di Fabrizio Casari

Prima di uno scontro tra “vecchia guardia” e nuovisti, più che una divergenza sul tema dell'applicazione dell'articolo 18, lo scontro interno alla direzione del PD ha raccontato un dato difficile da confutare: Matteo Renzi è l’ultima, fastidiosa iperbole della vicenda politica italiana. Quella cioè che vede un uomo con idee di destra dirigere un partito che si vorrebbe del centrosinistra.

Bastava vederlo da Fazio, domenica scorsa, per cogliere questa semplicissima verità, che d’un tratto persino il solitamente fin troppo felpato Fazio è stato costretto a mostrargli, probabilmente infastidito dalla retorica berlusconiana del premier che, imitando Brunetta ripeteva come una litanìa come di tutto ciò che non va nel paese è colpa della sinistra e dei sindacati, lanciandosi in una appassionata difesa delle imprese.

Indicandone un modello buono a prescindere, con i padroni che vogliono bene ai loro dipendenti e che quindi devono sentirsi liberi di licenziare,  è ansioso di dimostrare a chi conta che lui può riuscire dove altri hanno fallito: ridurre a zero i diritti dei lavoratori per ampliare ulteriormente i privilegi dei datori di lavoro. Il senso della sua agenda è qui.

Di Berlusconi, con il quale Renzi governa, ha ormai assorbito l’indecente naturalezza nel raccontare bugie clamorose, di dare numeri esistenti solo nella sua propaganda, d’inventare successi mai avuti o infilare luoghi comuni banali e mai dimostrati come fossero verità rivelate. I contenuti, la prosa torrenziale e priva di contenuto, l’ignoranza dei problemi e l’assenza di cultura generale, persino le pose sono ispirate al cavaliere, così come l’abitudine di dire di aver fatto cose che ha solo annunciato e di negare le responsabilità per quanto effettivamente fatto.

Vedendo Renzi da Fazio sembrava infatti di assistere a una delle comparsate di Berlusconi davanti alle telecamere; come il suo alleato accusava la sinistra di ogni sciagura, incluse le piogge acide. E quando Fazio obiettava che non capiva perché l’incerta ripresa economica dovesse essere pagata con la soppressione certa dei diritti, il premier mai eletto non riusciva a fornire risposte di merito.

Quando parla di imprese è più marchionista di Marchionne, suo generoso mèntore (e non solo) e racconta la vicenda oscura e vergognosa della Fiat come Berlusconi raccontava del suo primo matrimonio; quando parla di sindacato ripete a memoria gli insegnamenti di Brunetta e Sacconi; quando parla di politica ripete quanto gli dice Verdini e quando parla di magistratura scimmiotta Alfano.

Particolarmente odioso ascoltarlo addossare ai sindacati e alla sinistra la precarietà del lavoro, come se le leggi che lo hanno inventato prima e trasformato in un modello poi fossero state scritte dalla CGIL e non dai suoi amici di Forza Italia. Fabio Fazio si è visto costretto a ricordagli garbatamente che lui in teoria sarebbe il segretario del partito della sinistra.

D’altra parte Renzi è un portatore sano di opinioni variabili: è quello che accusava Letta di governare con Alfano e ora lui c’ha aggiunto Berlusconi; accusava Monti e Letta di non essere stati eletti e lui non lo è mai stato, sosteneva l’intangibilità dell’articolo 18 che invece ora identifica con i mali dell’economia italiana. D’Alema sosteneva tempo addietro che la mescolanza tra la cultura socialista e cattolica voluta dagli inventori del PD era stata una pessima idea e su questo non ci piove: una fusione fredda, un esperimento di laboratorio sbagliato e dannoso, ma comunque fino a pochi mesi orsono orientato a mantenere un’idea progressista di società. Con Renzi è invece finita anche quella pallida intenzione.

Nel suo pedissequo peregrinare verso ogni posizione, purché di destra, emerge il suo fastidio istintivo non solo per il sistema di valori che ha fatto da sfondo alla storia del PCI da cui il PD comunque proviene, ma persino di quella storia della sinistra democristiana che nel PD ha inteso essere in qualche modo rappresentata. Una storia importante, che ha avuto in La Pira, Tina Anselmi, Donat Cattin, Aldo Moro, Luigi Granelli, Romano Prodi o nella stessa Rosy Bindi alcune delle personalità più rilevanti. E invece, la democristianità di Renzi é quella più destrorsa, innamorata dei tecnocrati e inginocchiata davanti a Washington; la democristianità gladiatoria e papalina, che vede nella sinistra il nemico giurato.

Renzi crede il mutamento dei rapporti politici debba produrre immediatamente quello del tessuto sociale. Qui vede la sua missione. Ritiene cioè che la crisi della sinistra debba essere confermata anche dalla rottura definitiva del patto sociale e costituzionale sui quali la società italiana si è costruita dopo la Liberazione e che la sinistra, moderata o radicale che sia, difende. Azzerare la rappresentanza politica del mondo del lavoro e le istanze di giustizia sociale ed eguaglianza non è sufficiente; si deve cancellare l’impianto giuridico e normativo che a sostenerli era stato voluto dai padri costituenti e, insieme, a quel complesso di disposizioni che tutelano i diritti del lavoro.

Perché il permanere dei diritti dei lavoratori comporta anche, in automatico, quello di una dialettica nelle relazioni industriali che pone alle imprese di fronte anche alla loro responsabilità sociale e non solo alla ricerca del massimo profitto. E garantisce la piena libertà d’impresa sì, ma all’interno di un complesso di norme che la rendono compatibile con la i diritti e la libertà di tutti gli attori della scena sociale.

Non può esserci, dunque, un doppio binario: i comportamenti illegittimi e illeciti devono essere sanzionati ovunque, aziende comprese. L’idea che il datore di lavoro sia il deux ex machina del modello produttivo, che possa permettersi tutto e il contrario di tutto senza per questo dover subire sanzioni a fronte di illeciti, è inconcepibile per quanti non hanno un’idea gerarchica e piramidale della società in spregio a qualunque idea di eguaglianza.

Renzi non è un uomo della sinistra e non è al servizio del Paese. E’ un uomo assetato di potere e dotato di una ambizione personale seconda solo all’ipertrofia del suo ego. Le sue idee, i suoi atteggiamenti, il suo modo di fare politica, la sua propaganda, sono una miscela di idee provenienti dalla destra demagogica in cui s’innesta una generale incompetenza del merito dei problemi che l’Italia ha di fronte. Incompetenza della quale è esempio recentissimo la sesquipedale sciocchezza del salario differito dato mensilmente, che provocherebbe spese insostenibili per le aziende e remissione in termini fiscali e previdenziali per i lavoratori.

La minoranza del PD può e deve votare contro in Senato e alla Camera alla porcheria del Jobs act, miscela di promesse irrealizzabili e guai facili e rapidi da realizzare. Dovrà chiedere i voti a Berlusconi se vuol applicare il programma di Berlusconi. Ogni altro ragionamento è aria fritta. Ogni altro distinguo sarebbe una moina.

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