Il taglio progressivo puntava a incoraggiare l’utilizzo della moneta elettronica in funzione anti-evasione. Non sorprende quindi che l'ultimo premier ad alzare questa soglia sia stato proprio Berlusconi, il quale la riportò da 5mila a 12.500 euro nel giugno del 2008.
Finché a metterla in atto è Forza Italia, una misura del genere non sorprende: in fondo l'ex Cavaliere - che, ricordiamo, è un pregiudicato per frode fiscale - ha raggiunto il successo politico solleticando in ogni modo la pancia degli evasori italiani. Se però la stessa proposta arriva da un leader che si definisce di sinistra, qualche dubbio nasce. Intendiamoci, la soglia di 3mila euro è lontana da quella berlusconiana di 12.500, ma il valore politico della mossa non cambia.
Renzi sostiene che il ritocco in arrivo porterà il limite di tracciabilità italiano alla media europea. In realtà andrà oltre, almeno se prestiamo fede uno degli emendamenti alla manovra, in cui si legge che "l’innalzamento della soglia di tracciabilità a 2.000 euro significa portare l’utilizzo del contante alla media europea". La proposta di modifica in questione è firmata da Viviana Beccalossi, Stefano Saglia e Maurizio Bianconi, tre deputati del gruppo Pdl. Il governo Pd, quindi, non solo accontenta i berlusconiani, ma va addirittura oltre le loro richieste.Al di là dell'inutile diatriba sulla media, è vero che nell’Unione europea le leggi di 11 Stati (tra cui Germania e Olanda) non prevedono alcun limite all’uso dei contanti, mentre in altri casi il tetto è più alto di quello attualmente in vigore nel nostro Paese (ad esempio in Francia e in Spagna, rispettivamente a 3mila e 2.500 euro).
Ma il punto è un altro. Il confronto con il resto dell'Ue ha poco senso per due ragioni: primo, nessun altro Paese europeo ha un livello di evasione fiscale nemmeno lontanamente paragonabile a quello dell'Italia; secondo, da noi l'utilizzo della moneta elettronica è assai meno diffuso che nel resto dell'Unione.
Perché mai allora varare una misura che scoraggia la tracciabilità e incoraggia a fare i furbi? Semplice: per rispondere al pressing di commercianti e albergatori, che, soprattutto in vista del Giubileo, chiedono di facilitare i pagamenti alla moltitudine di turisti stranieri in arrivo. Una giustificazione di un naif che fa quasi tenerezza. Quanti saranno mai i pellegrini devoti che girano con in tasca un rotolo di banconote da 3mila euro e - chissà perché - non hanno in portafoglio né un bancomat né una carta di credito?
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di Fabrizio Casari
Ignazio Marino si è dimesso. L’annuncio del ritiro della fiducia da parte della sua maggioranza consiliare e di alcuni dei suoi assessori ha messo fine all’avventura romana di un Sindaco certamente onesto ma ancor più incapace, una sorta di Forrest Gump all'amatriciana. Non poteva esserci epilogo diverso. La campagna mediatica e politica orchestrata da uno schieramento trasversale non gli ha risparmiato niente e lui, da parte sua, non si è fatto mancare niente.
Dalla sua Panda ai viaggi, alle finte spese di rappresentanza, l’imperizia amministrativa, l’incapacità di governare i processi di modernizzazione della città, la ripetuta, sfacciata reiterazione della sua autoreferenzialità, persino il rifiuto di ammettere come i suoi comportamenti furbetti male, molto male, si sposassero con il rigore etico che andava professando, sono stati l’epitaffio della sua giunta.
Ma non si tratta di imperizia da gaffes ripetute, di noncuranza, di gestione ridicola della sua comunicazione; non solo almeno. Per la scarsa conoscenza dell’amministrazione pubblica in generale e di Roma in particolare, per non cercare le risorse necessarie alla sfida della discontinuità nel personale politico più avveduto e fuori dai giochi, Marino non è riuscito a formare una squadra di persone capaci e politicamente allineate ed ha subito una controffensiva da parte da interi blocchi dell’apparato amministrativo e finanziario della città. Palazzinari e gruppi imprenditoriali che con gli appalti pubblici si sono gonfiati le tasche ed hanno schiantato quelle dei romani, non potevano tollerare che il business del Giubileo non prendesse la strada delle loro aziende.
