di Fabrizio Casari

Un avviso di garanzia o, per certi versi, un avviso di sfratto. Questo il messaggio che Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, ha inoltrato al Premier a mezzo stampa il giorno dell’inaugurazione del nuovo formato tabloid. Il quotidiano di Via Solferino, espressione dei poteri forti italiani, organo per definizione dell’establishment industriale e finanziario del Paese, è da sempre ultragovernativo e si caratterizza per un stile “british”, poco incline alle intemerate. Fedele al suo stile, è tutt’altro che frequente leggere in prima pagina sul Corriere della Sera un editoriale del Direttore e, men che mai, un intervento di tale nettezza. Toni durissimi, accuse precise e da molti condivise, fuori e dentro al Palazzo.

“Renzi non mi convince”, comincia De Bortoli. Così il Premier viene immediatamente avvertito, sin dall’incipit, che chi scrive non gradisce di lui quasi niente: la tendenza smaccata al decisionismo in solitaria, la debolezza disarmante di alcuni esponenti del suo governo, per i quali pare essere la fedeltà a lui l’unica reale caratteristica e sui quali pesa, inoltre, l’appartenenza alla sua Regione come ulteriore segno distintivo.

Difficile dare torto su questo a De Bortoli: vedere la Madia, la Mogherini o Poletti occuparsi di dicasteri strategici non è affatto rassicurante, se non per Renzi stesso, che evita come la peste le personalità in grado di fargli ombra. D’altra parte, la linea del governo è ormai appannaggio degli uomini di Forza Italia, che non si vergognano di evidenziare ogni singolo passaggio del patto del Nazareno tra il pregiudicato e lo spregiudicato.

Ed è per questo che, in un crescendo rossiniano, De Bortoli, dopo averlo invitato a correggere toni ed errori che fanno di Renzi stesso il peggior nemico di Renzi, arriva alla bordata più pesante, chiedendo di “chiarire tutti i contenuti del Patto del Nazareno, liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non da ultimo, dallo stantio odore di massoneria”.

L’attacco violentissimo al bullo vanesio di Palazzo Chigi arriva proprio il giorno in cui Renzi si pavoneggiava negli Stati Uniti, dove si è esibito al cospetto della famiglia Clinton e con Obama, con imprenditori statunitensi e quindi intervenendo all’ONU. E per quanto abbia continuato a sostenere la parte del duro che sfida venti e maree per imprimere l’ennesima torsione del sistema di garanzie e diritti chiamandola "riforme", non c’è dubbio che il colpo sia arrivato. Difficile archiviare l’editoriale di De Bortoli come un qualunque articolo di critica, difficile non vedere come il giornale da lui diretto, finora accomodante al limite della piaggeria, abbia inaugurato - stavolta davvero - un cambiamento di verso.

Il riferimento alla massoneria è direttamente rivolto alla sua corrente più importante, quella angloamericana, che ha espresso la maggior parte delle presidenze a stelle e strisce sin dalla sua fondazione (e, in alcuni momenti, dell’intero blocco occidentale) e non può sfuggire come il legame del Premier con Verdini (indagato per la loggia P4) e l’ormai co-governo con Berlusconi a tutto servano meno che a porre interrogativi in questo senso. E la smaccata, assoluta obbedienza dell’ex sindaco di Firenze nei confronti della linea statunitense sia in politica estera globale sia in Europa, fin troppo semplice da riscontrare, aumenta esponenzialmente i sospetti.

Soprattutto quando, in opposizione agli interessi italiani, Renzi dapprima impone la sconosciuta Mogherini nel ruolo di lady Pesc, che non serve all’Italia ma è l’unico ruolo che interessi agli Stati Uniti, per mantenere sotto controllo la politica estera europea.

Quindi, anche qui in opposizione agli interessi italiani, dispone l’adesione dell’Italia all’embargo antirusso, causando un ulteriore, violentissimo trauma all’economia delle nostre aziende esportatrici, con ricadute negative sul piano occupazionale nei settori calzaturiero, del pellame e ortofrutticolo e producendo danni per miliardi di euro.

