di Antonio Rei

Il Def è arrivato e, secondo il mantra del governo, non ci saranno "né tagli alla spesa né aumenti delle tasse". A ben vedere, però, la realtà racconta una storia diversa, il cui finale deve ancora essere scritto. Mercoledì si terrà una riunione della Conferenza Stato-Regioni tutt'altro che semplice per l'Esecutivo, che dovrà stabilire insieme ai governatori come e dove applicare i 2,3 miliardi di tagli alla sanità previsti per il 2015, ovvero oltre il 50% dei 4 miliardi di spending review imposti per quest'anno alle Regioni dall'ultima Legge di Stabilità.

Circa un miliardo e mezzo arriverà dal taglio all’acquisto di beni e servizi e altri risparmi sono attesi da interventi sulla rete ospedaliera e forse anche dalla revisione della spesa farmaceutica. Il premier Matteo Renzi ha parlato di una "razionalizzazione della spesa sanitaria" che dovrebbe articolarsi su due piani: applicazione dei costi standard (con "la famosa siringa che dovrà costare la stessa cifra dalla Lombardia alla Calabria") e riduzione delle poltrone ("vi pare possibile che ci siano Regioni con 7 Province e 22 Asl?").

Questi tagli dovrebbero rientrare nei 7,2 miliardi di riduzioni di spesa previsti in generale per tutto l'apparato pubblico, compresi gli altri enti locali (un miliardo dai Comuni) e i ministeri. Il governo assicura che queste decurtazioni non si tradurranno in aumenti delle tasse locali, ma si tratta di un'affermazione discutibile per almeno due ragioni.

Primo: per evitare che l'anno prossimo scatti una clausola di salvaguardia da 16 miliardi, il governo deve reperirne almeno 10 nel 2015. Per riuscirci non può limitarsi a confermare i tagli già previsti dalla scorsa manovra, ma deve aggiungerne di nuovi, e difficilmente ci riuscirà rimanendo sul terreno della "razionalizzazione" e della riduzione della poltrone. E in generale - anche allungando lo sguardo oltre il 2015 -, è ovvio che la diminuzione dei trasferimenti agli enti locali si tradurrà (com'è già accaduto) in un aumento delle accise da parte di Comuni e Regioni, anche perché gli enti locali devono continuare a combattere contro il patto di Stabilità interno, che impedisce loro d'indebitarsi eccessivamente.

Secondo: il governo non aumenta le tasse, ma intende ricavare altri 2,4 miliardi dalla revisione delle agevolazioni fiscali. Non è chiaro se questa operazione, la cosiddetta "tax expenditure", colpirà solo le imprese o - come pare più probabile - anche le famiglie, ma è evidente che un colpo di falce sulle detrazioni produce un effetto analogo a quello di un aumento delle tasse. L'esecutivo, in ogni caso, promette di ridurre la pressione fiscale sotto il 43%: al 42,9% nel 2015 e al 42,6% nel 2016, in entrambi i casi al netto del bonus Irpef da 80 euro.

Nel frattempo, con un occhio puntato alle prossime elezioni regionali, il governo ha recuperato un tesoretto da 1,6 miliardi di euro aumentando il deficit dal 2,5% al 2,6% del Pil. Risorse che per il momento Renzi tiene in frigorifero, assicurando che la loro destinazione sarà decisa "nelle prossime settimane". I sindacati vorrebbero che a beneficiare delle nuove risorse fossero i pensionati, i disoccupati, e soprattutto gli incapienti, ovvero le persone che guadagnano troppo poco per pagare l'Irpef e che perciò sono rimaste escluse l'anno scorso dal bonus di 80 euro. All'epoca il Premier aveva assicurato un intervento anche nei loro confronti, ma da allora non se n'è più sentito parlare.

Intanto, il governo ha trovato il modo di litigare anche con Confindustria, che si è fatta sentire picchiando duro con il proprio braccio giornalistico.  Il Sole 24 Ore ha scoperto che in uno dei decreti attuativi del Jobs Act è spuntata una clausola di salvaguardia secondo la quale - nel caso in cui si esaurissero i fondi destinati agli incentivi alle assunzioni - le risorse necessarie sarebbero recuperate con un contributo di solidarietà a carico di imprese e lavoratori autonomi.

