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di Fabrizio Casari
Sono passati 70 anni da quando la lotta partigiana contro il fascismo e l’occupazione nazista ebbe il suo epilogo vittorioso. Da quel 25 Aprile del 1945 i partigiani, che avevano dato il loro sangue e il loro coraggio per la liberazione della Patria, riscattarono la dignità di un paese che era stato piegato e piagato da 20 anni di fascismo e dalla guerra che Mussolini volle combattere al fianco di Hitler.
Leggi razziali e guerre coloniali, cessione del paese all’occupante straniero, gas contro le popolazioni africane e uccisioni, fine della libertà politica e sindacale, galere e confino contro gli oppositori, sono solo alcuni dei caratteri emblematici del fascismo, che ha avuto nella partecipazione attiva all’Olocausto la cifra simbolica della sua storia ributtante.
Dagli scioperi del 1943 fino all’insurrezione del 1945, il lavoro clandestino politico e militare della Resistenza, guidata dal Partito Comunista, dal Partito Socialista, dal Partito D’Azione e dalla Democrazia Cristiana, cambiò in profondità sia il volto dell’Italia che l’epilogo del dominio nazifascista. Il cuore combattente, nelle montagne e nelle città fu certamente quello del PCI guidato da Luigi Longo, ma anche il contributo socialista, azionista e cattolico non va sminuito. Da quel 25 Aprile proprio le Brigate Partigiane, contribuirono a formare la cintura di sicurezza di un Paese che nella sconfitta del nazifascismo cominciava a costruire il suo futuro di democrazia partecipativa.
Il 25 Aprile sanciva, infatti, la data spartiacque di due epoche storiche. Dichiarava, senza possibilità di replica, la nuova dimensione dell’Italia che iniziava la sua ricostruzione con sulle spalle l’esperienza della lotta di liberazione. E se oggi continuiamo ad avere una Costituzione tra le più avanzate al mondo, forse la migliore dei paesi occidentali, è proprio grazie alla Resistenza.
Vanno dunque accolte con soddisfazione le parole del Presidente della Repubblica, Mattarella, che ha voluto ribadire con forza come “la Costituzione sia il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra”. Anche per questo è stato quindi un atto dovuto, ma bello, vedere pochi giorni orsono i partigiani festeggiati dall’aula di Montecitorio, che grazie alle loro armi cessò di essere “l’aula sorda e grigia” di mussoliniana memoria.
Una storiografia faziosa e revisionista, che vorrebbe vergognosamente equiparare la legittimità di vincitori e vinti, assegna all’intervento angloamericano il merito della resa nazifascista e della liberazione del Paese dall’occupazione straniera. Ma è bene ricordare come il contributo della lotta di liberazione partigiana sia stata determinante, sia per l’indebolimento politico e militare dell’occupante e del suo alleato fascista, sia per aprire la strada all’ingresso delle truppe alleate.
Tedeschi e fascisti dovettero subire l’incessante attività militare partigiana che ne fiaccò non poco la loro tenuta e spazzò via la loro presunta invincibilità. In montagna come nelle valli e nelle città: in nessun luogo gli invasori e i loro alleati fascisti poterono sentirsi al sicuro.Senza l’azione militare partigiana i tempi e il costo in vite umane dell’arrivo degli alleati sarebbero stati di gran lunga maggiori e le truppe naziste avrebbero potuto disporre di più tempo per tentare di opporre una maggiore resistenza agli sbarchi alleati.
Il contributo militare della Resistenza, dunque, in faccia al revisionismo destrorso che lo vorrebbe limitato nella partecipazione e negli effetti, fu invece fondamentale, come del resto riconosciuto anche dal comando alleato. Basti pensare a Milano o a Genova, dove i tedeschi trattarono la resa direttamente con i partigiani, ben prima dell’arrivo delle truppe angloamericane.
Ma prima ancora che i suoi indiscutibili meriti militari, la resistenza antifascista fu fondamentale per aver offerto al popolo italiano la possibilità di alzare la testa, di trovare la strada possibile per la sua ribellione contro l’oppressore nazifascista. Questo furono i partigiani: il nuovo collante delle classi lavoratrici, che seppero unire il desiderio di libertà al sogno di una società di eguali.