Sul piano più interno la volontà di scontro contro tutti e tutto non è certo un elemento secondario nel j’accuse del direttore del Corsera. Oltre al pasticcio incostituzionale della riforma del Senato, che difficilmente vedrà comunque la luce, ci sono i numeri della nostra economia, che peggiorano sensibilmente da quando il bullo siede a Palazzo Chigi.

A questo quadro già drammatico si sommano gli annunci mai seguiti da fatti, le figuracce inanellate con i contratti della Pubblica Amministrazione e altri provvedimenti rimangiati, nella generale sensazione della navigazione a vista con un equipaggio di mozzi improvvisatisi capitani.

E a far traboccare il vaso dal punto di vista dei poteri forti italiani arriva la volontà di sopprimere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che crea le condizioni per un nuovo scontro sociale di cui l’establishment italiano farebbe volentieri a meno. Persino i suoi amici Farinetti e Della Valle fanno eco al presidente di Confindustria Squinzi affermando che l’articolo 18 non è un obiettivo per nessuno. Addirittura Farinetti sostiene che andrebbe mantenuto.

Insomma, sull’articolo 18 si rischia uno scontro non richiesto nemmeno dagli industriali, anche perché oltre a riaprire una possibile stagione di conflitto, contribuisce ad aprire una spaccatura all’interno dei DS, considerati ormai dall’establishment italiano l’unica forza politica abile all’interlocuzione con le forze sociali, l’unico possibile elemento di mediazione nella società italiana dopo la definitiva scomparsa della destra. Una rottura interna al PD e SEL, con i 5Stelle fuori gioco, aprirebbe inevitabilmente le porte a un ritorno di Berlusconi nella maggioranza parlamentare di governo, con il risultato di andare verso lo stallo del sistema politico mentre ancora non è stata votata la legge elettorale con la quale si dovrebbe votare.

Le reazioni dell’establishment politico e finanziario italiano non sono ancora evidenti ma De Bortoli, che lascerà il Corriere nella prossima primavera, non sembra isolato. Sullo sfondo del fallimento di Renzi, che ha perso solo negli ultimi due mesi il 15% nei sondaggi, il sistema avverte come possibile una crisi politica senza uscita che rischierebbe di vedere l’arrivo della troika in Italia, cosa che, come ricorda De Bortoli, l’Italia non vuole assolutamente.

A difendere il premier scende in campo Marchionne, antico idolo di Renzi. L’AD di Fiat spiega che Renzi va sostenuto e, addirittura, “aiutato finanziariamente”, mentre sono in molti a cedere che l’attacco virulento di Renzi alla minoranza del PD abbia tra i suoi scopi anche uno tutto interno: o l’umiliazione della minoranza con le ovvie ricadute sul suo potere interno o, nel caso l’opposizione venisse confermata, il favorire una scissione che consegni a lui il dominio incontrastato del maggior partito italiano e che, dato il generale sfilacciamento delle forze politiche, renda comunque impossibile aggregazioni di sostanza numerica e politica in grado di far nascere un competitor a sinistra.

Un disegno ambizioso che avrebbe diversi sostenitori, ma tutti oltreoceano. In Europa, dove Berlino e Parigi ritengono di aver bisogno anche di Roma per disputare la partita dell’egemonia condivisa con Washington, si pensa che Renzi possa portare allo sfascio l’Italia, con il risultato di mettere in difficoltà l’intera economia europea. Dal punto di vista dei poteri forti europei, Renzi non è una minaccia per l'impronta liberista delle politiche economiche, ma potrebbe comunque ostacolare le manovre continentali, anche a causa di un'assai limitata sapienza politica, sua come della sua squadretta scombinata dove nessuno sa cosa dire e cosa fare.