"Prevedere un aumento dei contributi per tutte le imprese come clausola di salvaguardia dello sconto contributivo per le aziende che stabilizzano i precari supera ogni immaginazione - scrive Fabrizio Forquet sul Sole -. Sembra una boutade, uno sketch di Crozza. E invece qualcuno lo ha scritto davvero nel decreto legislativo sui contratti. Bisognerebbe pretendere il nome di cotanto genio. Di sicuro Renzi interverrà. O no?".  Com'era ovvio, il mea culpa del governo è arrivato a stretto giro: il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha assicurato che "la clausola sarà superata prima dell’ok definitivo al provvedimento".

di Antonio Rei

E' un'onda di numeri a caso quella che Matteo Renzi riversa sui giornalisti a Palazzo Chigi. In attesa di venerdì, quando il Governo presenterà ufficialmente il nuovo Documento di economia e finanza, martedì pomeriggio il Premier si produce in una conferenza stampa dai toni quanto mai berlusconiani. La sparata più grossa, come sempre, riguarda le tasse.

Il Presidente del Consiglio sostiene di averle ridotte addirittura per 21 miliardi: 10 dal bonus di 80 euro, otto dalla decontribuzione dei contratti e tre dal disinnesco di precedenti clausole di salvaguardia. Sorvoliamo sul fatto che la decontribuzione vale tre anni (poi addio) e sull'assurdità di considerare la mancata applicazione di una clausola di salvaguardia alla stregua di una riduzione delle tasse. Restiamo sui numeri.

Il 2 aprile scorso l'Istat ha fatto sapere che nel quarto trimestre del 2014 la pressione fiscale è risultata pari al 50,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali su base annua. In tutto l'anno passato, invece, il dato ha raggiunto il 43,5%, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto al 2013. Com'è potuto accadere, visti i 10 miliardi di riduzione dell'Irpef (per gli amici, "gli 80 euro") decisi a giugno scorso da questo governo? Semplice: se finanzi i tagli alle tasse centrali diminuendo le risorse da girare agli enti locali, questi ultimi compensano i mancati trasferimenti spingendo al massimo le accise locali.

Il meccanismo dei vasi comunicanti si ripete: è già accaduto e continuerà ad accadere. Secondo un focus della Uil, ad esempio, soltanto l'introduzione della Tasi e l'aumento delle addizionali Irpef regionali erodono oltre il 40% dei famosi 80 euro. Poi ci sono gli aumenti scattati a gennaio su sigarette, canone Rai, giornali e benzina (a proposito: come mai l'Eni non taglia mai il prezzo alla pompa in proporzione al crollo delle quotazioni del petrolio?). Si tratta di rincari che pesano sulle tasche di tutti gli italiani, non soltanto su quelle di chi beneficia dei famosi 80 euro, ovvero la classe media.

Basterebbe questo per smentire l'affermazione di Renzi secondo cui "non ci saranno aumenti delle tasse nel 2015". Ci sono già stati, Presidente. Ma Renzi non si ferma e arriva ad assicurare che quest'anno non arriveranno ulteriori tagli alla spesa pubblica. Lo dice proprio mentre il tandem Yoram Gugteld/Roberto Perotti - fresco di nomina al timone della spending review - si sta industriando per portare al Governo 10 miliardi di risparmi nel corso del 2015.

Ora, è verosimile che il duo delle meraviglie arrivi a una cifra del genere solo razionalizzando la spesa, senza tagliare nemmeno un euro ai bilanci degli amministratori? Certo che no, ma non è nemmeno questo l'aspetto più grave. Anche in caso di miracolo, infatti, quei soldi non basterebbero: 10 miliardi non sono pochi, ma le famigerate clausole di salvaguardia valgono 16,8 miliardi nel 2016 e addirittura 23 miliardi nel 2017.

"Non ci saranno tagli alle prestazioni per i cittadini", ribadisce il Premier, distillando rassicurazioni su scelte che non spettano a lui, "ma c'è bisogno che la macchina pubblica dimagrisca un po' e, se i sacrifici li fanno i politici o salta qualche poltrona nei consigli di amministrazione, male non fa". Nulla di più banale e populista, peccato che si scontri con la realtà dei numeri.