Settant’anni dopo quel 25 Aprile, si possono anche ricordare tutti i tentativi, falliti ma non cessati, di riscrivere la storia di quella guerra e di quella ribellione in chiave revisionista, e nello spacciare una sorta di dolore per tutte le vittime, si tenta di azzerarne le scelte in un indistinto calderone che piega la storia alle convenienze politiche.
Un'operazione politica alla quale anche presunti esponenti della sinistra come l’ex Presidente della Camera Violante hanno offerto il loro contributo, insieme a qualche penna pentita, convertitasi per denaro e rancore alla causa della rilettura di destra della storia. Lo hanno fatto cercando di raccontare quella vicenda assoluta e tragica come una guerra civile tra opposte fazioni e negando così, in profondità, i crimini del fascismo e la resistenza ad essi.
Ma, come scrisse Italo Calvino, “tutti uguali davanti alla morte, ma non davanti alla storia. Come ha ben detto il Presidente Mattarella, “non c'è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall'altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?".La società italiana e la sua vicenda politica non rispecchia, a tanti anni di distanza, quel sistema di valori per il quale i partigiani furono disposti a combattere e a morire e che, certamente, sognavano un’altra Italia e non quella che si andò costruendo. Non a caso e non per errore si è parlato spesso di “Resistenza tradita”, proprio per significare la distanza ideale, politica, sociale, civile e morale dai valori della Resistenza a quelli oggi imperanti.
Ma, settant’anni dopo, il ricordo e la testimonianza di coloro che ebbero l’onore di scrivere nelle città e nelle montagne le pagine più belle della storia italiana, non possono che rappresentare un incitamento a non arrendersi, a cercare il cammino della giustizia sociale e della democrazia.
La libertà e la giustizia sociale sono le due gambe su cui cammina la democrazia e affermarle insieme contro la barbarie fascista di ritorno è il modo migliore di celebrare il settantesimo anniversario della rinascita dell’Italia.
Oggi la Resistenza può continuare a rappresentare la parte migliore della storia dell’Italia se saremo capaci di non dimenticare, di non perdonare, di non indietreggiare; se saremo capaci di vigilare e opporsi con forza all’ignoranza barbara del fascismo di ritorno. Impedendo in primo luogo che venga sbianchettata la pagina più nobile della nostra storia in nome d’insopportabili riconciliazioni nazionali, che vogliono azzerare le responsabilità criminali dei vinti e i meriti storici dei vincitori.
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di Fabrizio Casari
Settecento morti, forse novecento, sono l’ultimo tragico numero con cui l’Occidente può ritenersi un muro invalicabile. Una ecatombe che trasforma il Canale di Sicilia in un cimitero acquatico disegna un confine di morte che supera le acque territoriali e lo spazio aereo e disegna l’unico confine esistente, quello tra la vita e la morte. Stipati, anzi strizzati, in un barcone di 20-30 metri partito dalla zona est di Tripoli, hanno viaggiato come animali e sono morti come nessuno mai dovrebbe morire.
Altre fonti parlano di 950 persone che si trovavano a bordo dell'imbarcazione, dunque i morti potrebbero essere oltre 900. Ventotto i superstiti. Difficilmente verranno ripescati tutti i corpi, ancor più difficilmente verranno ricordati i nomi. Dal 1996 ad oggi, sono ormai decine di migliaia (quasi seimila dal 2013) i corpi sepolti nel Canale di Sicilia, il braccio di mare che per i dannati della terra dovrebbe separare l’orrore dalla speranza.
L’Africa e il Medio Oriente ci restituiscono con decine di migliaia di corpi di disperati il saccheggio del loro territorio e l’indegno supporto a dittatori sanguinari che combattono con l’orecchio teso alle convenienze delle multinazionali e l’occhio aperto sulle vendette tribali che caratterizza la barbarie del combattere. Da questo inferno di povertà e morte gli esseri umani fuggono.
