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di Giovanna Musilli
Di riformare la scuola si parla da vent’anni, ma ora il volume delle chiacchiere aumenta. “Merito, autonomia e superamento del precariato” sono le nuove linee guida del governo Renzi, che mercoledì si riunirà in Consiglio dei ministri per discutere il nuovo pacchetto di misure da mettere in cantiere. C’è di che sperare, se non altro perché il giovane Premier ha la moglie insegnante di lettere, quindi sarà sicuramente ben informato sul disastro economico e culturale che ha travolto la scuola italiana negli ultimi due decenni. O forse no?
Il primo provvedimento strutturale che ha modificato l’impianto della scuola pubblica italiana (dopo la riforma che sancì la nascita della scuola media unica nel 1962) è stato l’introduzione dell’autonomia scolastica nel 1994. Poi si sono succeduti solo piccoli interventi, quasi tutti senza peso, per lo più accompagnati da mirabolanti annunci, fino alla cosiddetta riforma Gelmini del 2008, che ha riordinato (cioè complicato) i cicli scolastici e soprattutto ha tagliato otto miliardi d’investimenti pubblici.
Ma torniamo al presente. Dal meeting di Cl il ministro Giannini ha assicurato che “il governo intende eliminare il precariato nella scuola”. Non ha dato dettagli su come ciò potrà avvenire, ma ha spiegato che le supplenze devono essere riconsiderate, in quanto già dall'inizio dell'anno scolastico si conoscono alla perfezione quali e dove sono i posti da sostituire stabilmente. Meno male, se n’è accorta anche lei.
"C'è un meccanismo perverso che ci trasciniamo da decenni - ha detto la Giannini - che non ci consente di lavorare se non con l'organico di diritto e quindi di riempirlo attraverso le graduatorie. I supplenti non saranno eliminati fisicamente - ha precisato con una battuta (divertentissima..) - bisogna però ragionare in termini di organico funzionale e non di organico di diritto. È l'uovo di Colombo che chi lavora nella scuola conosce da tempo, ma che nessun governo ha avuto il coraggio di affrontare direttamente perché significa prendere coscienza che le supplenze non fanno bene né a chi le fa né a chi le riceve”.
Assai discutibile quest’ultima osservazione: per i precari fare supplenze è meglio che essere disoccupati, e per gli alunni avere un supplente è meglio che non avere nessun docente. In ogni caso il ministro intende porre fine al caos che ogni anno affligge le scuole nel mese di settembre relativamente alle cattedre complete rimaste senza titolare, agli incarichi temporanei che i provveditorati ritardano ad assegnare, ai trasferimenti ancora incerti, agli spezzoni orari che non si sa a chi debbano essere affidati, ai vari congedi e aspettative di cui non si hanno mai notizie certe, alle numerosissime classi (di ogni anno e indirizzo) che spesso rimangono senza insegnanti per giorni e giorni.
L’intento è lodevole: il problema è la strada scelta per raggiungerlo. Con il nuovo “organico funzionale” si dovrebbe assegnare ad un gruppo di istituti dello stesso grado un certo numero di docenti che tenga conto di tutte le esigenze d’insegnamento e anche delle eventuali supplenze. I docenti dell'organico funzionale, in altre parole, coprirebbero sia le ore di lezione, sia le supplenze (lunghe e brevi).
Ed è proprio questo il nodo che fa tremare i polsi a migliaia di precari. In questo modo, infatti, le graduatorie d’istituto cesserebbero di esistere e 400mila precari sarebbero ufficialmente licenziati in via definitiva dalla scuola. D’altronde, licenziando i precari, si elimina il precariato!
Sul merito dei docenti il ministro è stato chiaro: “Chi fa di più prende più soldi”, è l'idea di fondo dell'Esecutivo. Di per sé non sarebbe sbagliato, visto che in Italia non esiste nessun organo che controlli l’operato dei docenti e che vagli nel corso degli anni le loro competenze disciplinari e didattiche. Il principio liberista del “chi più lavora più guadagna” potrebbe anche innescare un circolo virtuoso di sempre maggior impegno e dedizione al lavoro da parte dei docenti, se applicato con equilibrio e raziocinio. Ma di che mondo parliamo?
Ad oggi, il ruolo educativo degli insegnanti è svilito, se non vituperato dalle istituzioni. Gli stipendi sono bloccati da otto anni e il conflitto d’interessi ha permeato a tal punto la scuola che ogni anno ci sono docenti di ruolo (anche anziani) che temono di diventare “perdenti posto” nella propria scuola, rischiando di essere provvisoriamente assegnati in qualsiasi altra scuola di provincia, carceri comprese.
Ma come riqualificare il lavoro degli insegnanti? Sbloccando gli stipendi (nessuno ne ha ancora parlato), rivalutando pubblicamente l’importanza della loro opera educativa e valorizzandone il merito con equità e giustizia. Il punto è come tutto ciò possa essere concretamente messo in atto. Per esempio, se il lavoro dei docenti venisse in qualsiasi modo vincolato al giudizio della cosiddetta utenza, ossia gli alunni, sarebbe evidentemente una catastrofe. A questo proposito le parole del premier (“le famiglie vanno coinvolte” nell’istruzione dei figli) non sono molto rassicuranti.
Purtroppo l’ottica della scuola/azienda che deve soddisfare l’utente/cliente è evidentemente destinata a trascinare la levatura culturale dell’istruzione pubblica in un abisso senza fine. Se invece “il giudizio dell’utenza” non fosse decisivo, quali sarebbero i criteri di assegnazione degli eventuali bonus agli insegnanti meritevoli? Solo fumo.
I sindacati sono in allarme: "Se rispondono a verità le indiscrezioni di un intervento sugli scatti e di un tentativo di introdurre elementi di meritocrazia al di fuori di un sistema contrattuale - ha anticipato il leader della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo - per noi è inaccettabile".
Per il leader della Cisl scuola, Francesco Scrima, “quando si punta sul lavoro e sulla professionalità bisogna pensare che lo strumento per valorizzare l'impegno è il contratto di lavoro, bisogna quindi puntare al rinnovo del contratto, bloccato da 8 anni”.
A parte il personale della scuola, gli altri due grandi capitoli su cui il provvedimento del Governo si articolerà sono l'autonomia scolastica (difficile peggiorare ulteriormente la situazione), i programmi (speriamo se ne occupino persone colte) e le competenze degli studenti. Anche su questi capitoli siamo ancora nella fase delle dichiarazioni d’intenti.
Intervenuta a Bologna alla Festa dell'Unità, infine, la Giannini ha incassato un boato di disapprovazione quando ha fatto capire che i test Invalsi potrebbero far parte della valutazioni del merito degli studenti anche nella sua riforma.
Questi test sono fallimentari in partenza, perché vengono distribuiti alle scuole campione senza discrimine di posizione geografica, di risorse, di utenza, di integrazione con il territorio. Non ci spingiamo oltre però, perché anche questo provvedimento per adesso è affidato solo alla tradizione orale. Come tutti gli altri.
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di Giovanni Gnazzi
C’è da domandarsi davvero se l’inquilino di Palazzo Chigi sia in grado di comprendere la differenza che corre tra un raduno dell’Agesci e il governo di uno tra i dieci paesi più importanti del mondo. Probabilmente no, a giudicare l’ormai costante sovrapposizione tra le boutades e le parole al punto da non riconosce più la differenza tra le une e le altre. Parla e agisce senza controllo, minaccia, insulta, schernisce, ne ha per tutti, come fosse in un contesto simile a quello del raduno intorno al fuoco di un gruppo di scout.
Com’è noto, la definizione degli scout non lascia speranze: trattasi di un gruppo di bambini vestiti da cretini, guidati da alcuni cretini vestiti da bambini. E’ tutto da stabilire se Renzi è solo un lupetto o un ben più importante capo scout, ma da venerdì pomeriggio saremmo orientati verso la prima ipotesi. La scenetta del gelato dal carrettino piazzato davanti a Palazzo Chigi è sintomatica di come il bulletto di Pontassieve abbia ormai perso la testa per se stesso, di come cioè la passione di Renzi per Renzi abbia debordato oltre il senso del ridicolo.
Dal momento che l’Economist (non il Granma) lo aveva sbattuto in una foto di copertina trasformata in vignetta, nel quale il boy-scout perenne aveva un gelato in mano mentre si trovava, in compagnia di Hollande e della Merkel, su una barhetta raffigurante l’Euro in procinto di affondare, Renzi ha ordinato di mettere a bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri la sua suscettibilità.
Ha dunque fatto disporre della responsabile del cerimoniale della Presidenza del Consiglio il noleggio del carretto della Grom con gelataio e gelato al seguito per mettere in scena lo spettacolino di lui che mangia il gelato. Il costo della scenetta, sia detto per inciso, è di mille euro, che speriamo il premier paghi di tasca sua o con assegno della sua fondazione, che è la stessa cosa. Ci mancherebbe pure che dovessimo ulteriormente gravare la spesa pubblica degli spettacolini parrocchiali di un omino a cui l’ego è esploso senza ritegno.
Matteo Renzi, a fronte di un quadro drammatico e dinanzi all’evidenza del collegamento tra le sue baggianate ed i risultati ottenuti (gli 80 Euro sono l’esempio più lampante di come non ha capito nulla del paese, dell’economia e della politica) ha riproposto altri slogan, con quella consueta comunicazione da sacrestia che gli è consona.
Altre slides e altri annunci, ulteriori rinvii di quanto aveva già dato per fatto, ulteriore richiesta di proroga per la sua permanenza a Palazzo Chigi e ulteriori dosi di sovraesposizione di se stesso.
Aveva incontrato anche il Presidente della Repubblica prima di presentare le nuove slides, dal quale aveva ricevuto le consuete affettuosità e la trasmissione a quattr’occhi di quanto Bruxelles ha ordinato per l’Italia. Nonostante ciò, è arrivato in sala stampa a Palazzo Chigi con il nulla raccontato bene, la fuffa incartata in carta lucida, Unica immagine di rilievo, il cono con crema e limone che con l’aria da bamboccione leccava in favore di telecamera.
La consapevolezza di come dal suo arrivo i conti del Paese siano drammaticamente peggiorati è ormai diffusa e Renzi ha già esaurito la luna di miele con gli italiani. Sarebbe ora, in assenza di una opposizione maggiorenne e di una maggioranza guidata dai boy-scout, recarsi alle urne in autunno. Il baratro è già evidente: più il tempo passa, più rischiamo di caderci dentro.
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di Fabrizio Casari
Sarebbero le riforme, quelle ispirate dal governo Renzi, a trainare la ripresa. Peccato che alcuni trimestri non siano sufficienti a valutarne la geometrica potenza: troppo presto. Tutta la loro salvifica funzione la potremo vedere nel giro di un paio d’anni. Parola di Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia nostro malgrado. Qualcuno dovrà telefonargli per avvertirlo che entro due anni l’Italia - salvo sorprese - dovrà iniziare a riportare il debito pubblico in pareggio. Scatterà infatti il criminogeno Fiscal Compact, che dal 2016 in poi prevede una riduzione di un ventesimo l'anno della parte del rapporto debito-Pil che eccede il 60% (e quello italiano supera il 137%).
Al netto di ogni giudizio politico, ciò significherà circa 50 miliardi di manovra l’anno in aggiunta all’esercizio contabile ordinario insito nella legge di Bilancio. Altro che i benefici e salvifici effetti delle riforme: sarà proprio tra due anni che l’Italia stramazzerà al suolo. Non basterà nemmeno un maxiprelievo sui conti correnti o l’ennesima manovra sulle pensioni a far quadrare i conti se nel frattempo non si sarà affermato un nuovo indirizzo politico che ribalti il tavolo con Bruxelles.
Ma poi, di quali riforme parla Padoan? Di quella che ha trasformato il Senato della Repubblica in un dopolavoro per funzionari regionali di partito che, eventualmente inquisiti a livello locale, potranno con un semplice salto nel Senato divenire immuni? Ridurre il peso delle istituzioni politiche e l’efficacia di quelle pubbliche è solo una tappa (fondamentale, però) nel cammino mortale che azzera la sovranità politica, il ruolo ed il peso del bene comune e trasforma i paesi in mercati vergini pronti per il volo radente degli avvoltoi in colletto bianco.
Se non di questa, di quali altre riforme parla il Ministro, caro al Fmi ma sostanzialmente sconosciuto ai più in Italia fino all’arrivo della versione adulta degli scout dell’Agesci al governo? Forse della fenomenale idea di vendere le auto blu su E-bay, suggerita dalle giovani marmotte dell'Esecutivo e rivelatasi un flop colossale (alcune sono state acquistate ad 1 Euro). Oppure delle figuracce sulla quota 96 per i docenti, o più in generale dell’incapacità di affrontare la questione degli esodati? Tutto ciò è il frutto di un improvviso attacco di mamma orsa oppure i tre nipotini hanno messo l’economia in mano a Paperino? D'altra parte é lo stesso Padoan che definì la riforma Fornero "un passo importante per la modernizzazione dell'Italia".