Ne sa qualcosa il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, il quale garantisce che "se la crescita sarà migliore delle attese le clausole di salvaguardia si disinnescheranno automaticamente". Non è esattamente il rigore scientifico che ci si aspetterebbe da un tecnico, ma lasciamo stare. Concentriamoci piuttosto sulle "attese": il governo prevede per quest'anno una crescita del Pil pari allo 0,7%. E' quanto verosimilmente riusciremo a incassare nell'anno del petrolio a prezzi di saldo e del Quantitative easing della Bce.

In pochi lo ricordano, ma a dicembre lo stesso Padoan aveva detto che il greggio a 60 dollari al barile prolungato nel tempo "potrebbe essere una buona notizia" e portare ad uno "0,5% di crescita in più". Oggi la quotazione del Brent è in risalita, ma al momento rimane comunque sotto i 57 dollari.

Quanto alla politica monetaria della Banca centrale, il programma di espansione abbatte i tassi reali sui titoli di Stato e indebolisce l'euro, rafforzando "l’attività economica - ha scritto il Centro studi di Confindustria -. I minori tassi alzano il Pil italiano dello 0,2% nel 2015 e di un ulteriore 0,4% nel 2016; il cambio più debole dello 0,6% in ciascun anno. La spinta complessiva è dunque pari allo 0,8% nel 2015".

Calcolatrice alla mano, tutto ciò significa che, senza il crollo del petrolio e l'apertura dei forzieri da parte della Bce, anche quest'anno avremmo dovuto esultare in caso di stagnazione.

di Giovanni Gnazzi

La macelleria cilena operata dalle cosiddette forze dell’ordine nei giorni del G8 di Genova, è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani. Il comportamento dei poliziotti, penetrati all’improvviso dentro la Diaz, dove hanno pestato a sangue ogni corpo, violato ogni diritto e schiacciato ogni decenza, è stato riconosciuto dalla Corte europea come “tortura”. Il ricorso alla Corte europea era stato inoltrato da Arnaldo Cestaro, selvaggiamente pestato in quella notte da macellai.

I giudici gli hanno dato ragione in toto, decidendo all'unanimità che lo stato italiano ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo dove recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti".

Impossibile cancellare la memoria di quanto avvenuto. Si era appena insediato il governo Berlusconi e il segnale che la destra volle inviare al conflitto sociale e politico del paese fu chiaro: niente sarà permesso, nulla sarà lasciato nelle mani dell’ordine pubblico inteso come garanzia pubblica della convivenza civile.

Si scelse il massacro volutamente, non venne considerata sufficiente la morte di Carlo Giuliani. Diverse testimonianze, dirette e indirette, identificarono in Gianfranco Fini, con tanto di Ascierto di scorta, colui che dirigeva politicamente l’operato della polizia agli ordini di Di Gennaro.

Quella di Genova fu mattanza. Polizia e Carabinieri s’impegnarono particolarmente contro i manifestanti pacifici mentre i cosiddetti “black-block” (alcuni ripresi insieme alle forze dell'ordine) erano abbastanza liberi di attaccare con azioni di guerriglia urbana tutto ciò che niente aveva a che fare con la riunione del G8 ma molto con la necessità di alzare il livello degli incidenti.

L’ingenuità di un movimento impegnato a rivendicare il diritto a manifestare senza porsi il problema di organizzare la possibilità di farlo, dotandosi di una struttura di controllo del corteo, permise agli uomini di nero vestiti di stipulare una sostanziale alleanza con gli altri uniformati nel radere al suolo la protesta pacifica.

A farne le spese furono le centinaia di militanti pacifici pestati a sangue, in un saldo di feriti mai visto prima nella storia delle manifestazioni politiche in Italia. Vi furono vicende di contorno che contribuirono a rendere quelle giornate una delle pagine più luride della storia nazionale.

Non ultimo l’atteggiamento collaborazionista con i macellai da parte di alcuni medici del pronto soccorso, che invece di tutelare i feriti sia sotto il profilo medico sia sotto quello della privacy, come l’etica professionale impone, scelsero in alcuni casi di consegnare agli agenti assatanati corpi e dati di chi dovevano curare.

