di Carlo Musilli

Il declino dei sindacati è la causa principale dell'aumento della concentrazione della ricchezza negli ultimi decenni. A dirlo non è un manipolo di pensatori alternativi e no-global, ma il Fondo monetario internazionale, il principale alfiere planetario del neoliberismo e della globalizzazione.

Nei Paesi avanzati, tra il 1980 e il 2010, la quota del reddito complessivo in mano al 10% della popolazione più ricca è aumentata del 5%. Secondo uno studio (in via di pubblicazione) firmato da due economiste del Fmi, Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron, il fenomeno si spiega per metà con la crisi dei sindacati, che hanno visto crollare il numero d'iscritti del 50% nel corso del trentennio, perdendo così buona parte della loro capacità di negoziare sui salari.

Nelle anticipazioni della ricerca pubblicate sulla rivista del Fondo Finance & Development si legge che "l'indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro", e inducendo le imprese a prendere decisioni che avvantaggiano i dirigenti, ad esempio in materia di stipendi e bonus ai top manager.

Lo studio, intitolato "Power from the people" sulla falsariga della canzone di John Lennon "Power to the people", prende in considerazione diversi fattori - dalla tecnologia alla globalizzazione, passando per la liberalizzazione finanziaria e fiscale - ma conferma che "il declino della sindacalizzazione è fortemente associato all'aumento della quota di reddito" nelle mani dei ricchi. Com'è emerso anche da uno studio di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia, questa iniquità può indebolire la crescita, rendendola meno sostenibile e addirittura nociva per la società, "perché consente ai più ricchi di manipolare in proprio favore il sistema economico e politico".

Jaumotte e Osorio Buitron sostengono che la "lotta per la redistribuzione del reddito" debba passare per la restaurazione del sindacato come "mediatore sociale", ma non spiegano in che modo ciò possa avvenire, sorvolando sul più grave dei problemi interni al sindacato di oggi, ovvero l'incapacità di rappresentare le varie tipologie di lavoro precario prodotte dalle politiche neoliberiste.

La tesi di fondo delle due economiste è che "sindacati più forti" potrebbero "mobilitare i lavoratori a votare per i partiti che promettono di ridistribuire il reddito". Conclusioni che naturalmente sono state accolte con favore dai sindacalisti, compresi quelli italiani: "Penso che questo studio debba far riflettere i tanti sostenitori dell'inutilità della mediazione politica, economica e sociale svolta dai corpi intermedi", ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso. "Il sindacato è fondamentale per la crescita", le ha fatto eco Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl. "La rappresentanza dei lavoratori ha sempre avuto la funzione di riequilibrare gli assetti sociali ed economici: una funzione non gradita a molti potentati", ha chiosato il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo.

Esclusi da ogni forma di concertazione nel nostro Paese, i sindacati si ritrovano così a fare il tifo per il proprio carnefice. Sarebbe però assurdo immaginare che lo studio di Jaumotte e Osorio Buitron preluda a un'inversione a U nelle politiche economiche del Fondo. Si tratta piuttosto di una dissociazione estemporanea, uno di quegli sdoppiamenti reversibili alla Stevenson che possono manifestarsi nel cervello del neoliberismo.

Il prefisso "neo" è cruciale, perché non stiamo parlando del liberismo, ma della sua degenerazione. Un processo iniziato negli Usa e nella Gran Bretagna degli anni Ottanta con la deregolamentazione dei mercati finanziari e la scelta di tagliare le tasse ai più ricchi, giustificata dal presupposto che chi ha più risorse ha anche più possibilità di creare lavoro e benessere.

Le principali conseguenze sono state almeno tre (tutte decisive per la crisi del 2008): il gonfiarsi di bolle speculative, la progressiva concentrazione della ricchezza e la parallela crescita dell'indebitamento della classe media, che per continuare a vivere secondo i propri standard ha fatto un ricorso sempre più massiccio al credito, dal momento che, mentre la produttività aumentava, i salari rimanevano al palo e la quota di profitto destinata ai lavoratori si riduceva. 

Nessuna di queste storture è stata corretta dopo la crisi (anzi, ne sono state create di nuove), ma la consapevolezza degli errori commessi causa a volte dei corto circuiti. E così il Fondo monetario si produce saltuariamente in affermazioni di brutale autocritica, quasi sempre oggetto d'immediata rimozione. Come dimenticare i vari mea culpa pronunciati per i disastri dell'austerità in Grecia, cui non è mai seguita alcuna correzione di rotta? Ora invece si parla di sindacati, e c'è da scommettere che gli organi esecutivi del Fondo accoglieranno la nuova ricerca come fa Renzi con le obiezioni dei sindacalisti italiani: "Ce ne faremo una ragione".

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