A secoli di sfruttamento delle sue risorse minerali, si sono aggiunti gli appetiti dei trafficanti di armi e delle compagnie petrolifere. Avvoltoi che hanno trovato il menù preferito nelle decine di migliaia di disperati che per un salario combattono e uccidono e in altri avvoltoi quelli che organizzano il traffico di esseri umani che dall’inferno provano a fuggire.
Le guerre scatenate in tutto il Maghreb, la formazione di organizzazioni militari come l’Isis che ha alzato ulteriormente il livello della macelleria nordafricana e mediorientale. Dalla Libia alla Siria, dall’Iraq allo Yemen, il risiko geopolitico che garantisce il dominio occidentale sui paesi produttori di petrolio ha trasformato l’intero Medio Oriente e l’area del Golfo in una pozza di sangue, dollari e petrolio. Ma se il petrolio finisce nella disponibilità delle dinastie e degli emiri e i dollari vanno nelle tasche delle multinazionali, i poveri ci mettono il sangue.
E gli innocenti fuggono, perché restare significa morire. Sanno perfettamente che il loro viaggio non è privo di rischi, ma il morire in mare viene considerato meno brutto e più veloce che morire nel deserto. Morire cercando di sopravvivere rappresenta comunque una possibilità, per quanto scarsa, rispetto alla certezza di non sopravvivere.Le parole di Papa Bergoglio, il miglior Vescovo di Roma in tutta la storia pontificia, rimbombano nel vuoto assoluto della politica che, per definizione, dovrebbe lasciare alla Chiesa il lavoro sulle anime, occupandosi invece lei quello sui corpi. I campioni del cattolicesimo variamente allocati che straparlano quando si tratta di negare i diritti civili, tacciono sui diritti umani.
La politica italiana, a dimostrazione di come il suo livello rasenti ormai il fondo del fondo, è costretta a subire persino l’ascolto delle parole (per modo di dire) di Salvini, un balubba per il quale dobbiamo augurarci possa provare almeno un giorno della sua vita quello che provano tutti i giorni di tutta la vita i migranti.
Ma se quello che esprime Salvini altro non sono che flautolenze del pensiero alla ricerca di voti dei balubba come lui, ben più preoccupante risulta l’incapacità del governo di porre con forza in sede europea il tema dell’assistenza ai migrati.
L’indifferenza di Bruxelles, covo di fanatici funzionari al servizio della grande finanza, non può diventare l’alibi per fermare operazioni come Mare Nostrum. Ci sono modi e forme per far scontare all’Unione Europea il mancato contributo e il mancato rispetto degli impegni assunti in tema di assistenza ai migranti.
A Bruxelles si dovrà dire che o s’impegnano le risorse necessarie all’amministrazione del problema che ha, ovviamente, dimensione europea, oppure saremo noi a ridurre il filtro, a consentire cioè che l’Italia diventi sbarco e terra di passaggio verso i restanti paesi dell’Unione. A questi cialtroni dai colletti bianchi e dalle scarpe nere, che prevedono la libertà assoluta di circolazione per il denaro e il divieto assoluto per gli uomini, non può che essere presentato lo scenario peggiore come scenario unico.
Lungi dal poter pensare che l’Italia possa farsi carico di ricevere e ospitare ogni quantità di migrazione, Roma non può però invocare l’assenza di validi contributi europei per ridurre la presenza umanitaria nelle sue acque territoriali e in quelle di prossimità. L’Italia deve muoversi, Europa o no.
E non è certo con i gulag a cielo aperto come i CIE che potrà essere affrontato il tema dello smistamento dell’accoglienza. Europa o no non possiamo rimanere fermi al limite delle nostre acque a fornire assistenza ai corpi già in mare, ma possiamo e dobbiamo intervenire contro le organizzazioni internazionali degli scafisti ovunque esse si trovino ed operino.
Atteso che non sono nemmeno ipotizzabili politiche preventive e repressive nel fenomeno della migrazione, che riguarda l’intero pianeta, dobbiamo rendere in qualche modo governabile l’immigrazione.