Dopo tanti anni di denunce, di film e libri, di dibattiti e di tentativi andati a male d’istituire una Commissione parlamentare di vigilanza che facesse piena luce sulle responsabilità dei vertici di polizia a Genova, dopo la sentenza della Cassazione che individuò solo alcuni tra i responsabili della mattanza, giunge ora la condanna ferma della Corte Europea dei Diritti dell’uomo.

L’aspetto più significativo della sentenza europea emessa è la sanzione all’Italia per l’assenza del reato di tortura dal proprio codice penale. L’Italia, unico paese del consesso internazionale evoluto a non prevedere il reato di tortura nel proprio ordinamento, è un Paese nel quale la tortura è sempre esistita.

Nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nelle caserme, nel corso dei fermi per strada e anche nelle piazze, le aggressioni contro inermi, a volte mortali, sono sempre esistite e, al limite, sanzionate blandamente. Aldrovandi o Cucchi sono solo alcuni degli esempi più tristemente noti, come altrettanto tristi e noti gli applausi del SAP agli agenti suoi affiliati che uccisero Aldrovandi.

Anche grazie all’assenza del reato di tortura, benché il massacro della Diaz fosse avvenuto in assoluta inerzia da parte degli ospiti notturni del Genova Social Forum, i massacratori hanno potuto ottenere sanzioni solo relativamente al reato di lesioni.

“Questo risultato - scrivono i giudici europei - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". Infatti, ove il reato di tortura fosse stato presente nell’ordinamento, diverse sarebbero state le pene inflitte dalla sentenza della Cassazione.

La presidente Boldrini ha appena twittato l’annuncio dell’arrivo in aula per la prossima settimana del disegno di legge sulla tortura. Ma benché nello stesso Disegno di legge sembra che il reato di tortura venga identificato in termini generici, alcuni dei poteri forti si oppongono. Inevitabili saranno le pressioni fortissime dei corpi militari e della Polizia per evitare che il Disegno di legge vada in porto. Perché visto che non hanno risorse e mezzi, vogliono almeno l’impunità assoluta o quasi.

Nemmeno l’identificazione degli agenti impegnati in servizio d’ordine pubblico è ancora possibile, nonostante i ripetuti abusi ed eccessi di violenza puntualmente documentati da immagini e video. Eppure è stato dimostrato come iniettare un livello decente di responsabilità in chi opera in nome e per conto dello Stato non può essere garantito se non a fronte del rischio che chi violi le norme ne debba poi rispondere, in uniforme o no.

Davanti ai giudici di Strasburgo pendono ora altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposti nella caserma di Bolzaneto e si prevede che le relative sentenze non tarderanno ad arrivare.

Come disse Roberto Settembre, il giudice estensore della sentenza della Corte d’Appello che condannò gli agenti per il G8, “con l’impunità la democrazia è a rischio”. Purtroppo il cammino per la democrazia piena è ancora lungo e andrebbe percorso come fosse un autostrada. Sentenze come quelle di ieri possono aiutare ad alzare la sbarra al casello.

di Fabrizio Casari

Di Massimo D’Alema si può pensare tutto il bene o tutto il male possibile. Lo si può ritenere l’unico segretario della sinistra che ha vinto o il traghettatore verso il nulla politico del partito che ha diretto; l’ultimo leader del centrosinistra o il primo di essi ad aver inseguito i sogni di ricchezza personale. Ma quale che sia il giudizio sull’uomo (carattere pessimo e spocchia infinita) e sul politico (gestore ed apripista del disarmo ideologico dell’attuale PD, pur se con molto minori responsabilità di Veltroni) le duemila bottiglie di vino che la Coop CPL Concordia ha comprato dall’azienda vinicola di Massimo D’Alema non possono certo figurare come una tangente.

Intanto perché se 87.000 euro possono essere una misura scarsa anche per quanto attiene alla concussione tra soggetti privati, diventano una somma davvero trascurabile nel mercato della corruttela che coinvolge politici e imprenditori, mercato del quale, comunque, non risulta D'Alema faccia parte.

In più, a rafforzare il dubbio circa la dinamica del dare/avere in un meccanismo corruttivo, è davvero stravagante immaginare che una mazzetta venga fatturata. E sostanzialmente faziosa appare la lettura di una presunta fatturazione ad hoc che coprirebbe la donazione, dal momento che risultano regolarmente consegnate le duemila bottiglie di vino prodotte dell’ex leader del PDS e DS.

