di Fabrizio Casari

Di Massimo D’Alema si può pensare tutto il bene o tutto il male possibile. Lo si può ritenere l’unico segretario della sinistra che ha vinto o il traghettatore verso il nulla politico del partito che ha diretto; l’ultimo leader del centrosinistra o il primo di essi ad aver inseguito i sogni di ricchezza personale. Ma quale che sia il giudizio sull’uomo (carattere pessimo e spocchia infinita) e sul politico (gestore ed apripista del disarmo ideologico dell’attuale PD, pur se con molto minori responsabilità di Veltroni) le duemila bottiglie di vino che la Coop CPL Concordia ha comprato dall’azienda vinicola di Massimo D’Alema non possono certo figurare come una tangente.

Intanto perché se 87.000 euro possono essere una misura scarsa anche per quanto attiene alla concussione tra soggetti privati, diventano una somma davvero trascurabile nel mercato della corruttela che coinvolge politici e imprenditori, mercato del quale, comunque, non risulta D'Alema faccia parte.

In più, a rafforzare il dubbio circa la dinamica del dare/avere in un meccanismo corruttivo, è davvero stravagante immaginare che una mazzetta venga fatturata. E sostanzialmente faziosa appare la lettura di una presunta fatturazione ad hoc che coprirebbe la donazione, dal momento che risultano regolarmente consegnate le duemila bottiglie di vino prodotte dell’ex leader del PDS e DS.

Peraltro, la quotazione di D’Alema nel sistema relazionale che conta in Italia è decisamente alta e non sono certo 87.000 euro la somma con la quale sarebbe possibile ingraziarsi i favori del fondatore di Italiani-Europei, ammesso che ciò fosse possibile. Con 87000 euro ci si può al massimo ingraziarsi Lupi e il di lui figlio, non l’ex premier del centrosinistra col trattino che fu.

E’ ovvio che chiunque può pensare che l'aquisto sia stato indirettamente un sostegno finanziario alla fondazione che D'Alema dirige. Che per il comune di Ischia, per quanto la cittadina abbia un suo rilievo turistico internazionale, forse 2000 bottiglie possono sembrare eccessive per le esigenze di pubbliche relazioni (va però ricordato che sono state acquistate in uno spazio temporale di due anni).

C'è invece da chiedersi quali siano i criteri utilizzati dagli uffici delle Procure quando fanno filtrare ai giornalisti stralci di intercettazioni che niente hanno a che vedere con le inchieste. Perchè è perfettamente legittimo rendere noto alla cittadinanza, attraverso i media, la sostanza delle accuse che si lanciano, ma quando persone e strutture vengono chiamate in causa senza che nulla li leghi ai fatti oggetto delle indagini, allora il dubbio sull'agire di certa magistratura resta, anzi si rafforza. Ci si può legittimamente chiedere se si costruiscano le proprie carriere togate calpestando quelle politiche.

Risulta ad ogni modo curiosa la coincidenza temporale tra l’esposizione di D’Alema contro Renzi, nell’ambito della discussione interna al PD, e la pubblicazione di stralci delle intercettazioni che lo vorrebbero coinvolto nel sistema di relazioni messo in piedi dalla coop.

Che gli ex dirigenti del PDS e dei DS mantengano buone relazioni con alcune delle aziende affiliate alla Lega delle Cooperative non è certo un mistero; semmai tutto diventa drammatico quando i nuovi esponenti del nuovo PD decidono d’imbarcarsi a modo loro nei rapporti con le cooperative (vedi Mafia capitale, ad esempio). Che poi oggi il PD non sia più nemmeno l'ombra di ciò che avrebbe dovuto rappresentare, questo è altro tema.

Del resto a certificare la definitiva mutazione genetica in partito di destra di quello che fu il partito della sinistra basta osservare come al ridisegno in chiave autoritaria dell'ingegneria istituzionale, si somma l'abolizione sostanziale dello Statuto dei lavoratori, avviando così una riscrittura del patto sociale e costituzionale in funzione delle esigenze delle imprese. Un progetto di governo che, fosse stato nell'agenda del centrodestra, avrebbe fatto gridare al golpe, ma che ora l'antiberlusconismo da salotto lo definisce "rinnovamento". C'è un vecchio detto che recita "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei".