Vista da Bruxelles, Draghi potrebbe agevolmente guidare il governo italiano, così abbandonando la poltrona di Presidente della BCE, dove siederebbe un nuovo presidente molto più sensibile alla linea finanziaria tedesca. E Renzi potrebbe tornare alle sue amate comparsate televisive. Stavolta, però, in seconda serata.

di Fabrizio Casari

L’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori è una porcata peggiore di quella della legge elettorale. Che il decreto che vorrebbe abolirlo parli di “tutele crescenti” è poi un paradosso verbale simile a quello delle guerre umanitarie. Le tutele non s’intravedono e, a fare attenzione, si scopre che manca completamente il riferimento al numero di anni d’impiego oltre le quali scatterebbero. C’è una rappresentazione paradossale in tutta la vicenda che recita come la generazione di lavoro passi per la facilità a perderlo. E, non bastasse, i nuovi rapaci del renzismo vorrebbero convincerci che l’articolo 18 impedisce la piena uguaglianza dei lavoratori.

E’ falso, ovviamente. Renzi, da parte sua, ne fa una ragione di sopravvivenza. Se vuole evitare l’offensiva decisa di Bruxelles sui conti pubblici italiani (che da quando lui è a Palazzo Chigi peggiorano vorticosamente) deve dare qualcosa ai teorici della fine della civiltà del lavoro. D’altra parte, il senso di Renzi è qui: non solo annuncia ciò che non realizza, ma realizza quello che negava di voler fare.

Cosa prevede l’articolo 18, che a sentire i cantori del comando padronale impedirebbe un meraviglioso destino per il mondo del lavoro? Prevede che nelle imprese con più di 15 dipendenti a tempo indeterminato, il lavoratore che venisse ingiustamente licenziato possa rivolgersi al giudice che, se lo ritiene vittima di una misura vessatoria, può annullare il provvedimento e ordinarne il reintegro al posto di lavoro.

Attenzione: non sono considerati in questa fattispecie i licenziamenti dovuti a stato di crisi, comportamento illegale o sleale del lavoratore, ristrutturazioni aziendali, cessioni di ramo d’azienda, dismissione o cessione della stessa; l’articolo 18 si applica solo quando un licenziamento viene comminato con arbitrarietà, con spirito vendicativo o ricattatorio; insomma quando è privo di ragioni corrette, quando cioè è ingiusto e discriminatorio.

Abolirlo, quindi, significa in primo luogo voler azzerare la dialettica interna alle aziende tra padroni e lavoratori, abolire il confronto anche quando è ormai tra cannoni e campane, inserire l’arbitrarietà, l’ingiustizia e la discriminazione nel novero dei comportamenti leciti per il datore di lavoro (possibili lo sono sempre stati).

Infine si dice che in un paese con svariati milioni di partite Iva, essendo l’art.18 applicabile solo alle medie e grandi imprese, la sua abolizione non costituirebbe un danno poi così rilevante per l’insieme della forza lavoro impiegata. E’ vero, molte delle piccole imprese sono a carattere familiare e dunque lì il problema nemmeno si pone. Ma se davvero così fosse, se davvero la sua abolizione non avrebbe ripercussioni sostanziali, perché allora tanta pervicacia nel volerlo cancellare?

Denunciare le diverse condizioni di chi può appellarsi all’articolo 18 e chi no, è la scoperta dell’acqua calda: non solo perché ormai il contratto a tempo indeterminato è una chimera o quasi, ma anche perché in buona parte il governo Monti (la cui agenda è stata copiata e incollata da Renzi) ha già parzialmente modificato la norma, dal momento che in diversi casi l’indennizzo con 12-24 mesi di salario può sostituire il reintegro. Ma perché allora, se il fine è quello di equiparare le sorti di tutti i lavoratori proprio per quel senso di giustizia con cui Renzi si addormenta e si sveglia insieme al tweet d’ordinanza, non lo estende a tutti?

Si afferma poi che l’abolizione dell’articolo 18 potrà finalmente riaprire il mercato del lavoro, giacché le aziende, liberate dall’incubo dell’art.18, potranno  riprendere ad assumere a tempo indeterminato. E come mai, se la sostanziale abolizione del diritto al reintegro è già vigente da due anni la disoccupazione cresce? Mettere in relazione diretta la crisi occupazionale con la fine delle tutele per i lavoratori è operazione di pure propaganda ideologica.

Le aziende non assumono perché non investono, non hanno idee, non hanno liquidità, non fanno ricerca, non costruiscono innovazione di prodotto, non ottengono accesso al credito, non riescono a riscuotere i crediti che vantano dalla Pubblica Amministrazione, subiscono una tassazione del lavoro insopportabile, vengono vessate da una burocrazia onnivora e dall’assenza d’interlocuzione politica sul territorio dove operano. Non c’entra niente o quasi l’articolo 18.

E non è nemmeno vero che il datore di lavoro non ha interesse ad avere la libertà di licenziamento, perché “se il lavoratore produce è interesse dell’imprenditore tenerlo”. E’ un altro luogo comune fondato sulla falsità. Il padrone è alla ricerca continua di migliorare i margini operativi e, in assenza di qualità del prodotto, prova ad erodere i diritti dei lavoratori e i costi che li accompagnano.

Il lavoratore, pur se capace, rischia comunque di essere licenziato non appena il padrone individua la possibilità di pagare il suo stesso lavoro ad un costo più basso, sia attraverso l’assunzione di una persona diversa al posto di chi c’era prima, sia con l’introduzione di nuove tipologie di contratto ancor meno costose. Il lavoratore, a quel punto, se legalmente indifeso davanti all’ingordigia e all’arroganza padronale, avrà solo due strade: accettare riduzioni di salario e aumento dei carichi di lavoro oppure andarsene senza nessun indennizzo. La competizione vera diventa solo quella tra chi ha niente e chi solo la disperazione. La giungla è servita.

Non c’é solo, come dice la Camusso, lo “scalpo” da consegnare ai tecnocrati europei. E’ molto di più e anche senza le pressioni della Commissione europea il tormentone della destra vera e di quella travestita di sinistra sarebbe comunque in scena. Quello che si vuole cancellare è l’idea stessa dei lavoratori come detentori di diritti, delle aziende come luogo della società e ad essa soggette per leggi e norme. Il sogno è quello delle "zone franche", dove la legge non entra per legge.

Si vuole abolire la possibilità che di fronte ad una ingiustizia ci si ribelli, che si possa ricorrere alla giustizia; c’è dietro l’idea non confessata (ma basta aver pazienza e l’ascolteremo) della sostanziale inutilità di tutto lo Statuto dei lavoratori in quanto anacronistico. Perché frutto dei rapporti di forza tra le classi di quando esistevano sinistra e sindacati, dunque inutile oggi che le due entità sono rispettivamente scomparse o in crisi profonda.

Questo è il momento della rivincita storica dei padroni e dei politici a loro libro paga: approfittare delle definitiva scomparsa delle idee, dei progetti e dei sogni d’uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale seppelliti sotto il cadavere della sinistra per rimettere il lavoro sotto il tallone del padronato, unico delle componenti sociali a poter disporre di scelte, diritti e privilegi.

Del resto, è quanto già successo con il welfare: una costruzione di sistema di garanzie individuali e diritti sociali a carattere universale che il padronato dovette ingoiare solo per fermare le spinte progressiste e rivoluzionarie che dal dopoguerra alla fine degli anni ’70 correvano per l'Europa. Il welfare era concepito dal padronato come un obbligatorio strumento di battaglia ideologica contro la minaccia dell’estensione sempre più ampia dell’idea di un socialismo possibile. Venuto meno il mondo bipolare, scomparsa dall’orizzonte “la grande minaccia” e scomparsa la sinistra, di quel sistema universale di garanzie si fa volentieri a meno smontandolo progressivamente.

Anzi, proprio sulle ceneri del sistema di garanzie pubbliche s’innesta nei servizi l’irruzione delle nuove forme di accumulazione per aziende private: istruzione, trasporti, salute, pensioni, assistenza, sono ogni giorno meno pubbliche e più private, meno universali e più di censo. Ma togliendo dai diritti pubblici le prestazioni, non viene meno l’esigenza delle stesse, solo le si appaltano ai privati che vi lucrano. Il principio di accumulazione, nella crisi determinata dalla guerra del capitale contro il lavoro, ha proprio nella privatizzazione dei servizi una delle leve maggiormente significative per i profitti. E’ questo il fulcro su cui si regge il nuovo patto sociale.

Non sarà comunque, se passerà, l’abolizione dell’articolo 18 a riuscire a trasformare un capitalismo senza capitali in imprenditoria capace di generare lavoro. Non sarà l'italico capitalismo di relazione (così si chiama quello degli squattrinati che si sentono signori) a poter ricollocare l’economia italiana sotto il segno della crescita. Solo un grande piano d’investimenti pubblici e un’inversione brusca della pressione fiscale tra attività finanziaria e produzione industriale potrebbe innescare la marcia giusta. Quello sull’articolo 18 non è altro che odio di classe.



di Rosa Ana De Santis

Il via libera alla fecondazione eterologa ha rappresentato il colpo finale ad una legge 40 già ampiamente smentita dai fatti a colpi di sentenze. L’Italia finalmente cessa di essere al di fuori di standard e procedure che in Europa sono già possibili da tempo e che  potevano permettersi le coppie più abbienti del nostro Paese, finora costrette ai viaggi della speranza a Londra o a Barcellona.

Fissati i paletti e i rigorosi criteri da seguire per la donazione dei gameti e la loro conservazione, ciò che è stato al centro delle pagine di cronaca degli ultimi giorni, la parte più importante è quella che vede il sistema sanitario nazionale interamente coinvolto nel finanziamento di questa tecnica attraverso i centri specialistici presenti sul territorio.

La sterilità o infertilità ha a che vedere pienamente con il diritto alla salute. Ciò di cui spesso le sovrastrutture moraleggianti promosse dalla Chiesa cattolica italiana non hanno tenuto conto inquinando il dibattito politico e sociale sulla materia, disinformando i cittadini e imponendo a tutti l’etica cattolica come etica tout court.

Fa discutere a questo proposito la situazione della regione Lombardia dove non vale, a quanto pare, la legge dello Stato, ma la legge di Comunione e Liberazione. Qui l’eterologa, autorizzata con delibera regionale, sarà a carico degli assistiti salvo casi accertati di sterilità assoluta o irreversibile.

Non è difficile immaginare il purgatorio che le coppe affette da problemi di fertilità dovranno attraversare per non dover pagare di tasca propria la tecnica eterologa. Un po’ la stessa sorte di una donna che sceglie l’interruzione di gravidanza e trova solo medici obiettori. Ha vinto la linea oscurantista degli uomini di Alfano e dei leghisti, quest’ultimi noti certamente per essere ferventi cattolici, tranne quando si tratta di accoglienza e integrazione degli immigrati.

La posizione della Lombardia lascia a piedi coloro che non sono sterili, ma hanno malattie genetiche trasmissibili tanto per citare l’esempio più grande. I criteri restrittivi sono un modo per rendere quasi impossibile la legge 40 e riesumare un testo di legge che la Consulta ha di fatto demolito.

Sarà la cronaca forse ancora una volta a superare i paletti della legge e i viaggi della speranza verso altre regioni che saranno costrette a fare le coppie che si rivolgeranno ai centri per l’eterologa. Quando emergerà, come già accaduto per la legge 194 sull’aborto, che intere regioni disattendono di fatto i diritti tutelati e previsti dalla legge.

Allora sarà cronaca, fiumi di storie difficili, testimonianze dolorose di chi non ha potuto o ha pagato per diventare genitore in nome di una confessione religiosa che, ricordiamo ai prelati lombardi e ai devoti leghisti, non è più religione di Stato.

di Antonio Rei

In teoria la presidenza italiana dell'Unione europea è iniziata il primo luglio. In pratica nei primi due mesi e mezzo abbiamo messo in piedi soltanto le riunioni dell'Eurogruppo e dell'Ecofin andate in scena lo scorso fine settimana a Milano. E il risultato è stato grottesco. Chi si è divertito di più è stato Jyrki Katainen, commissario uscente alle Attività economiche e monetarie e (soprattutto) vicepresidente entrante della Commissione Ue con potere di veto su tutti i portafogli economici.

