di Antonio Rei

Come uno Stato non è un gruppo industriale e un governo non è un Cda, così una scuola non è un'azienda e un preside non è un amministratore delegato. Peccato che la riforma presentata la settimana scorsa dal governo Renzi sia esattamente questo: il principio aziendale definitivamente applicato alla realtà scolastica. Un abominio, ma non un'invenzione originale. Già il governo Berlusconi aveva provato a imprimere una svolta simile (pur senza addolcire la pillola con il piano d'assunzioni), ma il modello originario è la concezione della scuola tipica del mondo anglosassone, dove gli alunni sono trattati come clienti da soddisfare, non come individui cui garantire gli strumenti per sviluppare un'intelligenza critica.

L'aspetto più preoccupante della "Buona Scuola" è il surplus di potere messo nelle mani dei presidi, che potranno scegliere gli insegnanti da un albo territoriale e selezionare ogni anno il 5% del corpo docenti cui assegnare un premio economico.

Non ci vuole molto a capire che si tratta di un clamoroso incentivo agli accordi sottobanco, tanto più assurdo in un Paese che già si distingue per il tasso di corruzione più alto d'Europa. E' così difficile immaginare un preside che chieda mazzette, appoggi politici o addirittura favori sessuali in cambio di un posto di lavoro nella propria scuola? No, ma la Buona Scuola spiana la strada a nefandezze di questo tipo.

Anche a voler ammettere che in Italia non esistano presidi corruttibili, però, il problema non è risolto. Il nuovo potere affidato ai dirigenti scolastici, infatti, limita anche l'autonomia professionale dei docenti. I presidi in molti casi puntano al gradimento delle famiglie per non veder calare il numero d'iscritti, da cui dipende l'ammontare dei fondi destinati al loro istituto.

E' quindi verosimile che molti insegnanti saranno messi di fronte a ricatti di questo tipo: "Ti faccio venire a lavorare nella mia scuola, ma devi mettere voti alti". Oppure: "Se vuoi continuare a lavorare qui ti conviene non bocciare nessuno". I professori subiscono da anni pressioni di questo tipo e la nuova riforma dà loro un ottimo motivo per cedere.  

Il testo contiene anche due aspetti positivi: la possibilità di destinare il 5 per mille alle scuole (già l'anno scorso si poteva dare l'8 per mille ai progetti per l'edilizia scolastica, ma il Governo aveva evitato di pubblicizzare la novità in modo da non compromettere l'afflusso di denaro al Vaticano) e lo "school bonus", ovvero un credito d'imposta del 65% per chi farà donazioni a favore delle scuole per la costruzione di nuovi edifici, per la manutenzione e per la promozione di progetti dedicati all’occupabilità degli studenti.

A controbilanciare queste novità lodevoli c'è però il solito regalo a chi di regali non ha alcun bisogno. Le spese per l'iscrizione del proprio figlio alla scuola paritaria - un eufemismo per "scuola privata", che in Italia vuol dire spesso "scuola cattolica" - si potranno detrarre fino alle medie. Il principio della sussidiarietà orizzontale pubblico-privato è previsto dalla Costituzione e, in teoria, le scuole private alleggeriscono il peso sulle spalle dello Stato, che quindi ha interesse a sostenerle.

Il problema è che questo nuovo bonus non prevede tetti di reddito: anche chi guadagna 10mila euro al mese otterrà uno sconto dallo Stato per la scuola privata dei figli. Un modo veramente curioso d'impiegare le risorse mentre diversi edifici scolastici pubblici cadono a pezzi.

Veniamo ora al capitolo assunzioni. Non si tratta di un'iniziativa spontanea del nostro Governo: lo scorso 26 novembre la Corte europea si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti precari nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente deve essere assunto.

Per questa ragione, a settembre dell'anno scorso il premier Matteo Renzi aveva annunciato la stabilizzazione di 148mila precari. Negli ultimi mesi però questo numeri si è ridotto di un terzo, e ora la Buona Scuola prevede non più di 100mila assunzioni.

E' significativo, infine, che il Governo abbia scelto proprio questa riforma per utilizzare lo strumento del disegno di legge, rispondendo così alle critiche di chi lo accusa d'eccessiva decretazione. L'aspetto ironico è che - dopo tanti decreti del tutto immotivati, come quello sulle banche popolari - stavolta le "condizioni di necessità ed urgenza" prescritte dalla Costituzione per il ricorso al decreto legge ci sarebbero state.

La sentenza della Corte europea era una motivazione valida, ma Renzi ha preferito affidarsi al Parlamento. Se poi le Camere non riusciranno ad approvare la legge in tempo per far scattare le assunzioni, è probabile che il Premier arriverà su un cavallo bianco a salvare la situazione con un decreto in extremis. E vedremo se in questo ulteriore passaggio si perderanno per strada altre assunzioni.

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