E con chi vanno i nuovi rottamatori? Il segretario del partito e presidente del consiglio ha tra i suoi sponsor Marchionne, Serra e Guerra, ha in Squinzi il suo miglior alleato, governa con i voti di Berlusconi e contro i sindacati. Lo stesso D’Alema, che pure da Renzi lo separa un abisso, si fa comunque finanziare da Fiat, Cir e Pirelli la sua fondazione Italiani-Europei.

Ma non è storia di oggi. Quello di un progressismo senza idee e senza popolo è un cammino dai passi ormai lunghi e decisi. Ad ubriacarsi di sogni imprenditoriali, del mito del neoliberismo e dei salotti della finanza, quello che fu un partito della sinistra ha iniziato ben prima dell’arrivo delle duemila bottiglie del comune di Ischia. A bocca asciutta è rimasto il Paese.

di Antonio Rei

L'importante è decidere, non importa cosa. L'importante è cambiare, non importa come. Ogni novità è benefica per definizione e ogni novità porta la firma di Matteo Renzi. Il decisionismo che guida il Governo è mosso dall'ambizione di un uomo solo, che lascia nel cassetto ciò che non gli serve o gli è addirittura d'ostacolo - come la legge anticorruzione o quella per ri-penalizzare il falso in bilancio - mentre con una raffica di provvedimenti pone se stesso al centro del nuovo assetto di ogni potere.

Partiamo dalle riforme economiche, che hanno come stella polare i desideri di Confindustria e dell'alta finanza, soddisfatti rispettivamente con la riforma del lavoro e con quella delle banche.

La prima facilita i licenziamenti senza giusta causa (puniti al massimo con un indennizzo, non più con il reintegro) e fa risparmiare alle imprese una montagna di soldi con la decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato, misura che peserà sulla fiscalità generale (poiché non prevede alcun contrappeso sul fronte delle entrate) e non offrirà un reale cambiamento di prospettiva ai lavoratori, pienamente licenziabili per tre anni. 

La seconda riforma prevede invece la metamorfosi delle banche popolari più grandi da cooperative in società per azioni, il che significa rinnegare il concetto stesso di cooperazione e rendere ogni istituto potenziale oggetto di scalata da parte di qualsiasi investitore.

Non solo: a questa rivoluzione pro-finanziaria potrebbe presto aggiungersi la creazione di una bad bank pubblica, che consentirà alle banche private di scaricare il peso dei crediti in sofferenza sulle spalle dello Stato (sono d'accordo sia Visco sia Draghi), socializzando ancora una volta le perdite, ma senza alcuna garanzia che il capitale così liberato nei bilanci sarà utilizzato per aumentare il credito.

Per quanto riguarda invece le riforme istituzionali, è innegabile che rispondano a un disegno accentratore. Non si può definire altrimenti il combinato composto di svuotamento del Senato e Italicum, visto che da una parte si trasforma Palazzo Madama in un guscio vuoto, orfano del potere legislativo, mentre dall'altra s'impone ex lege un bipolarismo mai espresso dagli elettori italiani, affidando al vincitore una maggioranza comoda nell'unica Camera rimasta a legiferare. Con tanti saluti al principio costituzionale della rappresentanza elettorale.

Sollevare obiezioni contro una qualsiasi di queste riforme è pienamente legittimo e fondato, ma la retorica renziana ha un'arma infallibile per scaricare la pistola in mano ai contestatori: chi si oppone alle riforme - recita la vulgata - è un conservatore che non vuole il cambiamento, un fan della vecchia politica che rema contro il rilancio del Paese. Entrare nel merito è proibito. Ogni riforma è buona semplicemente perché marca uno spostamento rispetto al passato, a prescindere dalla direzione che imbocca.

A fornire l'esempio migliore di questo perverso trucco retorico è probabilmente la riforma del sistema scolastico. L'hanno battezzata "La buona scuola", autopromuovendosi fin dalla fase di gestazione. Prima che gli italiani potessero leggerla, prima ancora che il Governo la scrivesse, la riforma era già "buona". Poco importa che quel Ddl contenga la definitiva aziendalizzazione della scuola italiana. Prevede delle novità, quindi va bene, e i lamentosi - come al solito - stanno dalla parte di chi ha distrutto il Paese.

