di Antonio Rei

Matteo Renzi parla di "superare l'articolo 18" dello Statuto dei lavoratori, mantenendo il reintegro soltanto per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. Il Premier attribuisce al chiacchierato articolo colpe gravissime: spaventa le imprese, frena gli investimenti e quindi la ripresa, ingessa il mercato del lavoro. Molti giovani gli danno ragione, nauseati dalla discussione infinita su qualcosa che non li riguarderà mai.

Sono i precari e i disoccupati nati negli anni Ottanta e Novanta, le generazioni che la Cgil e la Cisl hanno perso per strada. Alle loro orecchie la difesa dell'articolo 18 suona come operaismo anacronistico a tutela dei pochi fortunati che godono di un contratto a tempo indeterminato. La loro rabbia è comprensibile e giusta, ma hanno torto.  

In primo luogo perché troppo spesso perdono di vista, come buona parte della classe politica, quello che nell'articolo 18 c'è scritto davvero. Purtroppo il testo non è facile da leggere, perché è lungo e scritto in legal-burocratese, lingua nemica dell'italiano e degli italiani. Ma c'è una frase chiave che non presenta alcuna difficoltà. Questa: "Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso (...)annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro".

Vale a dire che l'articolo 18 impone il reintegro dei lavoratori licenziati ingiustamente. Non è vero che in Italia non si può licenziare: non si può licenziare ingiustamente. L'azienda non può mandare a casa qualcuno dicendo di avere problemi economici se in realtà non è vero. Non può liberarsi di un lavoratore sostenendo che si è comportato male se il comportamento in questione è inventato di sana pianta. Quanto al licenziamento discriminatorio, non serve nemmeno l'articolo 18 per vietarlo: è proibito dalla Costituzione e dal Codice Civile. 

Tutto ciò implica anche l'altro lato della medaglia: le imprese possono licenziare per motivi economici se hanno davvero problemi con i conti, così come possono mandar via qualcuno per ragioni disciplinari se il lavoratore si è davvero comportato nel modo sbagliato. La realtà è già questa.

Bisogna ricordare poi che l'articolo 18 non è più un totem immodificabile ormai da qualche anno, dal momento che è stato cambiato con la riforma Fornero del 2012. In sintesi, la legge firmata dalla Professoressa stabilisce che in caso di licenziamento ingiusto per motivi disciplinari il giudice può imporre il reintegro con risarcimento oppure il pagamento di un'indennità risarcitoria; quanto ai licenziamenti ingiusti per motivi economici, il giudice può condannare l'azienda al pagamento di un'indennità in misura ridotta, ma se ritiene che il licenziamento sia "manifestamente infondato" può stabilire il reintegro.

Questa libertà di scelta non piace alle imprese, perché quasi sempre i giudici italiani scelgono il reintegro, ben sapendo che il lavoratore avrebbe difficoltà a ricollocarsi e che non merita di ritrovarsi in una posizione di così grande difficoltà, essendo stato licenziato ingiustamente.

Ed è proprio contro questa libertà di scelta che Renzi intende scagliarsi, escludendo a monte l'opzione del reintegro per i licenziamenti ingiusti per motivi economici. Ciò significa che le aziende potranno mandar via chi vorranno sapendo in partenza che, se perderanno la causa, al massimo dovranno pagare un indennizzo. "E' una riforma molto più radicale della mia", ha commentato di recente Fornero in un'intervista a Linkiesta.

E' evidente che dopo il Jobs Act, se chiunque potrà essere licenziato ingiustamente, i contratti a tempo indeterminato avranno molto meno valore. Saranno meno convincenti anche agli occhi delle banche, quando si tratterà di decidere se concedere o meno un mutuo.

Ma di panzane sull'articolo 18 Renzi ne ha detta più d'una. Il primo settembre si espresse in questi termini: "Il problema non è l’articolo 18, non lo è mai stato... Ogni anno ci sono circa 40mila casi risolti sulla base dell’articolo 18, di questi l’80% sono risolti con un accordo. Ne restano 8mila, in 4.500 il lavoratore perde totalmente, in 3.500 il lavoratore vince e in due terzi dei casi ha il reintegro. Stiamo discutendo di una cosa importantissima che riguarda 3mila persone l’anno".

E' una sciocchezza evidente. Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, su oltre 11 milioni di lavoratori dipendenti nel nostro Paese, più di sei milioni e mezzo lavorano per aziende con più di 15 dipendenti, soglia oltre la quale si applica l’articolo 18. La tutela interessa quindi il 57,6% dei dipendenti. Quanto al fatto che l'80% delle dispute si risolva ogni anno con un accordo, ciò avviene perché sullo sfondo esiste l'articolo 18. Se così non fosse, è facile prevedere che migliaia di trattative finirebbero in modo assai meno pacifico. 








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