Peraltro, la quotazione di D’Alema nel sistema relazionale che conta in Italia è decisamente alta e non sono certo 87.000 euro la somma con la quale sarebbe possibile ingraziarsi i favori del fondatore di Italiani-Europei, ammesso che ciò fosse possibile. Con 87000 euro ci si può al massimo ingraziarsi Lupi e il di lui figlio, non l’ex premier del centrosinistra col trattino che fu.

E’ ovvio che chiunque può pensare che l'aquisto sia stato indirettamente un sostegno finanziario alla fondazione che D'Alema dirige. Che per il comune di Ischia, per quanto la cittadina abbia un suo rilievo turistico internazionale, forse 2000 bottiglie possono sembrare eccessive per le esigenze di pubbliche relazioni (va però ricordato che sono state acquistate in uno spazio temporale di due anni).

C'è invece da chiedersi quali siano i criteri utilizzati dagli uffici delle Procure quando fanno filtrare ai giornalisti stralci di intercettazioni che niente hanno a che vedere con le inchieste. Perchè è perfettamente legittimo rendere noto alla cittadinanza, attraverso i media, la sostanza delle accuse che si lanciano, ma quando persone e strutture vengono chiamate in causa senza che nulla li leghi ai fatti oggetto delle indagini, allora il dubbio sull'agire di certa magistratura resta, anzi si rafforza. Ci si può legittimamente chiedere se si costruiscano le proprie carriere togate calpestando quelle politiche.

Risulta ad ogni modo curiosa la coincidenza temporale tra l’esposizione di D’Alema contro Renzi, nell’ambito della discussione interna al PD, e la pubblicazione di stralci delle intercettazioni che lo vorrebbero coinvolto nel sistema di relazioni messo in piedi dalla coop.

Che gli ex dirigenti del PDS e dei DS mantengano buone relazioni con alcune delle aziende affiliate alla Lega delle Cooperative non è certo un mistero; semmai tutto diventa drammatico quando i nuovi esponenti del nuovo PD decidono d’imbarcarsi a modo loro nei rapporti con le cooperative (vedi Mafia capitale, ad esempio). Che poi oggi il PD non sia più nemmeno l'ombra di ciò che avrebbe dovuto rappresentare, questo è altro tema.

Del resto a certificare la definitiva mutazione genetica in partito di destra di quello che fu il partito della sinistra basta osservare come al ridisegno in chiave autoritaria dell'ingegneria istituzionale, si somma l'abolizione sostanziale dello Statuto dei lavoratori, avviando così una riscrittura del patto sociale e costituzionale in funzione delle esigenze delle imprese. Un progetto di governo che, fosse stato nell'agenda del centrodestra, avrebbe fatto gridare al golpe, ma che ora l'antiberlusconismo da salotto lo definisce "rinnovamento". C'è un vecchio detto che recita "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei".

E con chi vanno i nuovi rottamatori? Il segretario del partito e presidente del consiglio ha tra i suoi sponsor Marchionne, Serra e Guerra, ha in Squinzi il suo miglior alleato, governa con i voti di Berlusconi e contro i sindacati. Lo stesso D’Alema, che pure da Renzi lo separa un abisso, si fa comunque finanziare da Fiat, Cir e Pirelli la sua fondazione Italiani-Europei.

Ma non è storia di oggi. Quello di un progressismo senza idee e senza popolo è un cammino dai passi ormai lunghi e decisi. Ad ubriacarsi di sogni imprenditoriali, del mito del neoliberismo e dei salotti della finanza, quello che fu un partito della sinistra ha iniziato ben prima dell’arrivo delle duemila bottiglie del comune di Ischia. A bocca asciutta è rimasto il Paese.

di Antonio Rei

L'importante è decidere, non importa cosa. L'importante è cambiare, non importa come. Ogni novità è benefica per definizione e ogni novità porta la firma di Matteo Renzi. Il decisionismo che guida il Governo è mosso dall'ambizione di un uomo solo, che lascia nel cassetto ciò che non gli serve o gli è addirittura d'ostacolo - come la legge anticorruzione o quella per ri-penalizzare il falso in bilancio - mentre con una raffica di provvedimenti pone se stesso al centro del nuovo assetto di ogni potere.