Per l'ex Premier finlandese, alfiere del rigore e sherpa dichiarato di Angela Merkel, deve essere stato un vero spasso bacchettare e rimbrottare a ripetizione Matteo Renzi.

"Noi rispettiamo il 3%. Siamo tra i pochi a farlo. Dall'Europa dunque non ci aspettiamo lezioni, ma i 300 miliardi di investimenti", scrive su Twitter l'ex sindaco di Firenze, facendo riferimento alle risorse promesse dal neopresidente Jean Claude Juncker per rianimare l'economia europea. "Non siamo maestri, ma interpreti di quanto tutti i Paesi rispettano gli impegni presi e di quello che hanno promesso agli altri Paesi", replica Katainen.

E poi ancora, il giorno dopo: "Stop all'ubriacatura tecnocratica - tuona il premier italiano - non è l'Europa a dirci cosa dobbiamo fare da grandi. Siamo noi che chiediamo conto dei 300 miliardi d'investimenti". Quasi uno scherno la replica del finlandese: "Ho un rapporto di collaborazione molto buono con Matteo Renzi", tuttavia "le riforme non bisogna solo progettarle, ma anche realizzarle. Se hai la ricetta del medico ma non prendi la medicina, la medicina non serve".  Mancava solo il gesto del cucchiaino da portare a mo' di aeroplano verso la bocca del baby Premier.

La flemma nordica del falco Katainen tradisce la consapevolezza di tenere al guinzaglio il Presidente del Consiglio italiano. Una sicumera venata perfino da qualche moto di tenerezza in occasione dei tweet e delle sparate da capetto dell'ex sindaco di Firenze.

Renzi blatera slogan con cadenza quotidiana, ma ha in mano molto poco. A Bruxelles lo sanno e lui stesso ne è perfettamente consapevole. Per rendersene conto basta togliere l'audio alla televisione e concentrarsi su ciò che il Premier ha fatto, non su quello che ha detto. I risultati concreti, a ben vedere, sono pari a zero, eccezion fatta per la nomina di Federica Mogherini alla poltrona (inutile) lady Pesc, poco più di un contentino a fronte di una Commissione dominata dalla destra.

Sabato, mentre il nostro Presidente del Consiglio ripeteva da Bari il mantra dei 300 miliardi, a Milano i "tecnocrati" da lui bacchettati si guardavano bene dal toccare l'argomento. Anzi, il governatore italiano Ignazio Visco ha perfino precisato che è necessario sì ripartire dagli investimenti, "ma da quelli privati". Per i quali forse arriveranno degli incentivi: fine degli interventi a sostegno della ripresa.

Intorno ai tavoli delle riunioni ufficiali non si è nemmeno approfondito il tema della flessibilità, specchietto per le allodole circolato prima delle nomine per la Commissione e ora prontamente accantonato. In compenso, i leader dell'economia europea hanno ribadito per l'ennesima volta che il rigore dei conti non si mette in discussione, e hanno convenuto sulla necessità di una "supervisione comune" per le riforme strutturali dei vari Paesi. Si tratta ovviamente di un eufemismo che richiama quella "cessione di sovranità" cui lo scorso mese aveva accennato il presidente della Bce, Mario Draghi.

Di fronte a tanta risolutezza di Renzi e a tante porte in faccia dai "tecnocrati", viene da pensare che il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, abbia passato intere giornate a dare battaglia, schiumante rabbia. Peccato che l'ex capo-economista dell'Ocse fosse d'accordo su tutta la linea con i suoi colleghi europei. Pur di non contraddire nessuno, Padoan ha indossato anche i panni di Samuel Beckett, recitando una battuta da teatro dell'assurdo: "Il controllo europeo sulle riforme è uno strumento utile, è un controllo reciproco dei Paesi tra pari che si scambiano esperienze: non è solo un elemento di disciplina, ma anche di apprendimento".

