di Antonio Rei

In teoria la presidenza italiana dell'Unione europea è iniziata il primo luglio. In pratica nei primi due mesi e mezzo abbiamo messo in piedi soltanto le riunioni dell'Eurogruppo e dell'Ecofin andate in scena lo scorso fine settimana a Milano. E il risultato è stato grottesco. Chi si è divertito di più è stato Jyrki Katainen, commissario uscente alle Attività economiche e monetarie e (soprattutto) vicepresidente entrante della Commissione Ue con potere di veto su tutti i portafogli economici.

Per l'ex Premier finlandese, alfiere del rigore e sherpa dichiarato di Angela Merkel, deve essere stato un vero spasso bacchettare e rimbrottare a ripetizione Matteo Renzi.

"Noi rispettiamo il 3%. Siamo tra i pochi a farlo. Dall'Europa dunque non ci aspettiamo lezioni, ma i 300 miliardi di investimenti", scrive su Twitter l'ex sindaco di Firenze, facendo riferimento alle risorse promesse dal neopresidente Jean Claude Juncker per rianimare l'economia europea. "Non siamo maestri, ma interpreti di quanto tutti i Paesi rispettano gli impegni presi e di quello che hanno promesso agli altri Paesi", replica Katainen.

E poi ancora, il giorno dopo: "Stop all'ubriacatura tecnocratica - tuona il premier italiano - non è l'Europa a dirci cosa dobbiamo fare da grandi. Siamo noi che chiediamo conto dei 300 miliardi d'investimenti". Quasi uno scherno la replica del finlandese: "Ho un rapporto di collaborazione molto buono con Matteo Renzi", tuttavia "le riforme non bisogna solo progettarle, ma anche realizzarle. Se hai la ricetta del medico ma non prendi la medicina, la medicina non serve".  Mancava solo il gesto del cucchiaino da portare a mo' di aeroplano verso la bocca del baby Premier.

La flemma nordica del falco Katainen tradisce la consapevolezza di tenere al guinzaglio il Presidente del Consiglio italiano. Una sicumera venata perfino da qualche moto di tenerezza in occasione dei tweet e delle sparate da capetto dell'ex sindaco di Firenze.

Renzi blatera slogan con cadenza quotidiana, ma ha in mano molto poco. A Bruxelles lo sanno e lui stesso ne è perfettamente consapevole. Per rendersene conto basta togliere l'audio alla televisione e concentrarsi su ciò che il Premier ha fatto, non su quello che ha detto. I risultati concreti, a ben vedere, sono pari a zero, eccezion fatta per la nomina di Federica Mogherini alla poltrona (inutile) lady Pesc, poco più di un contentino a fronte di una Commissione dominata dalla destra.

Sabato, mentre il nostro Presidente del Consiglio ripeteva da Bari il mantra dei 300 miliardi, a Milano i "tecnocrati" da lui bacchettati si guardavano bene dal toccare l'argomento. Anzi, il governatore italiano Ignazio Visco ha perfino precisato che è necessario sì ripartire dagli investimenti, "ma da quelli privati". Per i quali forse arriveranno degli incentivi: fine degli interventi a sostegno della ripresa.

Intorno ai tavoli delle riunioni ufficiali non si è nemmeno approfondito il tema della flessibilità, specchietto per le allodole circolato prima delle nomine per la Commissione e ora prontamente accantonato. In compenso, i leader dell'economia europea hanno ribadito per l'ennesima volta che il rigore dei conti non si mette in discussione, e hanno convenuto sulla necessità di una "supervisione comune" per le riforme strutturali dei vari Paesi. Si tratta ovviamente di un eufemismo che richiama quella "cessione di sovranità" cui lo scorso mese aveva accennato il presidente della Bce, Mario Draghi.

Di fronte a tanta risolutezza di Renzi e a tante porte in faccia dai "tecnocrati", viene da pensare che il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, abbia passato intere giornate a dare battaglia, schiumante rabbia. Peccato che l'ex capo-economista dell'Ocse fosse d'accordo su tutta la linea con i suoi colleghi europei. Pur di non contraddire nessuno, Padoan ha indossato anche i panni di Samuel Beckett, recitando una battuta da teatro dell'assurdo: "Il controllo europeo sulle riforme è uno strumento utile, è un controllo reciproco dei Paesi tra pari che si scambiano esperienze: non è solo un elemento di disciplina, ma anche di apprendimento".

