di Antonio Rei

L'importante è decidere, non importa cosa. L'importante è cambiare, non importa come. Ogni novità è benefica per definizione e ogni novità porta la firma di Matteo Renzi. Il decisionismo che guida il Governo è mosso dall'ambizione di un uomo solo, che lascia nel cassetto ciò che non gli serve o gli è addirittura d'ostacolo - come la legge anticorruzione o quella per ri-penalizzare il falso in bilancio - mentre con una raffica di provvedimenti pone se stesso al centro del nuovo assetto di ogni potere.

Partiamo dalle riforme economiche, che hanno come stella polare i desideri di Confindustria e dell'alta finanza, soddisfatti rispettivamente con la riforma del lavoro e con quella delle banche.

La prima facilita i licenziamenti senza giusta causa (puniti al massimo con un indennizzo, non più con il reintegro) e fa risparmiare alle imprese una montagna di soldi con la decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato, misura che peserà sulla fiscalità generale (poiché non prevede alcun contrappeso sul fronte delle entrate) e non offrirà un reale cambiamento di prospettiva ai lavoratori, pienamente licenziabili per tre anni. 

La seconda riforma prevede invece la metamorfosi delle banche popolari più grandi da cooperative in società per azioni, il che significa rinnegare il concetto stesso di cooperazione e rendere ogni istituto potenziale oggetto di scalata da parte di qualsiasi investitore.

Non solo: a questa rivoluzione pro-finanziaria potrebbe presto aggiungersi la creazione di una bad bank pubblica, che consentirà alle banche private di scaricare il peso dei crediti in sofferenza sulle spalle dello Stato (sono d'accordo sia Visco sia Draghi), socializzando ancora una volta le perdite, ma senza alcuna garanzia che il capitale così liberato nei bilanci sarà utilizzato per aumentare il credito.

Per quanto riguarda invece le riforme istituzionali, è innegabile che rispondano a un disegno accentratore. Non si può definire altrimenti il combinato composto di svuotamento del Senato e Italicum, visto che da una parte si trasforma Palazzo Madama in un guscio vuoto, orfano del potere legislativo, mentre dall'altra s'impone ex lege un bipolarismo mai espresso dagli elettori italiani, affidando al vincitore una maggioranza comoda nell'unica Camera rimasta a legiferare. Con tanti saluti al principio costituzionale della rappresentanza elettorale.

Sollevare obiezioni contro una qualsiasi di queste riforme è pienamente legittimo e fondato, ma la retorica renziana ha un'arma infallibile per scaricare la pistola in mano ai contestatori: chi si oppone alle riforme - recita la vulgata - è un conservatore che non vuole il cambiamento, un fan della vecchia politica che rema contro il rilancio del Paese. Entrare nel merito è proibito. Ogni riforma è buona semplicemente perché marca uno spostamento rispetto al passato, a prescindere dalla direzione che imbocca.

A fornire l'esempio migliore di questo perverso trucco retorico è probabilmente la riforma del sistema scolastico. L'hanno battezzata "La buona scuola", autopromuovendosi fin dalla fase di gestazione. Prima che gli italiani potessero leggerla, prima ancora che il Governo la scrivesse, la riforma era già "buona". Poco importa che quel Ddl contenga la definitiva aziendalizzazione della scuola italiana. Prevede delle novità, quindi va bene, e i lamentosi - come al solito - stanno dalla parte di chi ha distrutto il Paese.

La stessa logica viene applicata anche al disegno di legge sulla Rai: "Se il Parlamento tergiversa, allora si terranno la Gasparri - ha tuonato la settimana scorsa Renzi -. Noi non faremo il decreto". Nessuno ha fatto notare al Premier che un decreto per riformare la tv pubblica sarebbe stato un'assurda violenza alla Costituzione, perché tutti sanno che ormai la decretazione non serve più in casi di "necessità e urgenza" (come prevede la Carta), ma abbinata alla fiducia è lo strumento con cui il Governo esercita il potere legislativo, esautorando il Parlamento.

Semmai, a questo punto bisogna chiedersi a cosa servano i disegni di legge. La risposta non è complicata: Renzi li usa quando ci sono delle scadenze importanti da rispettare (le assunzioni dei precari della scuola, il rinnovo del Cda Rai), sperando che il lavoro di commissioni e Aule vada per le lunghe e dimostri l'inefficienza dell'iter parlamentare.

Così il cerchio si chiude: per ripartire serve il cambiamento, per cambiare servono le riforme, per le riforme servono i decreti. E, vista la personalità politica dei ministri, indovinate chi serve per i decreti.

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