Insomma, il ministro pare credere che se la Germania metterà bocca nelle riforme italiane, l'Italia potrà fare altrettanto in quelle tedesche.  E' già tanto riuscire a esprimere questo concetto rimanendo seri.

di Antonio Rei

C'erano una volta le leggi. Oggi ci sono gli annunci, quelli che fanno polemica sugli annunci e quelli che - per rispondere alle polemiche sugli annunci - si producono in nuovi annunci. Lo spassoso teatrino italiota va avanti da mesi, ma in questo fine settimana ha potuto contare su un palcoscenico di un certo livello: la mitica Cernobbio, con il forum Ambrosetti che ogni anno raccoglie il gotha della politica e dell'economia italiana per ciarlare boriosamente sul destino di 60 milioni di persone. Lo chiamano "Workshop", ma di fatto è la più lussuosa e opulenta friggitoria d'aria di cui disponga il nostro Paese.

Quest'anno ad animare quel ramo del lago di Como ci ha pensato Sergio Marchionne, che, senza svestire del tutto i panni dello sponsor renziano, si è improvvisato novello Massimo Troisi: “Il consiglio che posso dare è questo - ha detto ieri al governo l'ad di Fiat-Chrysler - dalla vostra to-do-list, che sappiamo essere lunghissima, scegliete tre cose, realizzatele, e poi passate alle tre successive”.

Una variazione sul tema di "Ricomincio da tre" che lascia un po' interdetti, perché ci si aspetterebbe che almeno il più importante manager italiano (italiano?) entri nel merito delle questioni. Invece no, nel momento in cui bacchetta il Premier, Marchionne ne mutua il gusto per il cazzeggio: secondo un report della Banca Mondiale, spiega Mr. Maglione Nero, "è più facile fare impresa in Botswana, Ruanda, Armenia e pure nelle isole Tonga". Quindi? Se fosse ancora fra noi, magari potremmo chiedere a Troisi qualche riflessione concreta in tema di politica industriale.

Criticare il governo è sacrosanto, ma fermarsi alla solita tiritera del "bisogna passare dalle parole ai fatti" significa rimanere sullo stesso piano della vacuità renziana. Un vuoto pneumatico di cui, peraltro, il Presidente del Consiglio ha dato prova anche sabato, intervenendo all’inaugurazione del nuovo stabilimento della Bonomi Group a Gussago (in provincia di Brescia), di proprietà del numero due di Confindustria, Aldo Bonomi.

"Di là (a Cernobbio, ndr) c’è un convegno in un hotel cinque stelle sul lago con Barroso, Trichet, Almunia e Enrico Letta - ha detto Renzi -. Di qua si apre un rubinettificio in periferia con Annibale, Domenico, Luciano, Elio. Quale crede che sia il mio posto?". Chi sono Annibale e gli altri? "Sono i vecchi operai della Bonomi, quelli che ho citato dal palco. Li ho visti all’ingresso e mi sono fatto dire i nomi".

Parole indubbiamente efficaci nel nascondere che a Cernobbio Renzi non è andato semplicemente perché lì avrebbe dovuto affrontare una platea avversa. Annunciare di essere disposti al confronto è una cosa, esserlo davvero è un'altra.

La verità è che il buon Matteo evita sempre come la peste tutti gli appuntamenti dove qualcuno potrebbe criticarlo direttamente, senza dare tempo al suo ufficio marketing di elaborare una replica salace.

Nei mesi scorsi ha disertato anche l'assemblea di Confindustria e schifato sdegnosamente i tavoli con i sindacati, nel preciso intento di cancellare a monte il ruolo delle parti sociali, le quali a loro volta - bisogna riconoscerlo - non fanno davvero nulla per recuperare una minima frazione dell'autorevolezza che hanno avuto in passato.

"Noi andiamo avanti, cattivi e determinati - ha chiosato il Premier -. Io accetto le critiche, ma preferisco quelle della gente a quelle dei soliti noti, che stanno lì da trent’anni e non ne hanno mai azzeccata una. Per fortuna, vedo che tra la gente il sentimento nei miei confronti è ancora positivo. E non perché amino me, ma perché in me vedono uno che nell’Italia ci crede davvero".

Si richiede, a quanto pare, un approccio fideistico. Se ne dovranno fare una ragione i colletti bianchi di Cernobbio: quel ramo del lago di Come è buono per Renzo, non per Renzi.


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