Non solo perché un dovere etico e umanitario, ma proprio perché il tema della salvezza di decine e decine di migliaia di vite umane non può e non deve subire le regole della contabilità. Il valore della vita, l’aiuto ai più deboli e l’assistenza agli innocenti non può essere misurato con la compatibilità dei ragionieri.
E, se proprio si vuole mettere mano alle compatibilità delle risorse finanziarie con quelle dell’animo, si cominci ad indagare quali e quanti sono i costi maggiorati causa corruzione e appalti a “cooperative” nate alla bisogna dalle tasche dei comprimari della politica per riportare le cifre sotto la cifra delle decenza dovuta.
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di Antonio Rei
Il Def è arrivato e, secondo il mantra del governo, non ci saranno "né tagli alla spesa né aumenti delle tasse". A ben vedere, però, la realtà racconta una storia diversa, il cui finale deve ancora essere scritto. Mercoledì si terrà una riunione della Conferenza Stato-Regioni tutt'altro che semplice per l'Esecutivo, che dovrà stabilire insieme ai governatori come e dove applicare i 2,3 miliardi di tagli alla sanità previsti per il 2015, ovvero oltre il 50% dei 4 miliardi di spending review imposti per quest'anno alle Regioni dall'ultima Legge di Stabilità.
Circa un miliardo e mezzo arriverà dal taglio all’acquisto di beni e servizi e altri risparmi sono attesi da interventi sulla rete ospedaliera e forse anche dalla revisione della spesa farmaceutica. Il premier Matteo Renzi ha parlato di una "razionalizzazione della spesa sanitaria" che dovrebbe articolarsi su due piani: applicazione dei costi standard (con "la famosa siringa che dovrà costare la stessa cifra dalla Lombardia alla Calabria") e riduzione delle poltrone ("vi pare possibile che ci siano Regioni con 7 Province e 22 Asl?").
Questi tagli dovrebbero rientrare nei 7,2 miliardi di riduzioni di spesa previsti in generale per tutto l'apparato pubblico, compresi gli altri enti locali (un miliardo dai Comuni) e i ministeri. Il governo assicura che queste decurtazioni non si tradurranno in aumenti delle tasse locali, ma si tratta di un'affermazione discutibile per almeno due ragioni.
Primo: per evitare che l'anno prossimo scatti una clausola di salvaguardia da 16 miliardi, il governo deve reperirne almeno 10 nel 2015. Per riuscirci non può limitarsi a confermare i tagli già previsti dalla scorsa manovra, ma deve aggiungerne di nuovi, e difficilmente ci riuscirà rimanendo sul terreno della "razionalizzazione" e della riduzione della poltrone. E in generale - anche allungando lo sguardo oltre il 2015 -, è ovvio che la diminuzione dei trasferimenti agli enti locali si tradurrà (com'è già accaduto) in un aumento delle accise da parte di Comuni e Regioni, anche perché gli enti locali devono continuare a combattere contro il patto di Stabilità interno, che impedisce loro d'indebitarsi eccessivamente.
Secondo: il governo non aumenta le tasse, ma intende ricavare altri 2,4 miliardi dalla revisione delle agevolazioni fiscali. Non è chiaro se questa operazione, la cosiddetta "tax expenditure", colpirà solo le imprese o - come pare più probabile - anche le famiglie, ma è evidente che un colpo di falce sulle detrazioni produce un effetto analogo a quello di un aumento delle tasse. L'esecutivo, in ogni caso, promette di ridurre la pressione fiscale sotto il 43%: al 42,9% nel 2015 e al 42,6% nel 2016, in entrambi i casi al netto del bonus Irpef da 80 euro.Nel frattempo, con un occhio puntato alle prossime elezioni regionali, il governo ha recuperato un tesoretto da 1,6 miliardi di euro aumentando il deficit dal 2,5% al 2,6% del Pil. Risorse che per il momento Renzi tiene in frigorifero, assicurando che la loro destinazione sarà decisa "nelle prossime settimane". I sindacati vorrebbero che a beneficiare delle nuove risorse fossero i pensionati, i disoccupati, e soprattutto gli incapienti, ovvero le persone che guadagnano troppo poco per pagare l'Irpef e che perciò sono rimaste escluse l'anno scorso dal bonus di 80 euro. All'epoca il Premier aveva assicurato un intervento anche nei loro confronti, ma da allora non se n'è più sentito parlare.