Partiamo dalle riforme economiche, che hanno come stella polare i desideri di Confindustria e dell'alta finanza, soddisfatti rispettivamente con la riforma del lavoro e con quella delle banche.

La prima facilita i licenziamenti senza giusta causa (puniti al massimo con un indennizzo, non più con il reintegro) e fa risparmiare alle imprese una montagna di soldi con la decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato, misura che peserà sulla fiscalità generale (poiché non prevede alcun contrappeso sul fronte delle entrate) e non offrirà un reale cambiamento di prospettiva ai lavoratori, pienamente licenziabili per tre anni. 

La seconda riforma prevede invece la metamorfosi delle banche popolari più grandi da cooperative in società per azioni, il che significa rinnegare il concetto stesso di cooperazione e rendere ogni istituto potenziale oggetto di scalata da parte di qualsiasi investitore.

Non solo: a questa rivoluzione pro-finanziaria potrebbe presto aggiungersi la creazione di una bad bank pubblica, che consentirà alle banche private di scaricare il peso dei crediti in sofferenza sulle spalle dello Stato (sono d'accordo sia Visco sia Draghi), socializzando ancora una volta le perdite, ma senza alcuna garanzia che il capitale così liberato nei bilanci sarà utilizzato per aumentare il credito.

Per quanto riguarda invece le riforme istituzionali, è innegabile che rispondano a un disegno accentratore. Non si può definire altrimenti il combinato composto di svuotamento del Senato e Italicum, visto che da una parte si trasforma Palazzo Madama in un guscio vuoto, orfano del potere legislativo, mentre dall'altra s'impone ex lege un bipolarismo mai espresso dagli elettori italiani, affidando al vincitore una maggioranza comoda nell'unica Camera rimasta a legiferare. Con tanti saluti al principio costituzionale della rappresentanza elettorale.

Sollevare obiezioni contro una qualsiasi di queste riforme è pienamente legittimo e fondato, ma la retorica renziana ha un'arma infallibile per scaricare la pistola in mano ai contestatori: chi si oppone alle riforme - recita la vulgata - è un conservatore che non vuole il cambiamento, un fan della vecchia politica che rema contro il rilancio del Paese. Entrare nel merito è proibito. Ogni riforma è buona semplicemente perché marca uno spostamento rispetto al passato, a prescindere dalla direzione che imbocca.

A fornire l'esempio migliore di questo perverso trucco retorico è probabilmente la riforma del sistema scolastico. L'hanno battezzata "La buona scuola", autopromuovendosi fin dalla fase di gestazione. Prima che gli italiani potessero leggerla, prima ancora che il Governo la scrivesse, la riforma era già "buona". Poco importa che quel Ddl contenga la definitiva aziendalizzazione della scuola italiana. Prevede delle novità, quindi va bene, e i lamentosi - come al solito - stanno dalla parte di chi ha distrutto il Paese.

La stessa logica viene applicata anche al disegno di legge sulla Rai: "Se il Parlamento tergiversa, allora si terranno la Gasparri - ha tuonato la settimana scorsa Renzi -. Noi non faremo il decreto". Nessuno ha fatto notare al Premier che un decreto per riformare la tv pubblica sarebbe stato un'assurda violenza alla Costituzione, perché tutti sanno che ormai la decretazione non serve più in casi di "necessità e urgenza" (come prevede la Carta), ma abbinata alla fiducia è lo strumento con cui il Governo esercita il potere legislativo, esautorando il Parlamento.

Semmai, a questo punto bisogna chiedersi a cosa servano i disegni di legge. La risposta non è complicata: Renzi li usa quando ci sono delle scadenze importanti da rispettare (le assunzioni dei precari della scuola, il rinnovo del Cda Rai), sperando che il lavoro di commissioni e Aule vada per le lunghe e dimostri l'inefficienza dell'iter parlamentare.

Così il cerchio si chiude: per ripartire serve il cambiamento, per cambiare servono le riforme, per le riforme servono i decreti. E, vista la personalità politica dei ministri, indovinate chi serve per i decreti.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy