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di Carlo Musilli
Il declino dei sindacati è la causa principale dell'aumento della concentrazione della ricchezza negli ultimi decenni. A dirlo non è un manipolo di pensatori alternativi e no-global, ma il Fondo monetario internazionale, il principale alfiere planetario del neoliberismo e della globalizzazione.
Nei Paesi avanzati, tra il 1980 e il 2010, la quota del reddito complessivo in mano al 10% della popolazione più ricca è aumentata del 5%. Secondo uno studio (in via di pubblicazione) firmato da due economiste del Fmi, Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron, il fenomeno si spiega per metà con la crisi dei sindacati, che hanno visto crollare il numero d'iscritti del 50% nel corso del trentennio, perdendo così buona parte della loro capacità di negoziare sui salari.
Nelle anticipazioni della ricerca pubblicate sulla rivista del Fondo Finance & Development si legge che "l'indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro", e inducendo le imprese a prendere decisioni che avvantaggiano i dirigenti, ad esempio in materia di stipendi e bonus ai top manager.
Lo studio, intitolato "Power from the people" sulla falsariga della canzone di John Lennon "Power to the people", prende in considerazione diversi fattori - dalla tecnologia alla globalizzazione, passando per la liberalizzazione finanziaria e fiscale - ma conferma che "il declino della sindacalizzazione è fortemente associato all'aumento della quota di reddito" nelle mani dei ricchi. Com'è emerso anche da uno studio di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia, questa iniquità può indebolire la crescita, rendendola meno sostenibile e addirittura nociva per la società, "perché consente ai più ricchi di manipolare in proprio favore il sistema economico e politico".
Jaumotte e Osorio Buitron sostengono che la "lotta per la redistribuzione del reddito" debba passare per la restaurazione del sindacato come "mediatore sociale", ma non spiegano in che modo ciò possa avvenire, sorvolando sul più grave dei problemi interni al sindacato di oggi, ovvero l'incapacità di rappresentare le varie tipologie di lavoro precario prodotte dalle politiche neoliberiste.
La tesi di fondo delle due economiste è che "sindacati più forti" potrebbero "mobilitare i lavoratori a votare per i partiti che promettono di ridistribuire il reddito". Conclusioni che naturalmente sono state accolte con favore dai sindacalisti, compresi quelli italiani: "Penso che questo studio debba far riflettere i tanti sostenitori dell'inutilità della mediazione politica, economica e sociale svolta dai corpi intermedi", ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso. "Il sindacato è fondamentale per la crescita", le ha fatto eco Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl. "La rappresentanza dei lavoratori ha sempre avuto la funzione di riequilibrare gli assetti sociali ed economici: una funzione non gradita a molti potentati", ha chiosato il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo.
Esclusi da ogni forma di concertazione nel nostro Paese, i sindacati si ritrovano così a fare il tifo per il proprio carnefice. Sarebbe però assurdo immaginare che lo studio di Jaumotte e Osorio Buitron preluda a un'inversione a U nelle politiche economiche del Fondo. Si tratta piuttosto di una dissociazione estemporanea, uno di quegli sdoppiamenti reversibili alla Stevenson che possono manifestarsi nel cervello del neoliberismo.
Il prefisso "neo" è cruciale, perché non stiamo parlando del liberismo, ma della sua degenerazione. Un processo iniziato negli Usa e nella Gran Bretagna degli anni Ottanta con la deregolamentazione dei mercati finanziari e la scelta di tagliare le tasse ai più ricchi, giustificata dal presupposto che chi ha più risorse ha anche più possibilità di creare lavoro e benessere.
Le principali conseguenze sono state almeno tre (tutte decisive per la crisi del 2008): il gonfiarsi di bolle speculative, la progressiva concentrazione della ricchezza e la parallela crescita dell'indebitamento della classe media, che per continuare a vivere secondo i propri standard ha fatto un ricorso sempre più massiccio al credito, dal momento che, mentre la produttività aumentava, i salari rimanevano al palo e la quota di profitto destinata ai lavoratori si riduceva.
Nessuna di queste storture è stata corretta dopo la crisi (anzi, ne sono state create di nuove), ma la consapevolezza degli errori commessi causa a volte dei corto circuiti. E così il Fondo monetario si produce saltuariamente in affermazioni di brutale autocritica, quasi sempre oggetto d'immediata rimozione. Come dimenticare i vari mea culpa pronunciati per i disastri dell'austerità in Grecia, cui non è mai seguita alcuna correzione di rotta? Ora invece si parla di sindacati, e c'è da scommettere che gli organi esecutivi del Fondo accoglieranno la nuova ricerca come fa Renzi con le obiezioni dei sindacalisti italiani: "Ce ne faremo una ragione".
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di Antonio Rei
Come uno Stato non è un gruppo industriale e un governo non è un Cda, così una scuola non è un'azienda e un preside non è un amministratore delegato. Peccato che la riforma presentata la settimana scorsa dal governo Renzi sia esattamente questo: il principio aziendale definitivamente applicato alla realtà scolastica. Un abominio, ma non un'invenzione originale. Già il governo Berlusconi aveva provato a imprimere una svolta simile (pur senza addolcire la pillola con il piano d'assunzioni), ma il modello originario è la concezione della scuola tipica del mondo anglosassone, dove gli alunni sono trattati come clienti da soddisfare, non come individui cui garantire gli strumenti per sviluppare un'intelligenza critica.
L'aspetto più preoccupante della "Buona Scuola" è il surplus di potere messo nelle mani dei presidi, che potranno scegliere gli insegnanti da un albo territoriale e selezionare ogni anno il 5% del corpo docenti cui assegnare un premio economico.
Non ci vuole molto a capire che si tratta di un clamoroso incentivo agli accordi sottobanco, tanto più assurdo in un Paese che già si distingue per il tasso di corruzione più alto d'Europa. E' così difficile immaginare un preside che chieda mazzette, appoggi politici o addirittura favori sessuali in cambio di un posto di lavoro nella propria scuola? No, ma la Buona Scuola spiana la strada a nefandezze di questo tipo.
Anche a voler ammettere che in Italia non esistano presidi corruttibili, però, il problema non è risolto. Il nuovo potere affidato ai dirigenti scolastici, infatti, limita anche l'autonomia professionale dei docenti. I presidi in molti casi puntano al gradimento delle famiglie per non veder calare il numero d'iscritti, da cui dipende l'ammontare dei fondi destinati al loro istituto.
E' quindi verosimile che molti insegnanti saranno messi di fronte a ricatti di questo tipo: "Ti faccio venire a lavorare nella mia scuola, ma devi mettere voti alti". Oppure: "Se vuoi continuare a lavorare qui ti conviene non bocciare nessuno". I professori subiscono da anni pressioni di questo tipo e la nuova riforma dà loro un ottimo motivo per cedere.
Il testo contiene anche due aspetti positivi: la possibilità di destinare il 5 per mille alle scuole (già l'anno scorso si poteva dare l'8 per mille ai progetti per l'edilizia scolastica, ma il Governo aveva evitato di pubblicizzare la novità in modo da non compromettere l'afflusso di denaro al Vaticano) e lo "school bonus", ovvero un credito d'imposta del 65% per chi farà donazioni a favore delle scuole per la costruzione di nuovi edifici, per la manutenzione e per la promozione di progetti dedicati all’occupabilità degli studenti.
A controbilanciare queste novità lodevoli c'è però il solito regalo a chi di regali non ha alcun bisogno. Le spese per l'iscrizione del proprio figlio alla scuola paritaria - un eufemismo per "scuola privata", che in Italia vuol dire spesso "scuola cattolica" - si potranno detrarre fino alle medie. Il principio della sussidiarietà orizzontale pubblico-privato è previsto dalla Costituzione e, in teoria, le scuole private alleggeriscono il peso sulle spalle dello Stato, che quindi ha interesse a sostenerle.
Il problema è che questo nuovo bonus non prevede tetti di reddito: anche chi guadagna 10mila euro al mese otterrà uno sconto dallo Stato per la scuola privata dei figli. Un modo veramente curioso d'impiegare le risorse mentre diversi edifici scolastici pubblici cadono a pezzi.
Veniamo ora al capitolo assunzioni. Non si tratta di un'iniziativa spontanea del nostro Governo: lo scorso 26 novembre la Corte europea si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti precari nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente deve essere assunto.
Per questa ragione, a settembre dell'anno scorso il premier Matteo Renzi aveva annunciato la stabilizzazione di 148mila precari. Negli ultimi mesi però questo numeri si è ridotto di un terzo, e ora la Buona Scuola prevede non più di 100mila assunzioni.
E' significativo, infine, che il Governo abbia scelto proprio questa riforma per utilizzare lo strumento del disegno di legge, rispondendo così alle critiche di chi lo accusa d'eccessiva decretazione. L'aspetto ironico è che - dopo tanti decreti del tutto immotivati, come quello sulle banche popolari - stavolta le "condizioni di necessità ed urgenza" prescritte dalla Costituzione per il ricorso al decreto legge ci sarebbero state.
La sentenza della Corte europea era una motivazione valida, ma Renzi ha preferito affidarsi al Parlamento. Se poi le Camere non riusciranno ad approvare la legge in tempo per far scattare le assunzioni, è probabile che il Premier arriverà su un cavallo bianco a salvare la situazione con un decreto in extremis. E vedremo se in questo ulteriore passaggio si perderanno per strada altre assunzioni.
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di Rosa Ana De Santis
Gli specialisti dei sondaggi e della cronaca politica, dopo Piazza del Popolo di sabato scorso, hanno già tracciato l’identikit dell’alleanza pasticciata tra Lega e Casa Pound, nata unicamente per accattonare voti sulle ceneri di Silvio Berlusconi e ammantata con abilità da Matteo Salvini, il vero dominus del minestrone, di ambizioni quasi cristiane: la difesa degli ultimi di questo tempo storico. Gli ultimi dentro il Grande Raccordo Anulare. Divertente.
Fin troppo semplice fare ironia sull’eterogeneità di questo matrimonio tra un movimento politico di ispirazione fascista, tutto patria e nazionalismo, e quel brandello di Lega Nord verginizzato dal nuovo segretario che ha promosso per oltre venti anni la cultura della secessione e il disprezzo per la patria e l’unità nazionale. La bizzarra teoria dell’onore secondo la quale i balilla di Casa Pound accettano in casa le bandiere della Padania restituisce ai commentatori un’immagine penosa degli adepti di questo fascismo 2.0 e del loro dux Di Stefano.
Ve lo immaginate Benito Mussolini siglare un patto d’acciaio con disordinati lanzichenecchi qualsiasi, che sputano sul tricolore, rinnegano la storia risorgimentale e promuovono l’autarchia regionale per il Nord dopo aver saccheggiato i palazzi di Roma?
Casa Pound svela in quest’operazione la sua quintessenza. Altro che formazione e cultura, lezioni di storia e filosofia, recupero dei fasti di una storia nobile, studio delle dottrine alternative. Un drappello impunito di giovinastri animati di violenza verbale e fisica, delinquenziale, con un bisogno disperato di assomigliare a qualcuno, uno qualsiasi, sprovvisti di formazione culturale minima, bramosi di un capro espiatorio a caso per sentirsi valorosi. Manodopera orfana persino dell’orrore delle idee fasciste che si lascia assoldare dai leghisti il cui sogno di secessione è finito a Tirana nella compravendita della laurea del figlio del loro capo. Divertente anche questo.
La pericolosità di questa alleanza consiste proprio nel suo disordine ideologico. Quella del fascismo era annidata nella chiarezza di un manifesto culturale e politico ben definito, che ha avuto una sua parabola di ascesa e declino incastonata nel quadro di un conflitto mondiale. Dal Sansepolcrismo in poi il fascismo italiano, pur in alcuni cambi di rotta dettati dalla scena internazionale, non perse mai alcune connotazioni programmatiche del modello di società su cui era stata fondata la sua tragica missione politica.
Oggi abbiamo invece degli orfani del Duce, perdenti da generazioni e per questo ancor più pericolosi, in cerca pirandelliana d’autore che salgono sul Carroccio solo per la speranza di spuntare una vittoria e di contare di più. Il punto di unione tra secessionisti e nazionalisti è l’atto di guerra ad un nemico comune, peggiore di quelli noti nel perimetro di casa.
Il nemico assoluto diventa, nel linguaggio sdoganato e infarcito ormai di turpiloquio perdonato (perché cosi si è più vicini all’uomo della strada e si è più autentici), lo straniero. Non ogni straniero, attenzione, non lo straniero ricco del passato, ma quello disperato e ramingo che arriva per mare, sui gommoni e dalle coste dell’Africa. L’ultimo degli ultimi. Il più debole, proprio lui, fa tanta paura.
Nessuno ricorda più l’immigrazione comunitaria Europea che pure tanti interrogativi di governabilità ha lasciato inesplorati. Ormai lo straniero è africano (nero), islamico, presunto - e nemmeno troppo - terrorista a bordo di un gommone, e magari anche traghettatore di Ebola, quella che ha viaggiato indisturbata in prima classe sugli aerei di linea. Il mix fatale di sotto idee evoca pensieri e parole da Ku Klux Klan.
Questo è il pericoloso vangelo di Lega Pound: etnicizzazione del male e, peggio, etnicizzazione della povertà e di alcune in modo particolare; ridicola ricerca dell’italianità di sangue (non è sciolto il dubbio se settentrionale o meridionale o prima e dopo la legge che Renzi farà sulla cittadinanza alle seconde generazioni di immigrati) come bussola di una qualsiasi azione di governo, nazionale o locale che sia.
Siamo già agli alti livelli della discriminazione razziale del nazismo più fulgido. Altro che fascismo italiota. Siamo alla teorizzazione dei popoli buoni e meno buoni, siamo alla benedizione di un olocausto già in atto. Soprattutto siamo nella confusione di chi avendo studiato poco e male spaccia soluzioni ignorando che il continente africano non sia esattamente come la Lombardia e propone piani di intervento in loco che farebbero sorridere uno studente di scienze politiche al primo anno.
Nella trasmissione di martedi sera, Le Invasioni Barbariche, intervistato da Daria Bignardi, Matteo Salvini ha preso a modello la politica dell’Australia sull’immigrazione. Un buon paradigma certamente.
Ma non si può essere credibili quando si parla di governare il fenomeno dell’immigrazione con velleità da stratega e statista, e nelle piazze si diventa un capo curva di stadio, si incita alla caccia all’uomo, a solleticare gli istinti più bassi e in tv si sguinzaglia come onorevole un Bonanno che definisce i rom “feccia dell’umanità”. La sensazione è che in un paese del primo mondo, come lo chiamerebbe Salvini, questo mercato di stracci non ci sarebbe.
Perché Salvini con le sue felpe sta molto bene, a pensarci, in un circo di cinghiamattanza alla Casa Pound, e sta malissimo su qualsiasi scranno istituzionale. Perché non ha pudore di non andare in quelle terre, da Roma in giù, che per anni il suo partito ha umiliato e denigrato. Nessuno stupore che il figlio di Bossi si allei con i fascisti, perché in fondo il fascismo, che storicamente è morto, è diventato un abito dello spirito e, in tal senso, i leghisti lo sono sempre stati anche quando non ne erano consapevoli.
Ben più e meglio di questi reduci di Casa Pound che nelle polverose stanze dei cimeli vorrebbero tornare alla mistica di una violenza politica che nelle loro mani è diventata violenza punto, prestazione d’opera per ovunque ci si possa sentire uomini (magari con una spranga in mano contro un barbone), con un tasso di ingenuità che unico, Salvini, giocatore vanesio di questa partita tutta personale, non ha.
Ci crede davvero nella vittoria il drappello dei zelanti operai del nuovo razzismo made in Italy che le Lega ha assoldato a buon prezzo. Mercenari che saranno sconfitti un’altra volta. Non dalla storia in questo caso, ma dalla geografia. Regaliamo a Casa Pound un atlante.
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di Antonio Rei
Non fosse per la nausea, rimarrebbe solo la tristezza. La baracconata romana organizzata sabato dalla Lega di Matteo Salvini, che ha dato ampio spazio ai neofascisti di Casa Pound, si è risolta in un'accozzaglia di sproloqui male assortiti e male organizzati. Hanno fallito anche nel tentativo di riempire Piazza del Popolo, facendosi surclassare nei numeri dal corteo della sinistra antagonista romana, che ha portato 20mila persone in strada al grido di "Mai con Salvini" e "Fascisti e leghisti fuori da Roma".
Gli antirazzisti e gli antifascisti romani sono stati più che sufficienti a umiliare lo zoo fascio-leghista, ma è assurdo che l'unica risposta all'abominio salviniano sia arrivata dalla società civile. Davanti al palco di Salvini c'erano bandiere con croci celtiche bianche su fondo nero, ritratti di Benito Mussolini, energumeni rasati a pelle con il braccio destro caricato a molla per il saluto romano.
Non è mancata la solidarietà degli amichetti stranieri: dal videomessaggio di Marie Le Pen, leader dell'estrema destra francese, ai simpatizzanti di Alba dorata, il partito nazista che siede nel parlamento greco. Accanto a tutte queste amenità sventolavano i vessilli della Lega e le bandiere anti-euro. Qualcuno, poco seguito, blaterava di quote latte, indossando con ingenua coerenza elmi cornuti.
Ha aderito alla manifestazione perfino il sindacato autonomo di Polizia, chiarendo a tutti in quali mani sia l'ordine pubblico. Sarebbe interessante sentire cosa pensa di fare il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ovvero quali provvedimenti intenderà adottare nei confronti degli agenti intervenuti sabato sul palco, alla luce dell'articolo 81 della legge n. 121 del 1981, in cui si chiarisce che "gli appartenenti alle forze di polizia debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche e non possono assumere comportamenti che compromettano l'assoluta imparzialità delle loro funzioni. Agli appartenenti alle forze di polizia è fatto divieto di partecipare in uniforme, anche se fuori servizio, a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche".
E' vero, i poliziotti in questione non erano in divisa, ma hanno partecipato alla manifestazione di sabato in quanto SAP, non a titolo personale, perciò sarebbe legittimo attendersi per loro il divieto di prender parte al servizio d'ordine pubblico destinato alla vigilanza sulle manifestazioni operaie e studentesche o di qualunque altra natura riconducibile alla sinistra. L’evidente orientamento politico del SAP (già protagonista di altri episodi disgustosi e censurabili) è incompatibile con la neutralità politica ed obiettività richiesta alle forze di sicurezza a tutela dei diritti dei cittadini.
Insomma, sotto ogni punto di vista la baracconata di sabato è stata un insulto all'Italia. Sarà pedante, ma vale sempre la pena di ricordare che la XII disposizione transitoria della Costituzione italiana vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito Nazionale Fascista.
E la legge Scelba del 1952, quella che proibisce l'apologia del Fascismo, precisa che "la riorganizzazione" di cui parla la Carta si ha "quando un'associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista".
Difficile negare che in questa descrizione rientri a pieno titolo il raduno di Piazza del Popolo. E allora perché mai nessun membro del governo ha aperto bocca per condannare lo scempio? Sabato Renzi ha trovato il tempo di pubblicare un tweet puerile sulla nazionale di rugby, ma non di ricordare che in Italia l'antifascismo è un valore fondamentale.
E' una questione di dignità, ma naturalmente non significa che alle porte si affacci un nuovo Pnf. Lo zoo di Salvini è tutto tranne che un gruppo coeso. Nel suo eclettismo spregiudicato (che non gli vieta nemmeno di citare Don Sturzo e Don Milani), il leader leghista è riuscito a infilare nello stesso calderone persone che fino a un paio d'anni fa si sarebbero prese a schiaffi per strada (i celoduristi di "Roma ladrona" e la destra romana più becera).
Il problema è che per riuscirci ha dovuto usare i fattori aggreganti più efficaci sui trogloditi: il razzismo (ormai l'attacco ai rom è un ritornello), l'aspirazione alla violenza come legittima difesa (quasi santificato Graziano Stacchio, il benzinaio vicentino col fucile) e vari slogan dai contenuti elementari ma dalla forma accattivante, in quanto satura di male parole ("Vaffanculo alla Fornero", "Faremo un mazzo così ai burocrati"). Tutto pur di fare leva sul testosterone mal gestito e sulla libido repressa dei neofascisti. Che hanno trovato finalmente il loro nuovo capo.
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di Fabrizio Casari
Lascerà dunque oggi il Quirinale il presidente Napolitano. Una scelta annunciata da diversi giorni e politicamente in agenda da diversi mesi. Lascia senza aver portato a compimento l’ultima operazione politica che aveva in mente, in condominio con Renzi: la riforma istituzionale che, nel riassetto delle istituzioni in funzione delle esigenze di dominio delle elites, chiudesse una volta e per tutte con la storia delle istituzioni repubblicane così come fino ad ora conosciuta.
Una riforma, quella di Renzi, che contiene dei tratti di incostituzionalità che avrebbero dovuto spingere il Presidente della Repubblica, nel suo ruolo di garante massimo della Costituzione, ad una ferma opposizione al progetto, ma che invece lo hanno visto come uno dei principali sostenitori, forse nella speranza di vederla approvata con la sua firma in calce. Troppo tardi.
Niente a che vedere con l’altro Presidente della Repubblica venuto dalle file della sinistra, Sandro Pertini. L’alterigia ingessata di Napolitano mai ha avuto similitudini con l’informalità e la passione di Pertini e né sotto il profilo ideale, né sotto quello politico, tantomeno nella comunione sentimentale con il suo popolo, Napolitano ha mai ricordato in minima parte la meravigliosa eredità del partigiano socialista che diede lustro al Colle e che ricevette la stima e l’affetto sincero di quasi tutti gli italiani.
Proprio questo scarto assoluto tra due personaggi così diversi, agli antipodi quasi, illustra meglio di qualunque analisi la profonda mutazione genetica che ha caratterizzato la progressiva involuzione del centrosinistra italiano.
Lontanissimo dalla connessione sentimentale con le ragioni dei deboli, Napolitano è stato invece, per eccellenza, il Presidente garante soprattutto delle elites politiche e finanziarie che governano l’Europa e la stessa Italia. Agitando lo spauracchio dell’antipolitica e il rispetto di impegni sul pareggio di Bilancio che hanno violato la sovranità nazionale oltre che la logica delle compatibilità, ha sapientemente governato la crisi di credibilità della casta agendo come il più ligio dei funzionari della Commissione Europea.
Piuttosto indifferente all’indignazione popolare di fronte ad una crisi economica e morale permessa e favorita da una classe dirigente incapace e corrotta, Napolitano è stato lo strenuo difensore, oltre ogni decenza, del quadro politico che lui per primo ha voluto determinare. Andando oltre i limiti del suo mandato, ha sostanzialmente impedito la soluzione elettorale della crisi politica, imponendo di volta in volta alla guida del governo i personaggi che lui riteneva funzionali al suo progetto politico, che si è sempre identificato con gli interessi della UE.
Decise infatti di forzare per l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi quando il cavaliere andò allo scontro con Bruxelles, non prima. Ma il disegno europeo non prevedeva scossoni violenti del quadro politico e di governo e quindi, a seguito della crisi del governo Berlusconi, quando i sondaggi non lasciavano margini d’incertezza circa la netta vittoria del PD nelle urne, diede il suo primo colpo di mano e nominò Mario Monti.
Figura gradita a Bruxelles, stretto osservante del rigore di Bilancio e dell’ipoteca europea sulla sempre minore sovranità dei singoli Stati, l’ex rettore della Bocconi era soprattutto l’uomo che serviva per impedire un governo di centrosinistra con il PD all’epoca ancora legato ad una cultura progressista.
La nomina di Monti fu un sigillo di garanzia offerto all’eurocrazia ed uno stop chiaro a un disegno che poteva anche solo parzialmente mettere in discussione i diktat della Commissione e limitare il comando di Bruxelles sull’Italia.
Identica linea venne seguita dopo le elezioni che videro il fenomeno Monti fare la fine di quelli di Mariotto Segni prima e di Gianfranco Fini poi. In particolare rifiutò di assegnare a Bersani la formazione del governo dopo le elezioni.
Sebbene l’ex segretario del PD non avesse sulla carta la maggioranza certa al Senato, l’aveva alla Camera e il PD era il partito con più parlamentari nelle due camere, ma Napolitano rifiutò il mandato, impedendo così che il PD, ancorato a SEL e con la possibilità di dialogare con una parte del M5S, potesse formare un governo sgradito a Bruxelles ed ai poteri forti italiani.
Si apre ora la partita per la sua successione, con la manina di Renzi ancora dolente per via della contrattura intervenuta a guastargli l’operazione di rimessa in circolazione del suo socio nel patto del Nazareno. Lo scenario non è semplice e il governo si gioca buona parte della sua stessa sopravvivenza. Ovvio che Renzi veda come un incubo le candidature di uomini affezionati alla Costituzione, dal momento che il suo disegno di riforma costituzionale per il quale è stato spedito a Palazzo Chigi ha bisogno per forza della complicità dell’inquilino del Colle.
Si possono quindi escludere le figure più prestigiose di costituzionalisti, poco propensi a farsi dettare la materia dalla Boschi, così come di coloro che sono dotati di un impianto politico solido, poco inclini dunque a fare i passacarte dell’ambizioso premier.
Cosa aspettarsi? Non sembrano esserci le condizioni politico-parlamentari per un presidente di garanzia per gli italiani, invece che per i soci del patto osceno del Nazareno. Ma un nome scelto in comune con il centrodestra non sarà mai votato da SEL e Cinque Stelle, oltre che dalla minoranza del PD.
Renzi sarà così costretto a puntare su una figura del corpaccione PD che eviti a tutti i costi il voto contrario della sua minoranza e che possa andar bene anche al centro destra, sperando che, votazione dopo votazione, quel nome regga ai peones in cerca di collocazioni. Vista ormai la marcia del PD verso il partito della nazione non dovrebbe essere difficilissimo. Difficile semmai, quale che sia il nome che PD e altri sceglieranno, che il risultato possa peggiorare il quadro fin qui avuto con Napolitano.