La stessa logica viene applicata anche al disegno di legge sulla Rai: "Se il Parlamento tergiversa, allora si terranno la Gasparri - ha tuonato la settimana scorsa Renzi -. Noi non faremo il decreto". Nessuno ha fatto notare al Premier che un decreto per riformare la tv pubblica sarebbe stato un'assurda violenza alla Costituzione, perché tutti sanno che ormai la decretazione non serve più in casi di "necessità e urgenza" (come prevede la Carta), ma abbinata alla fiducia è lo strumento con cui il Governo esercita il potere legislativo, esautorando il Parlamento.

Semmai, a questo punto bisogna chiedersi a cosa servano i disegni di legge. La risposta non è complicata: Renzi li usa quando ci sono delle scadenze importanti da rispettare (le assunzioni dei precari della scuola, il rinnovo del Cda Rai), sperando che il lavoro di commissioni e Aule vada per le lunghe e dimostri l'inefficienza dell'iter parlamentare.

Così il cerchio si chiude: per ripartire serve il cambiamento, per cambiare servono le riforme, per le riforme servono i decreti. E, vista la personalità politica dei ministri, indovinate chi serve per i decreti.

di Carlo Musilli

Il declino dei sindacati è la causa principale dell'aumento della concentrazione della ricchezza negli ultimi decenni. A dirlo non è un manipolo di pensatori alternativi e no-global, ma il Fondo monetario internazionale, il principale alfiere planetario del neoliberismo e della globalizzazione.

Nei Paesi avanzati, tra il 1980 e il 2010, la quota del reddito complessivo in mano al 10% della popolazione più ricca è aumentata del 5%. Secondo uno studio (in via di pubblicazione) firmato da due economiste del Fmi, Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron, il fenomeno si spiega per metà con la crisi dei sindacati, che hanno visto crollare il numero d'iscritti del 50% nel corso del trentennio, perdendo così buona parte della loro capacità di negoziare sui salari.

Nelle anticipazioni della ricerca pubblicate sulla rivista del Fondo Finance & Development si legge che "l'indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro", e inducendo le imprese a prendere decisioni che avvantaggiano i dirigenti, ad esempio in materia di stipendi e bonus ai top manager.

Lo studio, intitolato "Power from the people" sulla falsariga della canzone di John Lennon "Power to the people", prende in considerazione diversi fattori - dalla tecnologia alla globalizzazione, passando per la liberalizzazione finanziaria e fiscale - ma conferma che "il declino della sindacalizzazione è fortemente associato all'aumento della quota di reddito" nelle mani dei ricchi. Com'è emerso anche da uno studio di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia, questa iniquità può indebolire la crescita, rendendola meno sostenibile e addirittura nociva per la società, "perché consente ai più ricchi di manipolare in proprio favore il sistema economico e politico".

Jaumotte e Osorio Buitron sostengono che la "lotta per la redistribuzione del reddito" debba passare per la restaurazione del sindacato come "mediatore sociale", ma non spiegano in che modo ciò possa avvenire, sorvolando sul più grave dei problemi interni al sindacato di oggi, ovvero l'incapacità di rappresentare le varie tipologie di lavoro precario prodotte dalle politiche neoliberiste.

La tesi di fondo delle due economiste è che "sindacati più forti" potrebbero "mobilitare i lavoratori a votare per i partiti che promettono di ridistribuire il reddito". Conclusioni che naturalmente sono state accolte con favore dai sindacalisti, compresi quelli italiani: "Penso che questo studio debba far riflettere i tanti sostenitori dell'inutilità della mediazione politica, economica e sociale svolta dai corpi intermedi", ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso. "Il sindacato è fondamentale per la crescita", le ha fatto eco Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl. "La rappresentanza dei lavoratori ha sempre avuto la funzione di riequilibrare gli assetti sociali ed economici: una funzione non gradita a molti potentati", ha chiosato il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo.

Esclusi da ogni forma di concertazione nel nostro Paese, i sindacati si ritrovano così a fare il tifo per il proprio carnefice. Sarebbe però assurdo immaginare che lo studio di Jaumotte e Osorio Buitron preluda a un'inversione a U nelle politiche economiche del Fondo. Si tratta piuttosto di una dissociazione estemporanea, uno di quegli sdoppiamenti reversibili alla Stevenson che possono manifestarsi nel cervello del neoliberismo.