Intanto, il governo ha trovato il modo di litigare anche con Confindustria, che si è fatta sentire picchiando duro con il proprio braccio giornalistico. Il Sole 24 Ore ha scoperto che in uno dei decreti attuativi del Jobs Act è spuntata una clausola di salvaguardia secondo la quale - nel caso in cui si esaurissero i fondi destinati agli incentivi alle assunzioni - le risorse necessarie sarebbero recuperate con un contributo di solidarietà a carico di imprese e lavoratori autonomi.
"Prevedere un aumento dei contributi per tutte le imprese come clausola di salvaguardia dello sconto contributivo per le aziende che stabilizzano i precari supera ogni immaginazione - scrive Fabrizio Forquet sul Sole -. Sembra una boutade, uno sketch di Crozza. E invece qualcuno lo ha scritto davvero nel decreto legislativo sui contratti. Bisognerebbe pretendere il nome di cotanto genio. Di sicuro Renzi interverrà. O no?". Com'era ovvio, il mea culpa del governo è arrivato a stretto giro: il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha assicurato che "la clausola sarà superata prima dell’ok definitivo al provvedimento".
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di Antonio Rei
E' un'onda di numeri a caso quella che Matteo Renzi riversa sui giornalisti a Palazzo Chigi. In attesa di venerdì, quando il Governo presenterà ufficialmente il nuovo Documento di economia e finanza, martedì pomeriggio il Premier si produce in una conferenza stampa dai toni quanto mai berlusconiani. La sparata più grossa, come sempre, riguarda le tasse.
Il Presidente del Consiglio sostiene di averle ridotte addirittura per 21 miliardi: 10 dal bonus di 80 euro, otto dalla decontribuzione dei contratti e tre dal disinnesco di precedenti clausole di salvaguardia. Sorvoliamo sul fatto che la decontribuzione vale tre anni (poi addio) e sull'assurdità di considerare la mancata applicazione di una clausola di salvaguardia alla stregua di una riduzione delle tasse. Restiamo sui numeri.
Il 2 aprile scorso l'Istat ha fatto sapere che nel quarto trimestre del 2014 la pressione fiscale è risultata pari al 50,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali su base annua. In tutto l'anno passato, invece, il dato ha raggiunto il 43,5%, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto al 2013. Com'è potuto accadere, visti i 10 miliardi di riduzione dell'Irpef (per gli amici, "gli 80 euro") decisi a giugno scorso da questo governo? Semplice: se finanzi i tagli alle tasse centrali diminuendo le risorse da girare agli enti locali, questi ultimi compensano i mancati trasferimenti spingendo al massimo le accise locali.
Il meccanismo dei vasi comunicanti si ripete: è già accaduto e continuerà ad accadere. Secondo un focus della Uil, ad esempio, soltanto l'introduzione della Tasi e l'aumento delle addizionali Irpef regionali erodono oltre il 40% dei famosi 80 euro. Poi ci sono gli aumenti scattati a gennaio su sigarette, canone Rai, giornali e benzina (a proposito: come mai l'Eni non taglia mai il prezzo alla pompa in proporzione al crollo delle quotazioni del petrolio?). Si tratta di rincari che pesano sulle tasche di tutti gli italiani, non soltanto su quelle di chi beneficia dei famosi 80 euro, ovvero la classe media.
Basterebbe questo per smentire l'affermazione di Renzi secondo cui "non ci saranno aumenti delle tasse nel 2015". Ci sono già stati, Presidente. Ma Renzi non si ferma e arriva ad assicurare che quest'anno non arriveranno ulteriori tagli alla spesa pubblica. Lo dice proprio mentre il tandem Yoram Gugteld/Roberto Perotti - fresco di nomina al timone della spending review - si sta industriando per portare al Governo 10 miliardi di risparmi nel corso del 2015.