Per una città con 9 miliardi di Euro di debiti e nessuna intenzione da parte del governo di farvi fronte, Marino era diventato un lusso intollerabile. Vuoi per una città lurida, per il suo sistema ormai in panne, per i suoi problemi ulteriormente aggravatisi durante la sua giunta, era ormai diventato oggetto di scherno in tutti e 22 i municipi della città. Che si divide tra coloro che pensano che sia scemo ma onesto e chi crede che sia onesto ma scemo. E questo è stato possibile sia per la gogna mediatica e politica, sia perché egli stesso ha aggiunto gaffes di comunicazione imperdonabili, riuscendo persino a farsi smentire da Papa Francesco, molto prima e più autorevolmente dei ristoratori della Capitale.
Un Papa che certo non ha gradito l’impegno del Sindaco sui matrimoni gay e più in generale sui diritti civili, che nella città di San Pietro assumono ovviamente un livello di sfida maggiore che in qualunque altro posto e che, proprio per questo, dovrebbero essere supportate da solidità politica e sostegno del suo schieramento più che da foto ridanciane.
Che sia stato colto con le mani nella marmellata sui conti del ristorante e che abbia fornito la scusa che il PD cercava per farlo dimettere e sostituirlo con qualcuno più in linea con il partito di nuova foggia verdiniana, assume un significato quasi simbolico. Ai commercianti simpatico non era di sicuro, visto che la campagna contro “tavolino selvaggio” gli aveva procurato non poche ostilità in una città che ormai vede aumentare a dismisura gli investimenti nel settore della ristorazione, che trasformano lo spazio pubblico in business privato. Nemmeno i vigili urbani si sono risparmiati, dopo che il Sindaco aveva proceduto con l’iniziativa legale contro i furbetti della malattia. O i dipendenti del Comune, che ritengono di aver diritto al salario accessorio per accedere agli uffici.
Ha provato - e in minima parte c’è riuscito - a dare discontinuità, ma provare ad intaccare privilegi ed abusi non è mai semplice e in una città come Roma lo è ancor meno. Quel 63,93 per cento con cui s’impose per la successione di Alemanno, il peggiore dei sindaci della storia della città, era stata una vera e propria investitura popolare, l’esito di una battaglia contro tutto il centro destra e anche contro il suo stesso partito, il PD.Che Marino non l’ha mai né sopportato né supportato. Presentatosi alle primarie senza che il PD lo volesse, il Sindaco riuscì ad imporsi proprio perché la base elettorale della sinistra vedeva con piacere un personaggio lontano dagli interessi di bottega del partito romano. Interessi che, mesi dopo, con l’inchiesta su mafia capitale, ebbero a palesarsi anche agli occhi di chi si ostinava a non vedere quanto era chiaro da anni.
Con quegli interessi Marino non ha avuto nulla a che fare e sebbene alcuni dei suoi assessori siano rimasti coinvolti nell’inchiesta su Mafia capitale, la sua distanza con l’intreccio criminale tra la malavita e la politica romana non può essere discussa o ridimensionata.
In questo senso, davvero gli spiccioli spesi da Marino in cene familiari che suscitano la finta indignazione nel presidente del PD e nel gruppo consiliare romano, esibiscono una dose d’ipocrisia davvero indigeribile. Finge d’indignarsi un partito in buona misura corrotto e colluso, che ha co-governato con la destra e con il malaffare la gestione degli interessi occulti della città e ha sporcato per sempre l’immagine della buona amministrazione. Peccato mortale per un partito che, quando era di sinistra, a Roma seppe dare un nuovo volto fino a diventare negli anni 80 e 90 un modello per tutti. Oggi, quel che rimane di quel partito avrebbe potuto officiare il rito del ritiro della fiducia al Sindaco con più discrezione.
Perché persino in questo rito consumatosi in una città stremata dai protagonisti del suo sottobosco si sente forte la puzza di bruciato, di collusione e di vendette verso un uomo che, vuoi per onestà o per imperizia, non aveva accettato di mettere nelle mani dei potentati di partito l’Amministrazione comunale. Questo e altro paga Marino. Che a mo’ di Forrest Gump fu Sindaco suo malgrado.
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di Antonio Rei
Papa Francesco non l'avrà invitato a Filadelfia, ma qualcuno - purtroppo - lo ha eletto sindaco. Da più di una settimana si discute del botta e risposta fra Ignazio Marino e il Pontefice, perché in effetti la notizia tira, grottesca e surreale com'è (sorvoliamo per il momento sul fatto che in realtà si tratta di uno scontro politico). Tuttavia, il gusto per la tragicommedia non deve far dimenticare quali siano le vere responsabilità del primo cittadino della Capitale.