Il prefisso "neo" è cruciale, perché non stiamo parlando del liberismo, ma della sua degenerazione. Un processo iniziato negli Usa e nella Gran Bretagna degli anni Ottanta con la deregolamentazione dei mercati finanziari e la scelta di tagliare le tasse ai più ricchi, giustificata dal presupposto che chi ha più risorse ha anche più possibilità di creare lavoro e benessere.

Le principali conseguenze sono state almeno tre (tutte decisive per la crisi del 2008): il gonfiarsi di bolle speculative, la progressiva concentrazione della ricchezza e la parallela crescita dell'indebitamento della classe media, che per continuare a vivere secondo i propri standard ha fatto un ricorso sempre più massiccio al credito, dal momento che, mentre la produttività aumentava, i salari rimanevano al palo e la quota di profitto destinata ai lavoratori si riduceva. 

Nessuna di queste storture è stata corretta dopo la crisi (anzi, ne sono state create di nuove), ma la consapevolezza degli errori commessi causa a volte dei corto circuiti. E così il Fondo monetario si produce saltuariamente in affermazioni di brutale autocritica, quasi sempre oggetto d'immediata rimozione. Come dimenticare i vari mea culpa pronunciati per i disastri dell'austerità in Grecia, cui non è mai seguita alcuna correzione di rotta? Ora invece si parla di sindacati, e c'è da scommettere che gli organi esecutivi del Fondo accoglieranno la nuova ricerca come fa Renzi con le obiezioni dei sindacalisti italiani: "Ce ne faremo una ragione".

di Antonio Rei

Come uno Stato non è un gruppo industriale e un governo non è un Cda, così una scuola non è un'azienda e un preside non è un amministratore delegato. Peccato che la riforma presentata la settimana scorsa dal governo Renzi sia esattamente questo: il principio aziendale definitivamente applicato alla realtà scolastica. Un abominio, ma non un'invenzione originale. Già il governo Berlusconi aveva provato a imprimere una svolta simile (pur senza addolcire la pillola con il piano d'assunzioni), ma il modello originario è la concezione della scuola tipica del mondo anglosassone, dove gli alunni sono trattati come clienti da soddisfare, non come individui cui garantire gli strumenti per sviluppare un'intelligenza critica.

L'aspetto più preoccupante della "Buona Scuola" è il surplus di potere messo nelle mani dei presidi, che potranno scegliere gli insegnanti da un albo territoriale e selezionare ogni anno il 5% del corpo docenti cui assegnare un premio economico.

Non ci vuole molto a capire che si tratta di un clamoroso incentivo agli accordi sottobanco, tanto più assurdo in un Paese che già si distingue per il tasso di corruzione più alto d'Europa. E' così difficile immaginare un preside che chieda mazzette, appoggi politici o addirittura favori sessuali in cambio di un posto di lavoro nella propria scuola? No, ma la Buona Scuola spiana la strada a nefandezze di questo tipo.

Anche a voler ammettere che in Italia non esistano presidi corruttibili, però, il problema non è risolto. Il nuovo potere affidato ai dirigenti scolastici, infatti, limita anche l'autonomia professionale dei docenti. I presidi in molti casi puntano al gradimento delle famiglie per non veder calare il numero d'iscritti, da cui dipende l'ammontare dei fondi destinati al loro istituto.

E' quindi verosimile che molti insegnanti saranno messi di fronte a ricatti di questo tipo: "Ti faccio venire a lavorare nella mia scuola, ma devi mettere voti alti". Oppure: "Se vuoi continuare a lavorare qui ti conviene non bocciare nessuno". I professori subiscono da anni pressioni di questo tipo e la nuova riforma dà loro un ottimo motivo per cedere.  

Il testo contiene anche due aspetti positivi: la possibilità di destinare il 5 per mille alle scuole (già l'anno scorso si poteva dare l'8 per mille ai progetti per l'edilizia scolastica, ma il Governo aveva evitato di pubblicizzare la novità in modo da non compromettere l'afflusso di denaro al Vaticano) e lo "school bonus", ovvero un credito d'imposta del 65% per chi farà donazioni a favore delle scuole per la costruzione di nuovi edifici, per la manutenzione e per la promozione di progetti dedicati all’occupabilità degli studenti.

A controbilanciare queste novità lodevoli c'è però il solito regalo a chi di regali non ha alcun bisogno. Le spese per l'iscrizione del proprio figlio alla scuola paritaria - un eufemismo per "scuola privata", che in Italia vuol dire spesso "scuola cattolica" - si potranno detrarre fino alle medie. Il principio della sussidiarietà orizzontale pubblico-privato è previsto dalla Costituzione e, in teoria, le scuole private alleggeriscono il peso sulle spalle dello Stato, che quindi ha interesse a sostenerle.

Il problema è che questo nuovo bonus non prevede tetti di reddito: anche chi guadagna 10mila euro al mese otterrà uno sconto dallo Stato per la scuola privata dei figli. Un modo veramente curioso d'impiegare le risorse mentre diversi edifici scolastici pubblici cadono a pezzi.

Veniamo ora al capitolo assunzioni. Non si tratta di un'iniziativa spontanea del nostro Governo: lo scorso 26 novembre la Corte europea si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti precari nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente deve essere assunto.

Per questa ragione, a settembre dell'anno scorso il premier Matteo Renzi aveva annunciato la stabilizzazione di 148mila precari. Negli ultimi mesi però questo numeri si è ridotto di un terzo, e ora la Buona Scuola prevede non più di 100mila assunzioni.

E' significativo, infine, che il Governo abbia scelto proprio questa riforma per utilizzare lo strumento del disegno di legge, rispondendo così alle critiche di chi lo accusa d'eccessiva decretazione. L'aspetto ironico è che - dopo tanti decreti del tutto immotivati, come quello sulle banche popolari - stavolta le "condizioni di necessità ed urgenza" prescritte dalla Costituzione per il ricorso al decreto legge ci sarebbero state.

La sentenza della Corte europea era una motivazione valida, ma Renzi ha preferito affidarsi al Parlamento. Se poi le Camere non riusciranno ad approvare la legge in tempo per far scattare le assunzioni, è probabile che il Premier arriverà su un cavallo bianco a salvare la situazione con un decreto in extremis. E vedremo se in questo ulteriore passaggio si perderanno per strada altre assunzioni.

di Rosa Ana De Santis

Gli specialisti dei sondaggi e della cronaca politica, dopo Piazza del Popolo di sabato scorso, hanno già tracciato l’identikit dell’alleanza pasticciata tra Lega e Casa Pound, nata unicamente per accattonare voti sulle ceneri di Silvio Berlusconi e ammantata con abilità da Matteo Salvini, il vero dominus del minestrone, di ambizioni quasi cristiane: la difesa degli ultimi di questo tempo storico. Gli ultimi dentro il Grande Raccordo Anulare. Divertente.

Fin troppo semplice fare ironia sull’eterogeneità di questo matrimonio tra un movimento politico di ispirazione fascista, tutto patria e nazionalismo, e quel brandello di Lega Nord verginizzato dal nuovo segretario che ha promosso per oltre venti anni la cultura della secessione e il disprezzo per la patria e l’unità nazionale. La bizzarra teoria dell’onore secondo la quale i balilla di Casa Pound accettano in casa le bandiere della Padania restituisce ai commentatori un’immagine penosa degli adepti di questo fascismo 2.0 e del loro dux Di Stefano.

Ve lo immaginate Benito Mussolini siglare un patto d’acciaio con disordinati lanzichenecchi qualsiasi, che sputano sul tricolore, rinnegano la storia risorgimentale e promuovono l’autarchia regionale per il Nord dopo aver saccheggiato i palazzi di Roma?

Casa Pound svela in quest’operazione la sua quintessenza. Altro che formazione e cultura, lezioni di storia e filosofia, recupero dei fasti di una storia nobile, studio delle dottrine alternative. Un drappello impunito di giovinastri animati di violenza verbale e fisica, delinquenziale, con un bisogno disperato di assomigliare a qualcuno, uno qualsiasi, sprovvisti di formazione culturale minima, bramosi di un capro espiatorio a caso per sentirsi valorosi. Manodopera orfana persino dell’orrore delle idee fasciste che si lascia assoldare dai leghisti il cui sogno di secessione è finito a Tirana nella compravendita della laurea del figlio del loro capo. Divertente anche questo.

La pericolosità di questa alleanza consiste proprio nel suo disordine ideologico. Quella del fascismo era annidata nella chiarezza di un manifesto culturale e politico ben definito, che ha avuto una sua parabola di ascesa e declino incastonata nel quadro di un conflitto mondiale. Dal Sansepolcrismo in poi il fascismo italiano, pur in alcuni cambi di rotta dettati dalla scena internazionale, non perse mai alcune connotazioni programmatiche del modello di società su cui era stata fondata la sua tragica missione politica.

Oggi abbiamo invece degli orfani del Duce, perdenti da generazioni e per questo ancor più pericolosi, in cerca pirandelliana d’autore che salgono sul Carroccio solo per la speranza di spuntare una vittoria e di contare di più. Il punto di unione tra secessionisti e nazionalisti è l’atto di guerra ad un nemico comune, peggiore di quelli noti nel perimetro di casa.

Il nemico assoluto diventa, nel linguaggio sdoganato e infarcito ormai di turpiloquio perdonato (perché cosi si è più vicini all’uomo della strada e si è più autentici), lo straniero. Non ogni straniero, attenzione, non lo straniero ricco del passato, ma quello disperato e ramingo che arriva per mare, sui gommoni e dalle coste dell’Africa. L’ultimo degli ultimi. Il più debole, proprio lui, fa tanta paura.

Nessuno ricorda più l’immigrazione comunitaria Europea che pure tanti interrogativi di governabilità ha lasciato inesplorati. Ormai lo straniero è africano (nero), islamico, presunto - e nemmeno troppo - terrorista a bordo di un gommone, e magari anche traghettatore di Ebola, quella che ha viaggiato indisturbata in prima classe sugli aerei di linea. Il mix fatale di sotto idee evoca pensieri e parole da Ku Klux Klan.

Questo è il pericoloso vangelo di Lega Pound: etnicizzazione del male e, peggio,  etnicizzazione della povertà e di alcune in modo particolare; ridicola ricerca dell’italianità di sangue (non è sciolto il dubbio se settentrionale o meridionale o prima e dopo la legge che Renzi farà sulla cittadinanza alle seconde generazioni di immigrati) come bussola di una qualsiasi azione di governo, nazionale o locale che sia.

Siamo già agli alti livelli della discriminazione razziale del nazismo più fulgido. Altro che fascismo italiota. Siamo alla teorizzazione dei popoli buoni e meno buoni, siamo alla benedizione di un olocausto già in atto. Soprattutto siamo nella confusione di chi avendo studiato poco e male spaccia soluzioni ignorando che il continente africano non sia esattamente come la Lombardia e propone piani di intervento in  loco che farebbero sorridere uno studente di scienze politiche al primo anno.

Nella trasmissione di martedi sera, Le Invasioni Barbariche, intervistato da Daria Bignardi, Matteo Salvini ha preso a modello la politica dell’Australia sull’immigrazione. Un buon paradigma certamente.

Ma non si può essere credibili quando si parla di governare il fenomeno dell’immigrazione con velleità da stratega e statista, e nelle piazze si diventa un capo curva di stadio, si incita alla caccia all’uomo, a solleticare gli istinti più bassi e in tv si sguinzaglia come onorevole un Bonanno che definisce i rom “feccia dell’umanità”. La sensazione è che in un paese del primo mondo, come lo chiamerebbe Salvini, questo mercato di stracci non ci sarebbe.

Perché Salvini con le sue felpe sta molto bene, a pensarci, in un circo di cinghiamattanza alla Casa Pound, e sta malissimo su qualsiasi scranno istituzionale. Perché non ha pudore di non andare in quelle terre, da Roma in giù, che per anni il suo partito ha umiliato e denigrato. Nessuno stupore che il figlio di Bossi si allei con i fascisti, perché in fondo il fascismo, che storicamente è morto, è diventato un abito dello spirito e, in tal senso, i leghisti lo sono sempre stati anche quando non ne erano consapevoli.

Ben più e meglio di questi reduci di Casa Pound che nelle polverose stanze dei cimeli vorrebbero tornare alla mistica di una violenza politica che nelle loro mani è diventata violenza punto, prestazione d’opera per ovunque ci si possa sentire uomini (magari con una spranga in mano contro un barbone), con un tasso di ingenuità che unico, Salvini, giocatore vanesio di questa partita tutta personale, non ha.

Ci crede davvero nella vittoria il drappello dei zelanti operai del nuovo razzismo made in Italy che le Lega ha assoldato a buon prezzo. Mercenari che saranno sconfitti un’altra volta. Non dalla storia in questo caso, ma dalla geografia. Regaliamo a Casa Pound un atlante.



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