Ora, è verosimile che il duo delle meraviglie arrivi a una cifra del genere solo razionalizzando la spesa, senza tagliare nemmeno un euro ai bilanci degli amministratori? Certo che no, ma non è nemmeno questo l'aspetto più grave. Anche in caso di miracolo, infatti, quei soldi non basterebbero: 10 miliardi non sono pochi, ma le famigerate clausole di salvaguardia valgono 16,8 miliardi nel 2016 e addirittura 23 miliardi nel 2017.
"Non ci saranno tagli alle prestazioni per i cittadini", ribadisce il Premier, distillando rassicurazioni su scelte che non spettano a lui, "ma c'è bisogno che la macchina pubblica dimagrisca un po' e, se i sacrifici li fanno i politici o salta qualche poltrona nei consigli di amministrazione, male non fa". Nulla di più banale e populista, peccato che si scontri con la realtà dei numeri. Ne sa qualcosa il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, il quale garantisce che "se la crescita sarà migliore delle attese le clausole di salvaguardia si disinnescheranno automaticamente". Non è esattamente il rigore scientifico che ci si aspetterebbe da un tecnico, ma lasciamo stare. Concentriamoci piuttosto sulle "attese": il governo prevede per quest'anno una crescita del Pil pari allo 0,7%. E' quanto verosimilmente riusciremo a incassare nell'anno del petrolio a prezzi di saldo e del Quantitative easing della Bce.
In pochi lo ricordano, ma a dicembre lo stesso Padoan aveva detto che il greggio a 60 dollari al barile prolungato nel tempo "potrebbe essere una buona notizia" e portare ad uno "0,5% di crescita in più". Oggi la quotazione del Brent è in risalita, ma al momento rimane comunque sotto i 57 dollari.
Quanto alla politica monetaria della Banca centrale, il programma di espansione abbatte i tassi reali sui titoli di Stato e indebolisce l'euro, rafforzando "l’attività economica - ha scritto il Centro studi di Confindustria -. I minori tassi alzano il Pil italiano dello 0,2% nel 2015 e di un ulteriore 0,4% nel 2016; il cambio più debole dello 0,6% in ciascun anno. La spinta complessiva è dunque pari allo 0,8% nel 2015".
Calcolatrice alla mano, tutto ciò significa che, senza il crollo del petrolio e l'apertura dei forzieri da parte della Bce, anche quest'anno avremmo dovuto esultare in caso di stagnazione.
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di Giovanni Gnazzi
La macelleria cilena operata dalle cosiddette forze dell’ordine nei giorni del G8 di Genova, è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani. Il comportamento dei poliziotti, penetrati all’improvviso dentro la Diaz, dove hanno pestato a sangue ogni corpo, violato ogni diritto e schiacciato ogni decenza, è stato riconosciuto dalla Corte europea come “tortura”. Il ricorso alla Corte europea era stato inoltrato da Arnaldo Cestaro, selvaggiamente pestato in quella notte da macellai.
I giudici gli hanno dato ragione in toto, decidendo all'unanimità che lo stato italiano ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo dove recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti".
Impossibile cancellare la memoria di quanto avvenuto. Si era appena insediato il governo Berlusconi e il segnale che la destra volle inviare al conflitto sociale e politico del paese fu chiaro: niente sarà permesso, nulla sarà lasciato nelle mani dell’ordine pubblico inteso come garanzia pubblica della convivenza civile.
Si scelse il massacro volutamente, non venne considerata sufficiente la morte di Carlo Giuliani. Diverse testimonianze, dirette e indirette, identificarono in Gianfranco Fini, con tanto di Ascierto di scorta, colui che dirigeva politicamente l’operato della polizia agli ordini di Di Gennaro.
Quella di Genova fu mattanza. Polizia e Carabinieri s’impegnarono particolarmente contro i manifestanti pacifici mentre i cosiddetti “black-block” (alcuni ripresi insieme alle forze dell'ordine) erano abbastanza liberi di attaccare con azioni di guerriglia urbana tutto ciò che niente aveva a che fare con la riunione del G8 ma molto con la necessità di alzare il livello degli incidenti.