Insomma, il ministro pare credere che se la Germania metterà bocca nelle riforme italiane, l'Italia potrà fare altrettanto in quelle tedesche.  E' già tanto riuscire a esprimere questo concetto rimanendo seri.

di Antonio Rei

C'erano una volta le leggi. Oggi ci sono gli annunci, quelli che fanno polemica sugli annunci e quelli che - per rispondere alle polemiche sugli annunci - si producono in nuovi annunci. Lo spassoso teatrino italiota va avanti da mesi, ma in questo fine settimana ha potuto contare su un palcoscenico di un certo livello: la mitica Cernobbio, con il forum Ambrosetti che ogni anno raccoglie il gotha della politica e dell'economia italiana per ciarlare boriosamente sul destino di 60 milioni di persone. Lo chiamano "Workshop", ma di fatto è la più lussuosa e opulenta friggitoria d'aria di cui disponga il nostro Paese.

Quest'anno ad animare quel ramo del lago di Como ci ha pensato Sergio Marchionne, che, senza svestire del tutto i panni dello sponsor renziano, si è improvvisato novello Massimo Troisi: “Il consiglio che posso dare è questo - ha detto ieri al governo l'ad di Fiat-Chrysler - dalla vostra to-do-list, che sappiamo essere lunghissima, scegliete tre cose, realizzatele, e poi passate alle tre successive”.

Una variazione sul tema di "Ricomincio da tre" che lascia un po' interdetti, perché ci si aspetterebbe che almeno il più importante manager italiano (italiano?) entri nel merito delle questioni. Invece no, nel momento in cui bacchetta il Premier, Marchionne ne mutua il gusto per il cazzeggio: secondo un report della Banca Mondiale, spiega Mr. Maglione Nero, "è più facile fare impresa in Botswana, Ruanda, Armenia e pure nelle isole Tonga". Quindi? Se fosse ancora fra noi, magari potremmo chiedere a Troisi qualche riflessione concreta in tema di politica industriale.

Criticare il governo è sacrosanto, ma fermarsi alla solita tiritera del "bisogna passare dalle parole ai fatti" significa rimanere sullo stesso piano della vacuità renziana. Un vuoto pneumatico di cui, peraltro, il Presidente del Consiglio ha dato prova anche sabato, intervenendo all’inaugurazione del nuovo stabilimento della Bonomi Group a Gussago (in provincia di Brescia), di proprietà del numero due di Confindustria, Aldo Bonomi.

"Di là (a Cernobbio, ndr) c’è un convegno in un hotel cinque stelle sul lago con Barroso, Trichet, Almunia e Enrico Letta - ha detto Renzi -. Di qua si apre un rubinettificio in periferia con Annibale, Domenico, Luciano, Elio. Quale crede che sia il mio posto?". Chi sono Annibale e gli altri? "Sono i vecchi operai della Bonomi, quelli che ho citato dal palco. Li ho visti all’ingresso e mi sono fatto dire i nomi".

Parole indubbiamente efficaci nel nascondere che a Cernobbio Renzi non è andato semplicemente perché lì avrebbe dovuto affrontare una platea avversa. Annunciare di essere disposti al confronto è una cosa, esserlo davvero è un'altra.

La verità è che il buon Matteo evita sempre come la peste tutti gli appuntamenti dove qualcuno potrebbe criticarlo direttamente, senza dare tempo al suo ufficio marketing di elaborare una replica salace.

Nei mesi scorsi ha disertato anche l'assemblea di Confindustria e schifato sdegnosamente i tavoli con i sindacati, nel preciso intento di cancellare a monte il ruolo delle parti sociali, le quali a loro volta - bisogna riconoscerlo - non fanno davvero nulla per recuperare una minima frazione dell'autorevolezza che hanno avuto in passato.

"Noi andiamo avanti, cattivi e determinati - ha chiosato il Premier -. Io accetto le critiche, ma preferisco quelle della gente a quelle dei soliti noti, che stanno lì da trent’anni e non ne hanno mai azzeccata una. Per fortuna, vedo che tra la gente il sentimento nei miei confronti è ancora positivo. E non perché amino me, ma perché in me vedono uno che nell’Italia ci crede davvero".