Dell'antipatia personale che ha evidentemente ispirato nel cuore del Vicario di Pietro, Marino risponderà (eventualmente, in futuro) a entità superiori. Per il momento, dovrebbe rispondere ai romani delle condizioni in cui versa la loro città: case popolari allo sfacelo, appalti comunali affidati con gare sospette o addirittura senza gara, la malavita che controlla con spavalderia intere zone della città, l'Atac disastrata che viene lasciata fallire solo per poter privatizzare un domani il trasporto pubblico locale (intanto, però, i dipendenti scioperano quasi tutti i venerdì, creando un traffico da pandemonio e impedendo a molte persone di andare a lavorare).
E ancora: il bilancio contabile della città prossimo al collasso, le strade sporche e i netturbini dell'Ama che promettono d'incrociare le braccia per due giorni, i tombini che non funzionano e trasformano interi quartieri in piscine olimpioniche ogni volta che piove per mezza giornata, la carenza di poliziotti e carabinieri nelle zone più pericolose della città. Ah già, poi ci sono gli strascichi di Mafia Capitale. Il tutto a un paio di mesi dal nuovo Giubileo.
Intendiamoci, praticamente tutti questi problemi esistevano già prima che Marino diventasse sindaco. Il punto è che, da quando è arrivato al Campidoglio, il chirurgo ligure non ha fatto nulla per provare ad affrontare almeno una delle malattie croniche di Roma (chi usa la parola "emergenza" non ne conosce il significato, oppure non conosce la Capitale). Anzi, sotto la sua amministrazione da stato vegetativo permanente, molte questioni non hanno fatto che aggravarsi. In un quadro simile, i viaggi negli Stati Uniti sono il meno, ma certo il fatto che il sindaco sguazzasse ai Caraibi mentre veniva commissariato non depone in favore di quella straordinaria intelligenza da supermedico che Marino stesso si attribuisce ogni volta che ne ha occasione.
Con questo, naturalmente, non s'intende affatto rivalutare l'opera di Gianni Alemanno, erede diretto di Galli, Visigoti, Vandali e Lanzichenecchi, nonché oggi indagato a rischio processo per corruzione (avrebbe ricevuto soldi da Buzzi e Carminati attraverso la sua fondazione). La sua amministrazione è anzi stata un'onta che una città come Roma non meritava.A ben guardare, però, Marino e Alemanno hanno un'origine elettorale comune. Entrambi sono usciti vincenti dalle urne per la pura mancanza di concorrenza. L'ex attivista neofascista riuscì a spuntarla nel 2008 soltanto perché il Pd ebbe la geniale idea di candidare per la terza volta Francesco Rutelli.
Il medico genovese, invece, è stato prima miracolato alle primarie Pd dalla clamorosa esclusione dell'ex numero uno della Provincia, Luca Zingaretti (trionfatore designato alle comunali, ma costretto da lotte interne al partito a ripiegare sulla Regione Lazio), poi ha avuto vita facile nella sfida contro lo stesso Alemanno, che nel frattempo era stato travolto da tanti scandali quanti nessun altro sindaco di Roma (Parentopoli prima ancora di Mafia Capitale).
Ma torniamo al battibecco col Papa. Paradossalmente - per quanto la simpatia di tutti, sinistra e destra, s'indirizzi naturalmente a Bergoglio - l'ultima batosta inferta a Marino è l'unica dalla quale il sindaco andrebbe difeso. Il Vaticano non era affatto ostile ad Alemanno (per quanto calamitoso, era pur sempre un cattolico con al collo il crocefisso e la croce celtica), mentre si accanisce contro l'attuale primo cittadino.
Come mai? Non c'entrerà mica il fatto che - pur "professandosi cattolico", come ha detto il Papa - Marino abbia sostenuto in passato il referendum sulla fecondazione eterologa? Oppure è perché ha istituito il registro comunale per le unioni civili? O magari ai preti ha dato fastidio anche il patrocinio del Comune al Gay Pride? Finché si indossa un abito talare, queste idiosincrasie sono comprensibili e prevedibili. I laici, invece, dovrebbero scegliere meglio i motivi per cui attaccare Marino. Tanto ce ne sono a iosa.