L’ingenuità di un movimento impegnato a rivendicare il diritto a manifestare senza porsi il problema di organizzare la possibilità di farlo, dotandosi di una struttura di controllo del corteo, permise agli uomini di nero vestiti di stipulare una sostanziale alleanza con gli altri uniformati nel radere al suolo la protesta pacifica.A farne le spese furono le centinaia di militanti pacifici pestati a sangue, in un saldo di feriti mai visto prima nella storia delle manifestazioni politiche in Italia. Vi furono vicende di contorno che contribuirono a rendere quelle giornate una delle pagine più luride della storia nazionale.
Non ultimo l’atteggiamento collaborazionista con i macellai da parte di alcuni medici del pronto soccorso, che invece di tutelare i feriti sia sotto il profilo medico sia sotto quello della privacy, come l’etica professionale impone, scelsero in alcuni casi di consegnare agli agenti assatanati corpi e dati di chi dovevano curare.
Dopo tanti anni di denunce, di film e libri, di dibattiti e di tentativi andati a male d’istituire una Commissione parlamentare di vigilanza che facesse piena luce sulle responsabilità dei vertici di polizia a Genova, dopo la sentenza della Cassazione che individuò solo alcuni tra i responsabili della mattanza, giunge ora la condanna ferma della Corte Europea dei Diritti dell’uomo.
L’aspetto più significativo della sentenza europea emessa è la sanzione all’Italia per l’assenza del reato di tortura dal proprio codice penale. L’Italia, unico paese del consesso internazionale evoluto a non prevedere il reato di tortura nel proprio ordinamento, è un Paese nel quale la tortura è sempre esistita.
Nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nelle caserme, nel corso dei fermi per strada e anche nelle piazze, le aggressioni contro inermi, a volte mortali, sono sempre esistite e, al limite, sanzionate blandamente. Aldrovandi o Cucchi sono solo alcuni degli esempi più tristemente noti, come altrettanto tristi e noti gli applausi del SAP agli agenti suoi affiliati che uccisero Aldrovandi.
Anche grazie all’assenza del reato di tortura, benché il massacro della Diaz fosse avvenuto in assoluta inerzia da parte degli ospiti notturni del Genova Social Forum, i massacratori hanno potuto ottenere sanzioni solo relativamente al reato di lesioni.
“Questo risultato - scrivono i giudici europei - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". Infatti, ove il reato di tortura fosse stato presente nell’ordinamento, diverse sarebbero state le pene inflitte dalla sentenza della Cassazione.
La presidente Boldrini ha appena twittato l’annuncio dell’arrivo in aula per la prossima settimana del disegno di legge sulla tortura. Ma benché nello stesso Disegno di legge sembra che il reato di tortura venga identificato in termini generici, alcuni dei poteri forti si oppongono. Inevitabili saranno le pressioni fortissime dei corpi militari e della Polizia per evitare che il Disegno di legge vada in porto. Perché visto che non hanno risorse e mezzi, vogliono almeno l’impunità assoluta o quasi. Nemmeno l’identificazione degli agenti impegnati in servizio d’ordine pubblico è ancora possibile, nonostante i ripetuti abusi ed eccessi di violenza puntualmente documentati da immagini e video. Eppure è stato dimostrato come iniettare un livello decente di responsabilità in chi opera in nome e per conto dello Stato non può essere garantito se non a fronte del rischio che chi violi le norme ne debba poi rispondere, in uniforme o no.
Davanti ai giudici di Strasburgo pendono ora altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposti nella caserma di Bolzaneto e si prevede che le relative sentenze non tarderanno ad arrivare.
Come disse Roberto Settembre, il giudice estensore della sentenza della Corte d’Appello che condannò gli agenti per il G8, “con l’impunità la democrazia è a rischio”. Purtroppo il cammino per la democrazia piena è ancora lungo e andrebbe percorso come fosse un autostrada. Sentenze come quelle di ieri possono aiutare ad alzare la sbarra al casello.