Si richiede, a quanto pare, un approccio fideistico. Se ne dovranno fare una ragione i colletti bianchi di Cernobbio: quel ramo del lago di Come è buono per Renzo, non per Renzi.

di Giovanna Musilli

Di riformare la scuola si parla da vent’anni, ma ora il volume delle chiacchiere aumenta. “Merito, autonomia e superamento del precariato” sono le nuove linee guida del governo Renzi, che mercoledì si riunirà in Consiglio dei ministri per discutere il nuovo pacchetto di misure da mettere in cantiere. C’è di che sperare, se non altro perché il giovane Premier ha la moglie insegnante di lettere, quindi sarà sicuramente ben informato sul disastro economico e culturale che ha travolto la scuola italiana negli ultimi due decenni. O forse no?

Il primo provvedimento strutturale che ha modificato l’impianto della scuola pubblica italiana (dopo la riforma che sancì la nascita della scuola media unica nel 1962) è stato l’introduzione dell’autonomia scolastica nel 1994. Poi si sono succeduti solo piccoli interventi, quasi tutti senza peso, per lo più accompagnati da mirabolanti annunci,  fino alla cosiddetta riforma Gelmini del 2008, che ha riordinato (cioè complicato) i cicli scolastici e soprattutto ha tagliato otto miliardi d’investimenti pubblici.

Ma torniamo al presente. Dal meeting di Cl il ministro Giannini ha assicurato che “il governo intende eliminare il precariato nella scuola”. Non ha dato dettagli su come ciò potrà avvenire, ma ha  spiegato che le supplenze devono essere riconsiderate, in quanto già dall'inizio dell'anno scolastico si conoscono alla perfezione quali e dove sono i posti da sostituire stabilmente. Meno male, se n’è accorta anche lei.

"C'è un meccanismo perverso che ci trasciniamo da decenni - ha detto la Giannini - che non ci consente di lavorare se non con l'organico di diritto e quindi di riempirlo attraverso le graduatorie. I supplenti non saranno eliminati fisicamente - ha precisato con una battuta (divertentissima..) - bisogna però ragionare in termini di organico funzionale e non di organico di diritto. È l'uovo di Colombo che chi lavora nella scuola conosce da tempo, ma che nessun governo ha avuto il coraggio di affrontare direttamente perché significa prendere coscienza che le supplenze non fanno bene né a chi le fa né a chi le riceve”.

Assai discutibile quest’ultima osservazione: per i precari fare supplenze è meglio che essere disoccupati, e per gli alunni avere un supplente è meglio che non avere nessun docente. In ogni caso il ministro intende porre fine al caos che ogni anno affligge le scuole nel mese di settembre relativamente alle cattedre complete rimaste senza titolare, agli incarichi temporanei che i provveditorati ritardano ad assegnare, ai trasferimenti ancora incerti, agli spezzoni orari che non si sa a chi debbano essere affidati, ai vari congedi e aspettative di cui non si hanno mai notizie certe, alle numerosissime classi (di ogni anno e indirizzo) che spesso rimangono senza insegnanti per giorni e giorni.

L’intento è lodevole: il problema è la strada scelta per raggiungerlo. Con il nuovo “organico funzionale” si  dovrebbe assegnare ad un gruppo di istituti dello stesso grado un certo numero di docenti che tenga conto di tutte le esigenze d’insegnamento e anche delle eventuali supplenze. I docenti dell'organico funzionale, in altre parole, coprirebbero sia le ore di lezione, sia le supplenze (lunghe e brevi).

Ed è proprio questo il nodo che fa tremare i polsi a migliaia di precari. In questo modo, infatti, le graduatorie d’istituto cesserebbero di esistere e 400mila precari sarebbero ufficialmente licenziati in via definitiva dalla scuola. D’altronde, licenziando i precari, si elimina il precariato!

Sul merito dei docenti il ministro è stato chiaro: “Chi fa di più prende più soldi”, è l'idea di fondo dell'Esecutivo. Di per sé non sarebbe sbagliato, visto che in Italia non esiste nessun organo che controlli l’operato dei docenti e che vagli nel corso degli anni le loro competenze disciplinari e didattiche. Il principio liberista del “chi più lavora più guadagna” potrebbe anche innescare un circolo virtuoso di sempre maggior impegno e dedizione al lavoro da parte dei docenti, se applicato con equilibrio e raziocinio. Ma di che mondo parliamo?

Ad oggi, il ruolo educativo degli insegnanti è svilito, se non vituperato dalle istituzioni. Gli stipendi sono bloccati da otto anni e il conflitto d’interessi ha permeato a tal punto la scuola che ogni anno ci sono docenti di ruolo (anche anziani) che temono di diventare “perdenti posto” nella propria scuola, rischiando di essere provvisoriamente assegnati in qualsiasi altra scuola di provincia, carceri comprese.

Ma come riqualificare il lavoro degli insegnanti? Sbloccando gli stipendi (nessuno ne ha ancora parlato), rivalutando pubblicamente l’importanza della loro opera educativa e valorizzandone il merito con equità e giustizia. Il punto è come tutto ciò possa essere concretamente messo in atto. Per esempio, se il lavoro dei docenti venisse in qualsiasi modo vincolato al giudizio della cosiddetta utenza, ossia gli alunni, sarebbe evidentemente una catastrofe. A questo proposito le parole del premier (“le famiglie vanno coinvolte” nell’istruzione dei figli) non sono molto rassicuranti.

Purtroppo l’ottica della scuola/azienda che deve soddisfare l’utente/cliente è evidentemente destinata a trascinare la levatura culturale dell’istruzione pubblica in un abisso senza fine. Se invece “il giudizio dell’utenza” non fosse decisivo, quali sarebbero i criteri di assegnazione degli eventuali bonus agli insegnanti meritevoli? Solo fumo.

I sindacati sono in allarme: "Se rispondono a verità le indiscrezioni di un intervento sugli scatti e di un tentativo di introdurre elementi di meritocrazia al di fuori di un sistema contrattuale - ha anticipato il leader della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo - per noi è inaccettabile".

Per il leader della Cisl scuola, Francesco Scrima, “quando si punta sul lavoro e sulla professionalità bisogna pensare che lo strumento per valorizzare l'impegno è il contratto di lavoro, bisogna quindi puntare al rinnovo del contratto, bloccato da 8 anni”.

A parte il personale della scuola, gli altri due grandi capitoli su cui il provvedimento del Governo si articolerà sono l'autonomia scolastica (difficile peggiorare ulteriormente la situazione), i programmi (speriamo se ne occupino persone colte) e le competenze degli studenti. Anche su questi capitoli siamo ancora nella fase delle dichiarazioni d’intenti.

Intervenuta a Bologna alla Festa dell'Unità, infine, la Giannini ha incassato un boato di disapprovazione quando ha fatto capire che i test Invalsi potrebbero far parte della valutazioni del merito degli studenti anche nella sua riforma.

Questi test sono fallimentari in partenza, perché vengono distribuiti alle scuole campione senza discrimine di posizione geografica, di risorse, di utenza, di integrazione con il territorio. Non ci spingiamo oltre però, perché anche questo provvedimento per adesso è affidato solo alla tradizione orale. Come tutti gli altri.

di Giovanni Gnazzi

C’è da domandarsi davvero se l’inquilino di Palazzo Chigi sia in grado di comprendere la differenza che corre tra un raduno dell’Agesci e il governo di uno tra i dieci paesi più importanti del mondo. Probabilmente no, a giudicare l’ormai costante sovrapposizione tra le boutades e le parole al punto da non riconosce più la differenza tra le une e le altre. Parla e agisce senza controllo, minaccia, insulta, schernisce, ne ha per tutti, come fosse in un contesto simile a quello del raduno intorno al fuoco di un gruppo di scout.

Com’è noto, la definizione degli scout non lascia speranze: trattasi di un gruppo di bambini vestiti da cretini, guidati da alcuni cretini vestiti da bambini. E’ tutto da stabilire se Renzi è solo un lupetto o un ben più importante capo scout, ma da venerdì pomeriggio saremmo orientati verso la prima ipotesi. La scenetta del gelato dal carrettino piazzato davanti a Palazzo Chigi è sintomatica di come il bulletto di Pontassieve abbia ormai perso la testa per se stesso, di come cioè la passione di Renzi per Renzi abbia debordato oltre il senso del ridicolo.

Dal momento che l’Economist (non il Granma) lo aveva sbattuto in una foto di copertina trasformata in vignetta, nel quale il boy-scout perenne aveva un gelato in mano mentre si trovava, in compagnia di Hollande e della Merkel, su una barhetta raffigurante l’Euro in procinto di affondare, Renzi ha ordinato di mettere a bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri la sua suscettibilità.

Ha dunque fatto disporre della responsabile del cerimoniale della Presidenza del Consiglio il noleggio del carretto della Grom con gelataio e gelato al seguito per mettere in scena lo spettacolino di lui che mangia il gelato. Il costo della scenetta, sia detto per inciso, è di mille euro, che speriamo il premier paghi di tasca sua o con assegno della sua fondazione, che è la stessa cosa. Ci mancherebbe pure che dovessimo ulteriormente gravare la spesa pubblica degli spettacolini parrocchiali di un omino a cui l’ego è esploso senza ritegno.

Matteo Renzi, a fronte di un quadro drammatico e dinanzi all’evidenza del collegamento tra le sue baggianate ed i risultati ottenuti (gli 80 Euro sono l’esempio più lampante di come non ha capito nulla del paese, dell’economia e della politica) ha riproposto altri slogan, con quella consueta comunicazione da sacrestia che gli è consona.

Altre slides e altri annunci, ulteriori rinvii di quanto aveva già dato per fatto, ulteriore richiesta di proroga per la sua permanenza a Palazzo Chigi e ulteriori dosi di sovraesposizione di se stesso.

Aveva incontrato anche il Presidente della Repubblica prima di presentare le nuove slides, dal quale aveva ricevuto le consuete affettuosità e la trasmissione a quattr’occhi di quanto Bruxelles ha ordinato per l’Italia. Nonostante ciò, è arrivato in sala stampa a Palazzo Chigi con il nulla raccontato bene, la fuffa incartata in carta lucida, Unica immagine di rilievo, il cono con crema e limone che con l’aria da bamboccione leccava in favore di telecamera.

La consapevolezza di come dal suo arrivo i conti del Paese siano drammaticamente peggiorati è ormai diffusa e Renzi ha già esaurito la luna di miele con gli italiani. Sarebbe ora, in assenza di una opposizione maggiorenne e di una maggioranza guidata dai boy-scout, recarsi alle urne in autunno. Il baratro è già evidente: più il tempo passa, più rischiamo di caderci dentro.

di Fabrizio Casari

Sarebbero le riforme, quelle ispirate dal governo Renzi, a trainare la ripresa. Peccato che alcuni trimestri non siano sufficienti a valutarne la geometrica potenza: troppo presto. Tutta la loro salvifica funzione la potremo vedere nel giro di un paio d’anni. Parola di Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia nostro malgrado. Qualcuno dovrà telefonargli per avvertirlo che entro due anni l’Italia - salvo sorprese - dovrà iniziare a riportare il debito pubblico in pareggio. Scatterà infatti il criminogeno Fiscal Compact, che dal 2016 in poi prevede una riduzione di un ventesimo l'anno della parte del rapporto debito-Pil che eccede il 60% (e quello italiano supera il 137%).


Al netto di ogni giudizio politico, ciò significherà circa 50 miliardi di manovra l’anno in aggiunta all’esercizio contabile ordinario insito nella legge di Bilancio. Altro che i benefici e salvifici effetti delle riforme: sarà proprio tra due anni che l’Italia stramazzerà al suolo. Non basterà nemmeno un maxiprelievo sui conti correnti o l’ennesima manovra sulle pensioni a far quadrare i conti se nel frattempo non si sarà affermato un nuovo indirizzo politico che ribalti il tavolo con Bruxelles.

Ma poi, di quali riforme parla Padoan? Di quella che ha trasformato il Senato della Repubblica in un dopolavoro per funzionari regionali di partito che, eventualmente inquisiti a livello locale, potranno con un semplice salto nel Senato divenire immuni? Ridurre il peso delle istituzioni politiche e l’efficacia di quelle pubbliche è solo una tappa (fondamentale, però) nel cammino mortale che azzera la sovranità politica, il ruolo ed il peso del bene comune e trasforma i paesi in mercati vergini pronti per il volo radente degli avvoltoi in colletto bianco.

Se non di questa, di quali altre riforme parla il Ministro, caro al Fmi ma sostanzialmente sconosciuto ai più in Italia fino all’arrivo della versione adulta degli scout dell’Agesci al governo? Forse della fenomenale idea di vendere le auto blu su E-bay, suggerita dalle giovani marmotte dell'Esecutivo e rivelatasi un flop colossale (alcune sono state acquistate ad 1 Euro). Oppure delle figuracce sulla quota 96 per i docenti, o più in generale dell’incapacità di affrontare la questione degli esodati? Tutto ciò è il frutto di un improvviso attacco di mamma orsa oppure i tre nipotini hanno messo l’economia in mano a Paperino? D'altra parte é lo stesso Padoan che definì la riforma Fornero "un passo importante per la modernizzazione dell'Italia".

Chiedere alla Bce di fare il suo lavoro e riportare l’inflazione vicina al 2% non è sbagliato, visto che la deflazione è già dannatamente presente e che invece l’economia, se sana, ha bisogno d’inflazione in dosi moderate per favorire i consumi interni e l’occupazione. Ma alla Bce si dovrebbe soprattutto chiedere di cambiare ragione sociale: dovrebbe cioè divenire una banca centrale europea a tutti gli effetti, quindi prestatrice di ultima istanza, guardiana della moneta e garante della solvibilità del deficit dei diversi paesi membri dell’Unione Europea e che adottano l’Euro come moneta ufficiale.

Peccato che la modifica dello statuto della Bce la debbano decidere i governi e non i banchieri. Che poi questi ultimi diano ordini ai primi e non viceversa è solo uno degli aspetti più devastanti della crisi politica ed economica del vecchio continente. Crisi alla quale ora si affaccia anche la Germania, pur dopo aver saccheggiato l’Europa ed aver riempito i suoi forzieri con le politiche di austerità imposte agli altri.

Le sue esportazioni, infatti, vera forza d’urto della teutonica economia, rallentano. A fronte di una crisi che sembra intensificarsi ed allungarsi, piuttosto che affievolirsi ed abbreviarsi come previsto, le politiche restrittive riducono le importazioni di ogni paese, allo scopo di ridurre il peso sui conti pubblici.

Non è quindi un caso se la Bundesbank invita il governo a concertare con i sindacati un aumento orario di due o tre euro negli stipendi e nei salari per rilanciare la domanda, visto che se i consumi interni rallentano insieme alle esportazioni, prima o poi Berlino sarà costretta a mangiarsi la sbobba amara dell’austerity che fino ad ora ha propugnato agli altri. Il che significherebbe, insieme ad altre cose interessanti, la fine del comando tedesco sull’economia europea e l’obbligo di allargamento a Francia, Italia e Spagna della decisionalità sulle politiche economiche dell’Unione, cosa che a Berlino vedono come la peste.

Dunque Padoan parli con Renzi, che certamente riferirà sia al suo leader (Obama) che ai suoi commensali (l’Europa) dell’urgenza dell’agire in Bce. Magari non l’ascolteranno con grande interesse, visto che le sue proposte straordinarie per l’Europa sono riassunte nella Mogherini nel ruolo di Mr Pesc, provando a doppiare il successo ottenuto con la Boschi in Italia. L’Europa però conserva, anche nei suoi errori, un coefficiente di serietà maggiore e, soprattutto, sa pesare e contare al suo interno.

E non si tratta solo di rendere flessibili i tempi e/o i margini del differenziale inventati da un funzionario francese e divenuti bibbia a Maastricht; corriamo verso l’abisso in nome di strampalate e mai dimostrate teorie economiche e ormai si tratta di reagire alla guerra che il capitale speculativo ha dichiarato al lavoro, di rivoltare in senso keynesiano le politiche economiche del continente, aprendo il credito a tutta l’area dell’Unione per la generazione di lavoro e ripresa della produzione industriale e del commercio. Allo scopo, le riforme di cui parla Padoan non servono affatto. Vanno anzi in direzione contraria.

Del resto la sua brillante carriera non può non farci correre brividi lungo la schiena. Al Fondo Monetario Internazionale Padoan si occupava di Argentina quando il paese sudamericano andò in default e in seguito, presso l’Ocse, si occupò con risultati pessimi di Grecia e Portogallo. Di lui, sul New York Times, Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, scrisse: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse». Adesso è qui da noi: al peggio non c'è mai fine.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy