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di Tania Careddu
Femminicidio: estrema violenza fisica, economica e psicologica da parte dell’uomo contro la donna in quanto tale. Violenza contro il genere femminile. Legata alla negazione dell’uguaglianza fra esseri umani di sesso diverso e alla conseguente persistenza di residui culturali che ancora ospitano concetti quali subalternità e controllo nel rapporto uomo-donna. E così, cala il numero degli omicidi ma si impenna la percentuale di donne uccise. Centottanta casi annui, ossia una donna uccisa ogni due giorni, con’impressionante regolarità statistica che fa poco ben sperare.
Se l’omicidio volontario, nel ventennio precedente, si caratterizzava come fenomeno legato alla criminalità organizzata, nell’ultimo decennio, invece, si è ripiegato all’interno delle relazioni di prossimità e, particolarmente nel contesto familiare. Inoltre, a spiegare la crescente femminilizzazione del fenomeno omicidiario in Italia, sono i delitti per rapina nei quali le donne vedono crescere la propria esposizione al rischio in quanto spesso in una condizione di vulnerabilità, anziane o sole.
Tra il 2000 e il 2013, secondo quanto si legge nel secondo Rapporto sul femminicidio in Italia stilato dall’EU.R.E.S., si contano duemilatrecentonovantanove donne vittime di omicidio, milleseicentonovantadue delle quali uccise per mano di un famigliare. Solo nel 2013 sono state centosettantanove, il valore più alto degli ultimi sette anni, di cui centoventidue per mano di un partner o di un ex; ventidue casi, invece, sono da ricondursi a omicidi avvenuti nelle altre relazioni di prossimità, tipo vicinato, lavoro o tra conoscenti, consumatisi per motivi economici o questioni di lavoro.
Le vittime hanno mediamente cinquantatre anni anche se si nota una larga componente di donne over sessantaquattro, confermando la vulnerabilità di tale fascia anagrafica sia all’interno del nucleo famigliare sia nel contesto della criminalità diffusa. Sono donne per lo più disoccupate, a conferma di una condizione di marginalità economica e sociale che rappresenta un ingente fattore di rischio, considerando che la destrutturazione dell’identità e dei riferimenti sociali costituisce uno strumento di condizionamento di potere a vantaggio dell’omicida. Che lo pone in essere per rafforzare la propria posizione di dominio, azzerando qualsiasi senso di pudore del proprio comportamento (e non solo) violento, casalinghe o pensionate.
Tra le occupate, di contro, si rileva una importante trasversalità, sebbene le collaboratrici domestiche, le colf e le badanti risultino le più coinvolte, forse per la spiccata valenza di familiarità che questo impiego comporta. Più vulnerabili fra tutte: le immigrate. Gli autori: uomini intorno ai quaranta anni. Partner, amanti o ex compagni. Un elemento che sembra indicare nelle dinamiche e nella trasformazione del rapporto uomo-donna il principale nucleo alla base della violenza contro le donne.
Il movente è sempre quello detto (erroneamente, ndr) passionale o del possesso (controllo) a rappresentare l’incapacità patologica di separarsi dell’uomo di fronte alla decisione della donna di interrompere un rapporto, compromettendo finanche la possibilità, pure a lungo termine, di immaginare un nuovo progetto di vita.
E seppure gli altri moventi (da citare per diritto di cronaca sociologica) riguardano la sfera della litigiosità e del conflitto quotidiano e l’ampia area del disagio, presente in oltre un quarto dei casi censiti quali i disturbi psichici degli autori, o raptus riconducibili alla frustrazione dell’omicida nel dover sostenere le conseguenze materiali ed economiche della separazione o quelle presenti nei dispositivi giudiziali in merito all’affidamento dei figli, bisogna ricondurli tutti a una destrutturazione interna del carnefice, latente e non esplicitata o non colta dal contesto sociale.
Ancora pesantemente ancorato a stereotipi che inquadrano la donna come centrale nelle dinamiche e negli equilibri famigliari, sia in relazione alla dimensione materiale e organizzativa sia a quella coesiva e affettiva. Una centralità che la rende simbolicamente responsabile delle diverse situazioni di squilibrio o disagio famigliare, attraendo su di sé la carica di rabbia, odio e violenza degli altri membri della famiglia.
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di Carlo Musilli
Nel Paese europeo con il più alto tasso di evasione fiscale, l'Italia, una folla di contribuenti finanzia la Chiesa cattolica senza saperlo. E' una sorta di redenzione involontaria che si realizza attraverso l'8 per mille, canale in cui fluisce ogni anno oltre un miliardo di euro. Buona parte di queste risorse potrebbe dare sollievo alle casse pubbliche, bilanciando in parte i tagli alla spesa imposti dall'Europa, ma lo Stato non muove un dito perché ciò avvenga. Al contrario, si rassegna di buon grado a incassare sempre meno pur di non fare concorrenza alle confessioni religiose.
A dipingere questo scenario è la Corte dei Conti, che la settimana scorsa ha pubblicato un rapporto sulla “Destinazione e gestione dell’8 per mille” versato dagli italiani. Secondo i numeri ufficiali citati dalla magistratura contabile, quest'anno il valore del contributo è stato pari a 1,278 miliardi di euro. Di questa somma, appena 170,347 milioni sono andati allo Stato, mentre 1,054 miliardi sono stati girati alla Chiesa cattolica, che ha così più che quintuplicato il risultato ottenuto nel 1990, anno d’esordio dell’8 per mille, quando incamerò circa 200 milioni di euro.
E' chiaro che molti italiani scelgono liberamente di destinare alla Chiesa il proprio contributo, eppure non sono loro a spostare la maggior parte delle risorse. Stando ai calcoli dell’Agenzia delle Entrate, nel 2011 (ultimo anno per il quale sono disponibili i dati) la quota di 8 per mille attribuibile alla Chiesa cattolica in base alle scelte espresse dai contribuenti era pari al 37,93% (contro il 6,14% di quella attribuibile allo Stato), mentre la somma effettivamente corrisposta ha raggiunto l’82,28% del totale (contro il 13,32% incassato dallo Stato).
Com'è possibile una tale sproporzione? Il segreto è nel criterio con cui vengono ripartiti gli 8 per mille dei contribuenti che non hanno indicato alcun destinatario. La Corte, citando un testo della Presidenza del Consiglio, spiega che “la percentuale di preferenza delle scelte espresse determina l’assegnazione dei fondi derivanti dalle scelte non espresse”, e questo, secondo i magistrati contabili, porta al paradosso per cui “i beneficiari ricevono più dalla quota non espressa che da quella” destinata volontariamente dai contribuenti (54% contro 46%). Insomma, la maggior parte degli italiani non indica alcun destinatario per il proprio 8 per mille, quasi sempre senza sapere che i suoi soldi non andranno allo Stato, ma saranno spartiti in modo proporzionale sulla base alle scelte fatte dalla minoranza.
Su questo meccanismo, la magistratura contabile ritiene che “non vi sia adeguata informazione, benché coloro che non scelgono siano la maggioranza e si possa ragionevolmente essere indotti a ritenere che solo con un’opzione esplicita i fondi vengano assegnati”. Secondo la Corte, inoltre, “manca trasparenza sulle erogazioni, non ci sono verifiche sull'utilizzo dei fondi erogati, né controlli sulla correttezza” delle indicazioni dei contribuenti, “né un monitoraggio sull'agire degli intermediari”.
Non solo: “Nell'attuale contingenza di fortissima riduzione della spesa pubblica in ogni campo – si legge ancora nel rapporto – queste risorse sono le uniche ad essersi notevolmente e costantemente incrementate”, ma lo Stato “mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando l’impressione che l’istituto sia finalizzato solo a fare da apparente contrappeso al sistema di finanziamento diretto delle confessioni”.
A sostegno di queste conclusioni, i magistrati ricordano che lo Stato non ha mai promosso in modo adeguato le proprie iniziative per spingere i contribuenti a destinare l'8 per mille alle casse pubbliche. Anche quest'anno le campagne informative sono state insufficienti, nonostante fosse stata introdotta la possibilità di destinare le risorse all’edilizia scolastica.
E' possibile tuttavia che il silenzio sull'8 per mille torni utile anche per tenere nell'ombra la prassi delle "distrazioni". La Corte sottolinea infatti che lo Stato sposta regolarmente i contributi percepiti su finalità di bilancio diverse, se non antitetiche, rispetto a quelle indicate dai contribuenti. E non si tratta di una pratica marginale: nel corso degli anni oltre due terzi delle somme assegnate alle casse pubbliche sono state reindirizzate (1,8 miliardi in 24 anni).
Nel 2011 e nel 2012 la "distrazione" ha riguardato addirittura il 100% dei soldi incamerati con l'8 per mille. Quest’anno, invece, dei 170 milioni incassati si sono salvati appena 400mila euro. Con buona pace delle "finalità speciali": lotta alla fame nel mondo, assistenza ai rifugiati, calamità naturali, conservazione dei beni culturali, e, naturalmente, edilizia scolastica.
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di Antonio Rei
La polemica del Nuovo Centrodestra sulla social card è quanto di più strumentale si sia visto in Italia negli ultimi mesi. Gasparri & Co. gridano allo scandalo perché, secondo loro, un emendamento del governo alla legge di Stabilità estenderebbe agli immigrati i benefici della carta sociale. Ma la premiata ditta Ncd dà solo prova d'ignoranza: secondo la legge italiana, infatti, gli stranieri con regolare permesso di soggiorno godono di questo diritto ormai dall’inizio del 2014. E non perché l'Italia sia un Paese solidale e progressista, ma perché ce lo ha imposto la Corte di Giustizia Europea.
I vertici parlamentari del partito di Angelino Alfano hanno chiesto che "il governo ritiri l'emendamento sulla social card agli stranieri", mentre il senatore Maurizio Gasparri ha sentenziato che "il regalo agli immigrati Renzi non può farlo sulla pelle degli italiani". Eppure, meno di 24 ore prima, il Tesoro aveva spiegato in modo abbastanza chiaro che "l'emendamento del governo non prevede modifiche alle condizioni personali, anche quanto alla nazionalità, per accedere al beneficio, rispetto alla legislazione vigente, che prevede anche per il soggetto extracomunitario con regolare permesso di soggiorno di lungo periodo il diritto alla social card".
Per comprendere l'ottusità della destra sul tema, è bene ripercorrere la storia di questo strumento, che, ricordiamo, è una carta prepagata rilasciata da Poste Italiane con cui lo Stato eroga 80 euro ogni due mesi in favore dei bambini e degli anziani svantaggiati per il pagamento di cibo e bollette.
Nata nel 2008 con l'allora ministro del Welfare Maurizio Sacconi (oggi guarda caso nelle fila di Ncd), la carta sociale fu concessa, inizialmente, ai soli cittadini italiani. Il Servizio Antidiscriminazione dell'Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione presentò quindi un esposto alla Commissione europea contro l'esclusione degli stranieri. In seguito, nel tentativo di evitare una procedura d'infrazione davanti alla Corte di Giustizia europea, il governo Monti varò nel 2012 un nuovo beneficio chiamato "carta acquisti sperimentale", destinato ai Comuni con più di 250mila abitanti, che stavolta era esteso anche ai cittadini Ue e ai loro familiari, ai rifugiati e ai cosiddetti lungosoggiornanti.
La toppa però non fu sufficiente a chiudere la falla giuridica: visto che la precedente social card era ancora in vigore su tutto il territorio nazionale a beneficio dei soli cittadini italiani, la Commissione europea avviò una procedura formale d'infrazione per i "profili discriminatori" della legge del 2008.
Arriviamo così all'anno scorso, quando, con la legge di Stabilità 2014, il governo Letta cancellò i famosi "profili discriminatori" nell'accesso alla social card, estendendola anche ai cittadini di Stati membri dell'Unione europea, ai loro familiari e agli extracomunitari che soggiornano in Italia con il permesso per lungosoggiornanti. Per rispondere al conseguente aumento del numero dei beneficiari, nella stessa manovra fu previsto un incremento degli stanziamenti sia per la carta ordinaria sia per quella sperimentale.
A cosa serve, quindi, l'emendamento del governo Renzi nella nuova legge di Stabilità? A rimediare a un altro errore di procedura che - se non venisse sanato - costringerebbe tutte le persone che hanno ricevuto i soldi dalla social card fra gennaio e marzo di quest'anno a restituire quanto percepito. Suona assurdo, ma è così. E non parliamo soltanto degli stranieri, con buona pace di Ncd.
La spiegazione ufficiale arriva ancora una volta dal ministero dell'Economia: l'emendamento del governo "ha l'obiettivo di porre rimedio alla situazione che si è creata a seguito della mancata conversione della norma contenuta nell'articolo 9 comma 15 del D.L. 150/2013 (decreto proroga termini) - scrive il Tesoro -. Tale disposizione garantiva la continuità del programma Carta Acquisti consentendo a Poste italiane spa di erogare il servizio di pagamento in favore degli aventi diritto alla social card in attesa dell'espletamento della gara per la nuova aggiudicazione del servizio.
Lo stralcio della norma in sede di conversione in legge del decreto avrebbe quindi come conseguenza la mancanza per Poste della titolarità giuridica ad effettuare il servizio. Poste spa dovrebbe quindi recuperare da questi soggetti indigenti le somme erogate da gennaio 2014 a marzo 2014, quando la società, dopo aver vinto la gara indetta dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, ha stipulato il relativo contratto (24 marzo 2014)".
La faccenda, insomma, non è proprio lineare. Eppure, per quanto ingarbugliata, non si tratta di microchirurgia: sono fatti che ogni parlamentare ha il dovere di conoscere prima di lanciarsi in crociate non solo retrograde, ma anche prive di fondamento giuridico. Purtroppo, però, la destra italiana è vittima del solito incantesimo: basta che qualcuno pronunci la parola "immigrati" e subito scatta l'istinto primordiale a difendere la terra, le donne e il cibo, ricompattando le fila della tribù.
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di Antonio Rei
Uno degli obiettivi mai dichiarati ma più che evidenti di Matteo Renzi è azzerare il ruolo politico dei sindacati, ridurli a una congrega di pittoreschi buontemponi con cui si parla solo per cortesia, senza nemmeno l'idea di un dialogo. In questa miserabile verità coincidono il punto di partenza e d'arrivo delle polemiche fra il Presidente del Consiglio e i rappresentanti dei lavoratori su Jobs Act e legge di Stabilità.
Un calderone in cui lo scontro politico più rilevante è quello che da qualche giorno contrappone il Premier al segretario della Fiom, Maurizio Landini. "La modifica dell’articolo 18 preoccupa più qualche dirigente e qualche parlamentare che la nostra base", dice Renzi. "Il governo non rappresenta gli interessi dei lavoratori", replica il sindacalista.
Di per sé, il botta e risposta non stupisce affatto. Nell'orizzonte culturale tragicamente limitato del Premier la parola "concertazione" equivale a una bestemmia che evoca il puzzo stantio dell'immobilismo passato, il primo capretto da sacrificare sull'altare del nuovo decisionismo alla fiorentina.
L'ideologia renziana prevede che a decidere sia il Capo, punto e basta. Tutto riconduce a questa unica regola fondamentale: la squadra di governo composta perlopiù yes-men (and women), ministri improvvisati il cui primo compito è essere d'accordo col boss; l'ostracismo di quella fetta di partito che - dopo aver portato i voti con cui ora il Pd è al governo - osa esprimere un punto di vista differente da quello del nuovo Padrone; lo svuotamento del potere legislativo del Parlamento, trasformato in una congrega di passacarte chiamata a votare fiducie a iosa, mettendo bocca il meno possibile.
In un contesto del genere, che speranza possono avere i sindacati? Nessuna, è ovvio. Di qui la scena grottesca dei tre segretari confederali che si siedono a parlare della manovra con i rappresentanti del governo, per poi alzarsi e riferire attoniti che gli interlocutori "non avevano mandato a trattare". Perché il Capo aveva detto loro di andar lì a fare scena, nulla di più. Tutto ciò è assolutamente coerente con l'idea che Renzi ha del ruolo delle istituzioni.
L'unica nota stonata in questa sinfonia, altrimenti accordatissima, è proprio Landini. Quando il nuovo governo è entrato in carica sembrava che il leader dei metalmeccanici avesse un rapporto a dir poco privilegiato con il Premier. Un accenno d'intesa che però non aveva nulla a che vedere con gli interessi degli operai: Renzi teme Landini perché nella morta gora della sinistra è il solo comunicatore in grado di tenergli testa, il solo capace di raccogliere intorno a sé un consenso non trascurabile, il solo - potenziale - avversario politico. Meglio averlo come amico, no?
Il segretario della Fiom non è però l'ultimo degli sprovveduti e si sottrae al bacio della morte. Sfrutta per quanto possibile la corsia preferenziale che il capo del Governo gli riserva, ma si rende conto che dare un minimo segnale d'assenso su una delle tante assurdità contenute nella manovra e nel Jobs Act significherebbe per lui la morte politica istantanea.
"Su Renzi ho cambiato idea quando ho capito che ha scelto le politiche di Confindustria e di seguire quello che gli chiedeva l'Ue - ha detto Landini ai microfoni di In Mezz'ora -. Quando incontrai Renzi parlammo di articolo18. Lui mi disse che l'Europa premeva su di lui e io gli dissi che se avesse toccato l'articolo 18 avrebbe aperto la strada per un conflitto nel Paese. All'inizio diceva di voler cambiare Paese e io dissi 'cambiamolo insieme'". Pia illusione.
Landini assicura poi di non puntare alla politica: "Io voglio continuare a fare il sindacalista, voglio che sia chiaro che a me di fare la minoranza non me ne frega proprio nulla. Voglio rappresentare le persone. Per cambiare un Paese lo devi governare, non devi stare all’opposizione". E allora, intanto, via libera agli scioperi e alle manifestazioni "in piazza il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli" contro le politiche del governo che "non stanno andando verso più tutele, più diritti, meno precarietà, un rilancio degli investimenti - chiosa Landini - Vogliamo conquistare un confronto che Renzi ci nega".
Se il Premier non spegnerà questo incendio da lui stesso appiccato rischierà di perdere non pochi voti, considerando che un sondaggio dell’Istituto Piepoli accredita un eventuale partito Fiom attorno al 10%. Renzi lo sa, ma, per il momento, nemmeno questo basta a fargli mettere in dubbio la sua concezione del potere come esercizio solitario. "Se si arrivasse a una scissione, ma non ci si arriverà - si bulla il Capo del Governo -, la nostra gente sarebbe la prima a chiedere: che state facendo?". Non sono d'accordo con lei, Presidente. E' ancora legale.
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di Fabrizio Casari
Più di un milione di lavoratori, studenti e pensionati, precari e disoccupati, hanno deciso di dare al governo Renzi il benvenuto in società. Poco importa che il premier, asserragliato tra manager e boyscout nel recinto futurista della Leopolda, dove si svolgono le prove generali del prossimo PD, affermi che “sono finiti i tempi nei quali la mobilitazione di piazza faceva cadere i governi”; è un’ennesima smargiassata tra le tante. Quando quei milioni di vittime delle sue politiche al servizio dei sogni di Confindustria si recheranno alle urne, il bulletto di Pontassieve si accorgerà cosa significa provare a governare senza e contro il mondo del lavoro.
A Roma, ieri straordinariamente colorata di rosso, ha preso residenza per una giornata quel pezzo di Paese che non indossa i completini stretch della Boschi e non dice insulsaggini come una Picierno qualunque. E’ quell’Italia che quando parla della sua esistenza sa di cosa parla, quando scende in piazza per rivendicare i suoi diritti sa riconoscere senza suggeritori chi è a favore e chi è contro. Anche quando, diversamente da ciò che è avvenuto durante gli ultimi 90 anni, il partito che dovrebbe sostenere le ragioni del mondo del lavoro s’innamora degli squali della finanza e rifiuta di ascoltare i lavoratori.
La caratteristica principale del corteo di Roma, infatti, è che per la prima volta una mobilitazione sindacale, una vera e propria manifestazione di popolo, ha come avversario dichiarato un partito di centrosinistra, che applica ricette identiche a quelle della destra che per vent’anni ha intossicato il paese. Quando il premier diventa l’oggetto di slogan e insulti da parte dei lavoratori, e quel premier è anche il segretario del partito che viene dalla storia del PCI, allora davvero si può dire che un passaggio storico si è compiuto.
Una immensa piazza rossa ed operaia, mobilitata contro Renzi con le stesse modalità con le quali si mobilitò contro i governi pentapartito prima e Berlusconi poi, racconta che alla continuità delle politiche - e persino degli atteggiamenti - corrisponde una continuità del rifiuto e delle mobilitazioni. Questo ha detto al PD il corteo immenso di oggi: le politiche di destra, chi le applichi poco importa, troveranno sempre una risposta di sinistra.
Il presidente del consiglio, come al solito copiando Berlusconi, ha ricordato come un milione in piazza sia meno dei sessanta a casa, dimenticando che i numeri non sono mai così netti in politica. Renzi, ormai diverso da Berlusconi solo per le modalità delle sue cene, non pare rendersi conto della fine prematura della sua luna di miele con il Paese e ritiene che la passione di Marchionne e Farinetti, i soldi di Serra e il plauso di Verdini siano sufficienti per governare. Una visione limitata, coerente del resto con la cultura politica dell’ex sindaco.
Se pensava però che il sindacato fosse ormai ai margini, delegittimato e isolato, in crisi di consensi e di credibilità, Renzi ha fatto male i suoi conti. Se credeva che la sua capacità di mobilitazione fosse ormai un ricordo e che lo scendere in piazza contro un governo di centrosinistra sarebbe stato difficile per molti dei suoi iscritti e simpatizzanti, ha sbagliato di grosso. E se pensa che si può governare non solo "senza", ma soprattutto "contro" il mondo del lavoro, compie l’ultimo, fatale sbaglio. Quei lavoratori che hanno riportato Roma al ruolo di città aperta, vivono, protestano contro le ingiustizie e poi votano.
Ed è qui che la questione politica emerge dirompente. La manifestazione di oggi chiede con forza una sua rappresentanza politica. C’è la necessità d’intercettare e organizzare un fiume di rabbia e impotenza che scorre lungo tutte le dorsali dell’Italia. C’è un pezzo importante del Paese che ha compreso come il lavoro abbia cessato di rappresentare il motore della società e come il fare impresa sia ormai un detto senza senso. Il lavoro è ormai un fastidioso ostacolo al processo di accumulazione basato sull’utilizzo del denaro per fare denaro, sulla pura speculazione per produrre ricchezza.
Chi ritiene invece che non la modernità ma il progresso siano l’orizzonte da puntare, che debba essere il lavoro a rappresentare il motore principale dello sviluppo socioeconomico di un modello di società progressista, era in marcia nelle strade di Roma, idealmente accompagnato da altri milioni di persone che, pur condividendo, non hanno potuto partecipare.
Un partito del lavoro è la necessaria contrapposizione al partito della nazione per il quale il presidente dl consiglio lavora alacremente. Un partito del lavoro capace di riunire le sensibilità più eterogenee tenendole insieme nella rivendicazione di una società costruita sulla dignità del lavoro, sulla sacralità dei principi costituzionali, può e deve essere la barriera giusta contro la destra, quale che sia il nome con cui si presenta. Il partito della nazione che ha in mente Renzi è un partito di centro a venature di destra nella concezione del modello sociale ed economico, appena sfrangiato da una spolveratina di diritti civili ad impatto relativo sulle sensibilità ecclesiali, peraltro ormai decisamente più disponibili con l’avvento di Papa Francesco.
Non è più tempo di indugi e di distinguo. Se si vuole riportare la dignità del lavoro nell’agenda della politica italiana, non c’è altro percorso che non quello politico. La dimensione sindacale, pur fondamentale, non è sufficiente se non c’è rappresentanza politica. Dunque per il leader della Fiom, Landini, è arrivato il momento di sciogliere i nodi e le riserve che, legittimamente, ha avuto ed ha nei confronti di una riconversione politica del suo impegno sindacale. Chiamarsi fuori dall’urgenza di offrire rappresentanza politica al lavoro, da oggi non è più possibile. “Se non ora quando?” dice uno splendido slogan delle donne che annuncia l’impossibilità di rimanere chiusi nel proprio recinto.
Le crepe e il disincanto apertosi negli iscritti ed elettori del PD, dove solo uno su cinque ha rinnovato l’iscrizione; il superamento del Rubicone politico di tanti che oggi sono scesi in piazza contro il governo guidato dal partito che hanno votato; la disponibilità ad azzerarsi delle frattaglie della sinistra antagonista a fronte di un processo aggregativo a carattere ampio, sono il capitale di partenza della nuova, improcrastinabile, impresa politica. Si possono quindi comprendere - ma non più condividere - esitazioni e timori di essere considerati alla stregua del già visto, della scorciatoia politicista, di essere accusati magari di arrivismo personale.
Ci sono momenti nei quali il bene comune deve prevalere anche sulle ragioni, pur legittime, dei singoli. Quando la richiesta di modifica della destinazione originaria viene dalle piazze, quando riceve una investitura popolare, quando raccoglie istanze declamate in ogni modo dalla società, un processo di organizzazione politico rappresenta tutt’altra cosa dalle unificazioni in laboratorio.
Landini non deve ripetere l’errore gravissimo di Cofferati. Deve assumere la leadership della sinistra italiana. Può e deve trasformare le ragioni del mondo del lavoro in un progetto politico. Tirarsi indietro sarebbe come tradire quella piazza e la storia comune. Portare la piazza di oggi dentro a un progetto politico è invece un imperativo categorico. Ci sono più di un milione di ragioni per farlo.