Chiedere alla Bce di fare il suo lavoro e riportare l’inflazione vicina al 2% non è sbagliato, visto che la deflazione è già dannatamente presente e che invece l’economia, se sana, ha bisogno d’inflazione in dosi moderate per favorire i consumi interni e l’occupazione. Ma alla Bce si dovrebbe soprattutto chiedere di cambiare ragione sociale: dovrebbe cioè divenire una banca centrale europea a tutti gli effetti, quindi prestatrice di ultima istanza, guardiana della moneta e garante della solvibilità del deficit dei diversi paesi membri dell’Unione Europea e che adottano l’Euro come moneta ufficiale.
Peccato che la modifica dello statuto della Bce la debbano decidere i governi e non i banchieri. Che poi questi ultimi diano ordini ai primi e non viceversa è solo uno degli aspetti più devastanti della crisi politica ed economica del vecchio continente. Crisi alla quale ora si affaccia anche la Germania, pur dopo aver saccheggiato l’Europa ed aver riempito i suoi forzieri con le politiche di austerità imposte agli altri.
Le sue esportazioni, infatti, vera forza d’urto della teutonica economia, rallentano. A fronte di una crisi che sembra intensificarsi ed allungarsi, piuttosto che affievolirsi ed abbreviarsi come previsto, le politiche restrittive riducono le importazioni di ogni paese, allo scopo di ridurre il peso sui conti pubblici.
Non è quindi un caso se la Bundesbank invita il governo a concertare con i sindacati un aumento orario di due o tre euro negli stipendi e nei salari per rilanciare la domanda, visto che se i consumi interni rallentano insieme alle esportazioni, prima o poi Berlino sarà costretta a mangiarsi la sbobba amara dell’austerity che fino ad ora ha propugnato agli altri. Il che significherebbe, insieme ad altre cose interessanti, la fine del comando tedesco sull’economia europea e l’obbligo di allargamento a Francia, Italia e Spagna della decisionalità sulle politiche economiche dell’Unione, cosa che a Berlino vedono come la peste.
Dunque Padoan parli con Renzi, che certamente riferirà sia al suo leader (Obama) che ai suoi commensali (l’Europa) dell’urgenza dell’agire in Bce. Magari non l’ascolteranno con grande interesse, visto che le sue proposte straordinarie per l’Europa sono riassunte nella Mogherini nel ruolo di Mr Pesc, provando a doppiare il successo ottenuto con la Boschi in Italia. L’Europa però conserva, anche nei suoi errori, un coefficiente di serietà maggiore e, soprattutto, sa pesare e contare al suo interno.
E non si tratta solo di rendere flessibili i tempi e/o i margini del differenziale inventati da un funzionario francese e divenuti bibbia a Maastricht; corriamo verso l’abisso in nome di strampalate e mai dimostrate teorie economiche e ormai si tratta di reagire alla guerra che il capitale speculativo ha dichiarato al lavoro, di rivoltare in senso keynesiano le politiche economiche del continente, aprendo il credito a tutta l’area dell’Unione per la generazione di lavoro e ripresa della produzione industriale e del commercio. Allo scopo, le riforme di cui parla Padoan non servono affatto. Vanno anzi in direzione contraria.
Del resto la sua brillante carriera non può non farci correre brividi lungo la schiena. Al Fondo Monetario Internazionale Padoan si occupava di Argentina quando il paese sudamericano andò in default e in seguito, presso l’Ocse, si occupò con risultati pessimi di Grecia e Portogallo. Di lui, sul New York Times, Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, scrisse: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse». Adesso è qui da noi: al peggio non c'è mai fine.
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di Antonio Rei
Parla di soldi alle scuole, tira in ballo i governi precedenti, ma stavolta Matteo Renzi deve trovare il modo d’ingoiare una pubblica bocciatura. E’ vero, l’incapacità di spendere i fondi strutturali europei è una malattia che l’Italia ha da sempre, eppure nel mirino della Commissione Ue c’è proprio il governo dell’ex sindaco di Firenze. Lo rivela una lettera spedita da Bruxelles a Roma un mese fa e i cui contenuti sono stati resi noti ieri dal quotidiano La Repubblica.
In particolare, i tecnici europei si scagliano contro l’Accordo di partenariato del nostro Paese, ovvero il documento curato dal sottosegretario Graziano Delrio e spedito a Bruxelles il 22 aprile per illustrare come saranno utilizzati gli oltre 41 miliardi di fondi europei che l’Italia riceverà fra quest’anno e il 2020 (32 per la politica di coesione più 10 legati al Fondo agricolo: la somma più alta dopo quella destinata alla Polonia).
Le critiche della Commissione non risparmiano quasi nulla: dall’assenza di una “vera strategia” su Agenda digitale, innovazione, infrastrutture e difesa del patrimonio culturale, alle poche risorse impiegate per combattere l’abbandono scolastico, passando per le varie mancanze in materia di “gestione delle acque, trasporti e politiche del lavoro”. In termini generali, Bruxelles parla di “identificazione ancora insufficiente degli interventi strutturali necessari per riguadagnare competitività” e soprattutto di scarsa “capacità amministrativa”. Insomma, se neanche in questo caso si può scrivere la parola “bocciatura”, tanto vale cancellarla dai dizionari.
Fin qui si è parlato del 2014-2020. Non più tardi di due giorni fa, tuttavia, l’Eurispes aveva pubblicato uno studio sull’impiego delle risorse europee per il periodo 2007-2013, da cui è emerso fin qui sono stati spesi meno della metà dei soldi a disposizione: appena 13,5 miliardi dei 27,91 assegnati all’Italia. Se il nostro Paese non troverà il modo di usare entro il 2015 la quota restante dei fondi, Bruxelles se li riprenderà, e noi diremo addio a 14,39 miliardi, una somma pari all'1% del Pil 2013. Fra i 28 Paesi dell’Unione, hanno fatto peggio di noi nell’impiego delle risorse soltanto la Croazia (che però non ha avuto il tempo materiale di spendere, essendo stata ammessa nell’Ue solo l’anno scorso) e la Lituania.
“Da palazzo Chigi si è cominciato a togliere fondi europei alle Regioni che non li spendono e a metterli sulle scuole”, ha annunciato ieri Renzi, sottolineando che fino a oggi l'Italia “ha speso i fondi strutturali peggio di come avrebbe potuto” e per questa ragione “il governo cercherà di cambiare il modello d'impiego di queste risorse”. Poi, la solita chiosa arrogante: “Mi fa piacere che vi siate accorti che c'è un problema sui fondi strutturali”.
Speriamo se ne sia accorto anche Delrio, visto che deve riscrivere daccapo il compito assegnato dall’Ue. “I 40 miliardi di Fondi Ue dell'Accordo di partenariato ancora da stipulare rappresentano oggi semmai l'opportunità di spenderli tutti fino all'ultimo centesimo e non il rischio di perderli - ha detto il sottosegretario -. Le osservazioni non hanno messo in discussione l'impianto della proposta di Accordo italiana, che anzi la Commissione ci ha invitato a rispettare ma suggerendo, in un dialogo costante con il Governo italiano, affinamenti e precisazioni, molto spesso completamente condivisibili”.
Dopo aver minimizzato la bacchettata ricevuta, Delrio passa alle rassicurazioni: “Sulla base dell'intenso lavoro svolto in queste settimane posso affermare che siamo ormai prossimi alla chiusura del testo definitivo dell'Accordo di Partenariato a settembre, nel rispetto della tabella di marcia che ci eravamo dati”.
Anche l’Ue cerca di abbassare i toni: “L'accordo di partenariato previsto nell'ambito della Politica di coesione per l'Italia nel periodo 2014-2020 non è stato né respinto né congelato - ha scritto la rappresentanza in Italia della Commissione -, ma è oggetto di continuo e produttivo processo di negoziato tra i servizi della Commissione e il governo italiano, come previsto dalle regole vigenti. Grazie agli sforzi delle autorità italiane, la discussione sul documento sta procedendo bene verso una adozione nelle prossime settimane”. Dopo di che si tratterà di spendere. La parte difficile, a quanto pare.
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di Antonio Rei
Mario Draghi invita all’eutanasia, Matteo Renzi risponde piccato. In un’intervista pubblicata ieri dal Financial Times, il Premier italiano (e presidente di turno dell’Ue) fa la voce grossa contro il numero uno della Banca centrale europea: “Sono d’accordo quando dice che l’Italia ha bisogno di fare le riforme, ma come le faremo lo deciderò io: non la Troika, non la Bce, non la Commissione Europea. Farò io stesso le riforme, perché l’Italia non ha bisogno di altri che le spieghino cosa fare”.
Salta subito agli occhi quel pronome personale di prima persona ripetuto due volte in due frasi, come se il Parlamento fosse un inutile orpello e il potere legislativo fosse affidato ormai nemmeno al Governo, ma all’unico uomo forte della compagine, Matteo il Grande. Se si va oltre il consueto egocentrismo renziano, tuttavia, la traccia sotterranea conduce a uno scontro fra poteri ben più grandi di Palazzo Chigi.
La sparata del Premier è una replica alle parole pronunciate da Draghi la settimana scorsa al termine dell’ultimo Consiglio direttivo della Bce. Secondo il numero uno dell’Eurotower, “è arrivato il momento che i Paesi dell’Eurozona cedano sovranità all'Europa per quanto riguarda le riforme strutturali” e l’Italia è la dimostrazione di come “l’incertezza generale che circonda le riforme economiche” aggravi “la debolezza degli investimenti privati”. Come a dire: fatevi da parte e lasciate che Bruxelles governi al posto vostro.
Si tratta di una posizione diametralmente opposta a quella degli Stati Uniti. In un’intervista pubblicata il 6 agosto su La Stampa, il segretario di Stato Usa John Kerry si è schierato apertamente dalla parte dell’Italia, promuovendo in toto la linea economica portata avanti da Renzi in Europa.
Da una parte, quindi, gli eurocrati vorrebbero sostituirsi tout-court alla politica italiana; dall’altra, gli statunitensi non solo sostengono l’indipendenza di Roma, ma vorrebbero addirittura che il nostro Paese godesse di maggiore autorevolezza dalle parti di Bruxelles. Una dicotomia che risponde a progetti e interessi divergenti.
I rapporti fra Renzi e gli Usa sono notoriamente stretti e in Europa tutti sanno che quando apre bocca l’ex sindaco fiorentino è come ascoltare un portavoce di Washington, malgrado il suo rapporto cruento con la lingua inglese. In qualche modo lo ha ammesso anche il diretto interessato, quando, in passato, si è paragonato a Tony Blair, che degli americani è stato uno zelante servitore. Gli Stati Uniti hanno voluto Renzi a Palazzo Chigi e ora auspicano che lì rimanga il più a lungo possibile.
Dal punto di vista americano, Renzi è un pedina da usare in funzione anti-Merkel, per contrastare la rigidità dell’Europa a trazione tedesca che sta soffocando un mercato cruciale per gli Usa. Ma purtroppo per Kerry & Co. gli anni Novanta sono finiti: Renzi non è Blair e il suo nanismo politico non riuscirà mai a scalfire la cortina del Fiscal Compact.
La favola della flessibilità è uno specchietto per le allodole e non comporterà in nessun caso una reale svolta della politica economica europea nel segno della crescita. Al contrario, il Pil è e resterà ben lungi dal ripartire. Tutte le stime ottimistiche dei mesi scorsi sono andate in fumo: nel secondo trimestre il prodotto interno lordo del nostro Paese ha registrato un -0,2% che lo ha riportato ufficialmente in recessione e ad oggi non c’è alcun motivo per sperare in una vera ripresa nel 2015, considerando che in sette mesi l’unico provvedimento economico varato dal Governo è stato il bonus Irpef da 80 euro.
Secondo il Presidente del Consiglio “l’Italia ha un grande futuro”, ma oggi sembra assai più verosimile che l’inconsistenza di chi ci governa favorisca la realizzazione del progetto cui vagamente accennava Draghi. La meta finale è l’euro-commissariamento della periferia dell’area valutaria, dove Paesi di alta rilevanza economica - in primis Italia e Spagna - non hanno alcuno strumento politico per opporsi alla colonizzazione della Troika. La lobby di tecnocrati e rappresentanti di gruppi bancari e finanziari che guida le istituzioni comunitarie intende appropriarsi della sovranità esercitata dai singoli Paesi sul proprio destino.
Insomma, Renzi vuole trasformare il Senato in una scatola vuota per rimuovere ex lege un ostacolo al suo potere, eliminando a monte ogni concertazione e possibile dissenso e Bruxelles e Francoforte vogliono fare la stessa cosa con lui.